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Eravamo stanchi di aspettare. Quella sera sembrava non finire più, e l’ansia stava cominciando a impossessarsi di noi. Anna era la più paziente e tranquilla fra noi tre, di una calma serafica introvabile, sapeva infondere serenità a chiunque le stesse vicino. Era una valida amica in qualsiasi momento, il conforto che si vorrebbe avere ovunque, su qualsiasi cima o in qualsiasi caverna, e in quell’occasione si dimostrò come sempre affidabile, scegliendo le giuste parole e avendo le giuste attenzioni per l’inferma. Lei invece era evanescente, indistinta, strillona, piagnucolosa, quasi sino al ridicolo. In quel momento era dolorante, e non sembrava proprio l’emblema della razionalità che diceva di essere. Anzi, sembrava davvero emotiva, sensibile, anche se dopo cominciò a svelarsi nella sua natura asettica e dispersiva.

Arrivammo nella struttura a tarda ora. L’infermiera chiese alla ragazza di mostrarle il dito dolorante. La guardò in faccia, fece un ghigno come se pensasse “questa non ha nulla di sfasciato, almeno nel dito” e ci diede un foglio con un codice verde. Le lacrime di Lei erano copiose, il suo incedere lento e barcollante, la sua voce lamentosa e insopportabile, stridula e quasi penosa. Sembrava recitare una parte, ma con scarsa maestria. E quasi mi suscitava i nervi, una rabbia che a volte si trasformava in sorriso che a stento dovevo frenare con una smorfia di dolore. Ma probabilmente la mia era solo una percezione errata e quel male persino veritiero. Il suo carattere era indefinibile. Voleva sempre essere al centro dell’attenzione, la donna fatale, colei che dispensa sorrisi e onori dall’alto dei suoi tacchi, o come la chiamavo io, semplicemente, una ragazza “gne gne”. Razionale e illogica, cadeva preda di convinzioni altalenanti, grottesche, spesso contrapposte, posto che fossero utili e credibili, creando argomentazioni senza senso, frutto di una mente che si contorceva nei propri incomprensibili spasmi. Fino a quella sera era stata simpatica, del resto non era bella, ma appariva signorile e divertente. Dopo quell’incidente e nell’attendere il nostro turno in sala, si svelò di più. A tratti noiosa e puerile, e spesso abbastanza lagnosa.

 

Tra dondolii, lacrime, disperazioni, echi di una voce che singhiozzava strascicando, sbucammo finalmente in una specie di corridoio. L’altoparlante gracchiava numeri e cognomi. Ci sedemmo tutti e tre in un angolo, quasi in un arrocco, a proteggerci da quella gente stravaccata sulle sedie. Ogni tanto percepivo nell’aria un fetore che proveniva da qualche derelitto che si lamentava. L’attesa era estenuante, lunga, corposa, la sentivamo a pelle. Anna prese il telefono e cominciò a giocare a scacchi. Io invece dovetti sorbirmi pianti e gesti di isteria che Lei esprimeva in una forma bislacca, in un lento divenire di grida soffocate che si facevano ululati, quasi fosse una bestia che si contorce per un dolore inusitato. Ogni tanto toglieva il ghiaccio dal dito e ce lo mostrava. Mi chiedeva se fosse gonfio, se fosse nero, se fosse grave. Non capiva perché quell’incidente fosse capitato proprio a lei, con tutta la gente che c’era in palestra, proprio a lei… Non sarebbe più potuta partire per l’India, viaggiare era la sua passione; non avrebbe più potuto cercare sé stessa laggiù in quelle terre lontane, quella “sé stessa” che sperava di trovare là ad attenderla. Ma laggiù non c’era nessuno. Era solo una proiezione di un cambiamento impossibile, un lancio su un altro terreno, lontano, diverso, quasi alla ricerca di nuovo cibo, di un’altra erba che esercitasse un influsso positivo in quei pascoli discosti, diversità di lingue, monti e genti. Avvenimenti enigmatici lontani.

L’ennesimo travestimento, un’altra bautta, quella simulazione pronta a trasfigurarci ancora una volta, per la prossima rinascita. E da queste morti non saremmo mai più tornati gli stessi – così si crede –, poiché sazi di un nettare prodigioso, il miele della convinzione. Ed eccoci di nuovo solari, più duttili, con un’apertura alare da sperimentare, la persuasione di aver riscoperto che quei brividi, che a lungo giacevano in noi, ora si accrescono, si espandono, fuoriescono dalle nostre profondità e divengono sorrisi graffianti e raffinati, unghie adunche. L’abito nuovo del prossimo atto.

