Racconti

di Luca Pennati


 

Devo smetterla col sakè, mi da alla testa e il cervello si estranea troppo. D’altra parte credo che mi sia concesso di aver cercato rifugio nella bottiglia. Non ho niente da leggere, la radio continua ad essere fuori uso, il cellulare neanche lo guardo. Quel fantasmagorico smartphone da 499 fottuti euro si è scaricato nel giro di un paio d’ore lo stesso giorno del casino, senza che mi sia stato minimamente utile. Durante il putiferio la rete è saltata subito, evidentemente a causa dell’intasamento delle linee e lo stesso è successo alla connessione internet. Tutta questa tecnologia spinta e poi, quando ti serve veramente, ti abbandona a te stesso. Non ho con me neanche l’agendina con tutti i miei codici e numeri di telefono annotati alla vecchia maniera. È rimasta in ufficio sulla scrivania, come lo zainetto che di solito mi porto dietro. Quella mattina mi ero dimenticato a casa l’abituale schiscetta e quindi ho optato per passare la pausa pranzo al ristorante sotto l’ufficio. All Sushi You Can Eat a 9 euro e 90. Solo a mezzogiorno. Mica male come offerta. Brutta cosa i ricordi.

Quindi, qua dentro ho incominciato ben presto ad annoiarmi. Perciò mi sono seduto davanti al mega schermo naturale che è diventata la vetrina del ristorante. Devo dire che in questi giorni da recluso per scelta, ne ho visti davvero di tutti i colori. In particolare, sono stato occupato a catalogare ben più delle cinquanta sfumature che il rosso del sangue può regalare. Già, perché di sangue, là fuori, ne scorre a fiumi.

Guardare l’esterno è l’unico modo per capire cosa sta succedendo veramente. Di conseguenza, ho sistemato i tendaggi del negozio in modo tale da avere una vista abbastanza ampia senza rischiare di attirare l’attenzione di chicchessia. Naturalmente finché la luce del giorno lo consente. La notte è impossibile capire cosa accade fuori. C’è un buio quasi irreale, davvero inquietante, appesantito dall’assenza di rumori meccanici di sottofondo.  Come se qualcuno, ad una cert’ora, mettesse sopra la mia testa, un coperchio nero capace di sigillarmi dal mondo esterno. Tuttavia anche all’interno di questo bozzolo scuro, capita di frequente di sentire il dolore delle persone. Urla lancinanti che squarciano la notte come lame affilatissime.

Chi sono? Perché urlano? Quando li sento, mi rannicchio vicino ai sacchi di riso, quasi li abbraccio e poi mi copro fin sopra la testa con le tovaglie. Mi sembra di rimanere sospeso, in attesa che arrivi il giorno. A questo punto, però, niente ha più importanza, potrebbe arrivare, da un momento all’altro, anche il cataclisma definitivo per spazzarci via tutti.

La risposta mi è arrivata prepotentemente come un pugno in piena faccia. Mi è bastato vederli. Erano gruppi di gente in cammino. Non troppo lenti ma neanche di corsa. In preda effettivamente ad un qualcosa d’inspiegabile. Ho dovuto riconoscere che le notizie che avevo sentito erano pure ottimiste.

I primi che ho visto erano solamente sporchi; in un secondo tempo, gli altri gruppi che si sono avvicendati, ho notato come fossero sempre più malconci e imbrattati di sangue. Là fuori c’è gente mostruosamente sfigurata che dovrebbe essere morta stecchita ed invece cammina portandosi dietro parti di corpo umano. Qualcuno addirittura se le mangia mentre si trascina. Hanno sguardi catatonici spaventosi.

Non c’è una costanza nell’andirivieni di queste persone. Credo di non aver mai visto la stessa persona due volte. Evidentemente non compiono un percorso in tondo ma passano per andare chissà dove.