 

Venne il nostro turno. Di scatto ci inoltrammo in un corridoio poco illuminato. Lo percorremmo tutto, finendo in un altro vano ancora più oscuro, alla ricerca di una porta, di una sala, di un medico. Non c’era nessuno, tutto appariva uguale, grigio, sentivamo solo il nostro respiro, espressione rumorosa di un’ansia che iniziava a manifestarsi in un andirivieni frenetico. Quindi corremmo per quel corridoio, aprimmo una porta e ci tuffammo in un altro androne, e così di seguito, finché non giungemmo al punto di partenza. Ripercorremmo il tragitto, e non cambiò nulla. La porta era la stessa da cui entrammo. Era un viaggio circolare, e ci riportava sempre lì.

La voce dell’altoparlante continuava a ripetere il cognome di Lei. Leggevo la disperazione nei suoi occhi, un’inquietudine che divenne isteria, angoscia, aprì la bocca, spalancò le pupille da forsennata e gridò, con una specie di rantolo. Io e Anna ci guardammo. A quel punto Lei corse verso il muro, fissò un qualcosa, forse un insetto, e cominciò a battervi la testa cercando di sfondarlo. Era fuori di sé. Provammo a immobilizzarla, nel vano tentativo di calmarla, ma era in preda a una crisi incomprensibile; biascicò qualcosa, ma capimmo solo che parlava di farfalle. Le bestie erano ovunque, la stavano divorando, almeno secondo lei, perché noi non le vedevamo. Poi d’improvviso si calmò. Parlò dei suoi cani, erano belli, le mancavano, “quell’uomo” cattivo glieli aveva sottratti. Sintetizzò in pochi versi tutto ciò che conteneva i sapori e gli odori di una primavera, stagione interminabile di ricordi che s’infiltrano nell’anima, la lacerano e infine varcano le essenze immateriali per irrompere nelle fattezze più tangibili, giungono nel corpo e lo distruggono. Io percepii solo “Nespola”… pianse, vide Anna, le sorrideva, le carezzava la fronte, si acquietò e si addormentò. Era un perpetuo struggersi patetico, una lagna mielosa.

 

Quel corridoio sembrava un tunnel, e soffocava, alterava discorsi e percezioni. Non c’era aria. Tutto si era fatto buio. Mi voltai verso le amiche ma erano sparite. Dissolte come ogni vapore, ombre di un’apparenza irreale. Mi sentii asfissiare, mi girai in cerca di una porta vera, un varco da cui fuggire e vidi una finestra. I vetri lasciavano intravvedere un giardino, forse con fiori, sicuramente con un cielo. Scorsi un abete, sembrava azzurro. Era l’albero che aveva piantato mio padre di fronte alla casa. Con una spallata sfondai la finestra e mi ritrovai nel vuoto. Cadendo in quella notte, non percepii niente per un attimo, la mente si offuscava. Ripresi coscienza. Adesso avvertivo solo il profumo del mio giardino. E di colpo di nuovo l’albero e poi l’impatto al suolo. Qui ero tra le braccia di un prato, loti e melograni. Attorno a me si ergevano margherite e pietre laviche.

Un riflesso cominciava a salire dal mare. E io lo guardavo. Poi strisciai verso l’altalena che avevo costruito tanti anni prima. Ci salii e mi dondolai. Fui aggredito da un’improvvisa, nuova consapevolezza: di come adesso il diletto e la gioia di vivere del presente fossero davvero il gusto riscoperto di un nuovo impegno giocoso; quella passione innata, istintiva, inspiegabile di sorrisi, sguardi, zuffe, pianti, ossia l’anima che si riversa fuori dal corpo, si ristora e si ricrea. Brividi che ci dicono che sei vivo adesso, in questo scorrere del tempo che ci dilania, che rinvia velenosamente un inesplicabile martirio, sogni che riversiamo in un futuro, che crediamo persino prossimo, in aspirazioni vaghe e immaginarie, le quali a volte ci offuscano razionali e sterili, dall’assaporare appieno un Oggi che trasvola via. E dimentichiamo che l’eternità è adesso, con le sue squisitezze, la saporosità di frutti dolcissimi, avvolti dall’inafferrabilità delle nostre illusioni, chimere amare e inesistenti, non ancora nate, non ancora vissute. I miei soliti pensieri di asino malinconico.

E mi ritrovai di nuovo appoggiato a quella ringhiera. Guardavo l’orizzonte e una vallata immensa che degrada sino al mare. L’alba riappariva, illuminava un sopore, ma io ero desto da troppo tempo, per non capire che non stavo solo sognando.
 

Joe Oberhausen-Valdez

 


 


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