La cosa strana è che arrivano ad ondate. Normalmente i passaggi sono anticipati da urla e rantoli che emettono in coro come se fossero dei partecipanti ad un torneo di gargarismi. Chissà che mal di gola. Chi glielo fa fare di esibirsi con tutti quei versi? Forse l’infezione intacca la parte del cervello che regola le funzioni vocali? Non lo so. Comunque nessuno parla. Neanche una parola.  Sono solo dei grossi gruppi casinari alternati al nulla. Qualche giorno fa ho assistito al passaggio del gruppo più numeroso. Una vera e propria orda. Hanno impiegato quasi otto ore ad esaurirsi. Erano centinaia di migliaia e riempivano tutta sede stradale. Non fanno fatica ad aggirare gli ostacoli. Hanno un atteggiamento simile a quei robottini aspirapolvere tanto costosi. Ho avuto poi la sensazione che preferiscano stare tutti insieme, come un bel gruppone di corridori in partenza per la Stramilano. Probabilmente per farsi forza a vicenda, ho pensato. Forse tra di loro riescono anche a capirsi? Erano talmente tanti che molti si sono accostati alle vetrine del ristorante, così ne ho approfittato per osservarli da vicino. Ero troppo curioso e visto che mi sentivo al sicuro, mi sono avvicinato anch’io al vetro. Ho aperto la porta. Nonostante ci fosse la saracinesca ho capito all’istante di aver fatto una cazzata. In molti hanno avvertito la mia presenza. Forse l’olfatto o l’udito gli funziona ancora, allora si sono fermati davanti all’ingresso. Spingevano e picchiavano i pugni sulla saracinesca che ha incominciato a scricchiolare. Questo rumore, insieme ai rantoli degli infetti, era assordante. Ho temuto il peggio. Sbavavano come cani rabbiosi, gli occhi acquosi fuori dalle orbite. Mi avrebbero sbranato se avessero potuto. In tanti hanno allungato le mani tra le grate. La curiosità me li ha fatti toccare, pur stando attento a non farmi afferrare. Erano freddi, gelidi. Poi puzzavano, mamma se puzzavano. Un letamaio ambulante. Prima che fossi sopraffatto dai conati di vomito ho rinchiuso la porta d’ingresso. Non è stato facile. Facevano resistenza. Per fortuna, dopo circa una mezz’ora  che non mi sentivano, la maggior parte si è allontanata.   Probabilmente, qualcosa di più appetitoso del sottoscritto, deve averli attirati lontano. Poveraccio.  Fuori ne sono rimasti giusto un trittico che sembra si siano affezionati. Forse erano clienti di Miyagi. Comunque, vedendo che quelli non mi davano preoccupazioni son tornato alle mie cose. Quali? semplice: mi sono seduto sul trespolo davanti al Kaiten ormai immobile e ho guardato Rick e Daryl, si ho chiamato i miei due compagni con le squame come i due protagonisti di The Walking Dead, mi sembravano nomi appropriati.  Mi sono detto: ma non potevo essere anch’io un pesce con la memoria a breve termine inesistente? Faccio tanto il figo, dico che è meglio ammazzarmi e invece son qui che smanio dalla voglia di capire. Vabbè, tanto me lo sento che prima o poi tenterò di uscire di qui, è solo questione di tempo. Devo vedere coi miei occhi se là fuori è rimasta anche solo una possibilità di riuscire a mettersi in salvo.

Intanto, sono finite le confezioni di alghe nori che erano in dispensa. Mi è rimasta soltanto una cassetta d’acqua e dieci bottiglie di sakè. Maledetto. Devo restare lucido.

Purtroppo le mie giornate sono scandite dalla fame, continuo a guardare Rick e Daryl che nuotano nell’acquario. Sono quasi più attraenti degli infetti che stazionano davanti alle vetrine. Ogni tanto un infetto striscia le dita luride sul vetro facendo quel rumore che ti fa accapponare la pelle. Nono sono agitati ma sentono che sono qui dentro. Non mi vedono ma mi percepiscono. Credo sia comunque escluso che possa andarmene passando dall’ingresso. Per fortuna che la finestra del bagno è abbastanza ampia per permettermi di andare fuori.

Devo rimettermi in forze. Allora, per prima cosa mi sono preparato uno zuppone cercando di smollare il riso con una bottiglia d’acqua poi ho deciso di mangiare un amico nuotatore. Avevo poca scelta però. Infatti il pesce scorpione Rick inevitabilmente l’ho dovuto scartare. Credo che con quegli aculei non sia commestibile. Quindi ho optato per l’altro. Non so che razza sia ma tra i due è quello più simile ad un pesce comune.  Pertanto ho tirato fuori Daryl e l’ho adagiato sul tagliere che di solito utilizzava il povero maestro Miyagi, la coda ha sbattuto per un po’. Ora si è calmato. Chissà se ha pensato alla fine ingloriosa che stava per fare. Mi sono ricordato di una volta che avevo pescato un pesce gatto e dopo averlo tenuto nel freezer due giorni, quel baffuto era ancora vivo. A Daryl ho tagliato la testa per precauzione e dopo sono passato al sezionamento. Per iniziare l’ho inciso sotto la pancia. I coltelli in ceramica del Sushi Chef tagliano da Dio. Poi l’ho pulito delle viscere, spellato, spinato e tagliato in piccole striscioline. Alla fine l’ho adagiato su un piatto nero di ceramica in modo tale che la carne di un colore bianco traslucido, risaltasse notevolmente. Tutto molto zen. Alla fine, siccome non ho niente per cuocerlo, terrò fede al buon nome della cucina giapponese e me lo mangerò crudo.

Sarà stata la fame che mi stringeva lo stomaco ma me lo sono gustato proprio. Gli ho abbinato la salsa wasabi che è la morte sua e il sapore è diventato davvero buono.

Purtroppo, però, dopo averlo mangiato, sono iniziati i dolori allo stomaco. Inizialmente ho pensato che fossero dovuti al troppo tempo a digiuno. Poi però col passare delle ore, i dolori sono aumentati e sono iniziate anche le coliche intestinali. A mali estremi, estremi rimedi: mi son messo le dita in gola e ho vomitato l’anima.

Purtroppo però non è passato. Sentivo un male cane da non riuscire a stare in piedi. Ho santificato le tre madri dell’inferno. Siccome mi ricordavo di aver visto delle confezioni di medicine sono andato a rovistare negli armadietti del personale. Eureka! Ho trovato ben due confezioni di Maalox. Mi sa tanto che non erano nuovi ai mal di stomaco. Ho preso un paio di compresse e ho sperato in un rapido sollievo.

Forse non avrei dovuto mangiare Daryl. Eppure il sapore era buono. Non capisco. Non è passato molto tempo, forse una mezzoretta e ho incominciato a stare anche peggio. Mi ero seduto nella sala ristorante a guardare gli infetti quando ha incominciato a girarmi la testa. Poi ho provato una sensazione molto strana, come se avessi le braccia intorpidite e mi mancava l’aria. Mi sono agitato non poco dopo che ho capito di essere nel pieno di uno shock anafilattico. Ma io non sono mai stato allergico al pesce. Non è possibile diventarlo da un giorno all’altro. Tuttavia, mi sono reso conto subito della cazzata che stavo pensando. Mi è bastato alzare la testa per incrociare gli occhi putrefatti degli infetti che stazionavano fuori il ristorante. Neanche gli zombie esistevano fino a qualche giorno fa. Chissà cosa è successo anche a me, nonostante sia stato rinchiuso qua dentro. Forse sono stato infettato ma in modo diverso.

A quel punto, avevo così bisogno d’aria che mi sono precipitato verso la finestra del bagno. Mi stavo muovendo scoordinato come se non controllassi perfettamente le mie gambe e soprattutto mi sembrava di aver perso la prospettiva delle cose che mi stavano davanti. Ho sbattuto anche contro una libreria che era nell’antibagno facendo volare in giro diversi libri. Me ne sono fregato e, seppur a fatica, ho aperto la finestra per respirare quanta più aria possibile. Sfinito per lo sforzo, mi sono lasciato cadere sul cesso e lì son restato con il cuore che mi scoppiava dall’agitazione.

Mentre cercavo di calmarmi, mi è caduto l’occhio su uno dei libri che erano a terra. Il titolo era “FUGU – Come cucinare il pesce più velenoso del mondo”. Potevo essere stato così coglione? Evidentemente si. Hanno incominciato a tremarmi le mani.

Ho raccolto il libro e dopo averlo aperto, ho avuto la conferma di quello che in quel nanosecondo avevo già immaginato. È bastato guardare una foto per riconoscere Daryl. Era un classico esemplare di FUGU, il famoso pesce palla che solo i grandi maestri chef giapponesi che avevano superato anni di corsi di cucina certificati, potevano servire ai tavoli. Sfogliando il libro alla ricerca di una soluzione mi sono subito reso conto che, in pratica, non avevo tenuto conto di nessuna delle accortezze suggerite. La carne che avevo mangiato doveva essersi contaminata dalle parti interne del pesce dove è custodito il veleno. Quindi morirò, anzi, diventerò come quelli lá fuori. Dannata fame di merda.

Luca Pennati


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