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RESPIRO

 

L’ultima cosa che ricordai e che mi rimase impressa nella mente, come un marchio a fuoco nelle carni, fu l’odore pungente dello iodio e della salsedine, portati dal vento, impregnarmi le narici così prepotentemente, da farmi piangere. E poi, nel silenzio del crepuscolo, irruppe violento un tonfo sordo, quasi un “crach”; il suono della spaccatura tra due mondi “terreni”, per abbracciare qualcosa di intangibile e vacuo, e finalmente trovare la pace.
Un silenzio mi avvolse, assoluto, appagante e ristoratore, mai provato, che mi lasciò un senso di beatitudine e di angoscia.
Le mie membra si distesero, dopo uno spasmo, e sentii il sangue divenire bollente nelle vene. Percepii una sostanza densa e fredda, che mi avvolgeva, mi cullava e mi conduceva laggiù, tra le viscere del mondo. Il mio corpo, ora, era in balia di una forza potente e ammaliatrice, che mi avrebbe protetta, celata e forse un giorno risputata, ma che adesso mi voleva tutta per sé.

Le mie braccia, come rami sferzati dal vento, ondeggiavano abbandonate e inermi e, come in un’antica e macabra danza sabbatica, pareva invocassero chissà quale demone o dio, nella vana speranza di una redenzione.
Era questa, forse, la pace dei sensi? Un luogo immaginifico o una condizione necessaria, per cui l’obliterazione dell’Io cosciente sia la regola fondamentale… per ambire alla pace tanto agognata. O forse ciò a cui bramiamo tanto ardentemente è soltanto vivere: respirare, lottare, piangere e amare la vita stessa, proprio nel momento in cui la consapevolezza del trapasso è tangibile, reale e puzza di putridume.
Una forte scossa si propagò nelle mie membra stanche e rassegnate e fui percorsa da spasmi incontrollabili, che raggiunsero la testa e mi esplosero nel cervello. Ora sentivo una voce che urlava e invocava il mio nome.
Aprii gli occhi e vidi, per la prima volta, ciò che fino a quel momento credevo fosse reale: la mia culla, la mia pace, il mio mondo. Rivolsi lo sguardo in alto e, nell’immensità di un luogo calmo e tacito, vidi dei flebili bagliori di luce, farsi strada delicatamente attraverso quel liquido denso e pregnante, fino a raggiungermi.
E come un piccolo corvo dispiega le ali, nella sua prima e vera dimostrazione di volo, allargai le braccia e consacrai la mia lotta contro il demone, per ascendere alla rinascita.
Le mie mani protese cercavano, con rabbia e disperazione, un qualsiasi appiglio a cui aggrapparsi,  tentando di strappare un reticolo invisibile e pressante; e, come i polmoni bramavano aria, così tutto il corpo smaniava per raggiungere quel traguardo lontano.
In quel buio avvolgente e schiacciante, percepivo la mia impotenza e un senso d’inferiorità, che aveva caratterizzato tutta la mia vita ma ora… dovevo combattere con tutta me stessa, per non soccombere ancora una volta.
Lassù, una luce, come un faro nella notte, mi indicava la salvezza, ma appariva sempre più lontana anche se amena e, per quanto mi sforzassi, i miei muscoli imploravano un riposo che, ora più che mai, non avrei concesso. I polmoni mi bruciavano in petto, chiedevano aria. Le gambe, devastate dai crampi, si irrigidirono. Le mani fendevano avidamente quella sostanza, nel tentativo di conquistare, toccare e oltrepassare quella linea sottile, che mi separava dalla vita.
L’unica piccola scorta d’aria, che custodivo tanto gelosamente, fuoriuscì dalla bocca in un impeto d’ira, creando un turbinio giocoso di bolle intorno a me, avvolgendomi in una spirale evanescente che si allungò verso la superficie, lasciandomi sola. In mezzo a quel mare di disperazione, nessuno avrebbe potuto notare le lacrime, che scendevano calde e copiose; io lo sapevo e ne ebbi paura.
Finalmente.
Avevo paura di morire di una morte atroce. Quella stessa morte, che avevo tanto desiderato, cercato e, alla fine deriso. Dovevo solo arrivare lassù, scavalcare la mia anima, demonizzare le mie paure e ascendere a una forma pura ed eterea fino alla mia palingenesi.
Allungai le braccia e protesi le mani nell’ultimo disperato tentativo di tornare alla vita. Le dita trovarono un varco nella lastra invisibile e densa, una placenta spumosa e gelida, che strappai con l’avidità di un neonato, fuoriuscendo dai flutti.
Riemersi dalle profondità e respirai.
Spalancai la bocca e assorbii quanta più vita potessi prendere; lasciai che l’aria notturna entrasse nella laringe, nella trachea, nei bronchi e finalmente raggiunse i polmoni, che si espansero come il palloncino rosso di un bimbo felice, e rinacqui.
Piansi lacrime che si confusero con il mare e rivolsi gli occhi a quella luna, grande, luminosa e immortale, che fu la mia guida protettrice e la mia musa.
Il mio sguardo, ora, perlustrava un punto lontano, il mio porto sicuro a cui attraccare, ma non avevo riferimenti, né appigli, né forze su cui contare. Avevo vinto la battaglia contro me stessa ma, ciò che mi aspettava, sarebbe stata la fortificazione del mio essere, l’evoluzione in una forma superiore.
Mi abbandonai alle onde e lasciai che mi trascinassero, col loro moto perpetuo e instancabile, finché non avessi recuperato un po’ di forze; ero stanca, amareggiata e avevo bisogno di quante più energie il mio corpo reclamasse.
In quei momenti di solitudine e cullata dal mare, riuscii ad estasiarmi nell’ ammirare la volta celeste e l’infinità di stelle, che, un tempo, osservavo scrupolosamente cercando di identificare e dare un nome. O sperando di poterne scorgere una speciale, a cui esprimere il mio desiderio più recondito.
Quanto può essere assurda e ironica la nostra esistenza.

Noi, anime in balia degli eventi, ci lasciamo trasportare, senza un fine o una meta, senza renderci conto, che la vita è nostra e siamo noi i fautori del nostro destino. E apriamo gli occhi ad essa, solo nel momento in cui percepiamo la sua compromissione.
Il mare, per quanto calmo apparisse nelle sue viscere, in superficie mostrava una rabbia crescente e inesorabile e, più mi conduceva verso la riva, più sfogava la sua collera, spruzzando, vorticando e infrangendo le sue spume una contro l’altra in sinuose volute, accrescere d’ intensità e poi attenuarsi. Più e più volte mi ritrovai ad annaspare tra quelle onde, ad inabissarmi tra i suoi flutti, per poi riemergere ansimante e sfinita. Mi immaginai un ciocco di legno inerme e scarno, strappato alle sue antiche radici e alla mercé di una forza superiore e ineluttabile, sbattuto con forza e noncuranza e abbandonato a se stesso, laddove muoiono le onde.
Sentii le forze abbandonare le mie membra esauste e percepii di nuovo quella strana sensazione di beatitudine, farsi strada nel mio inconscio ma, nel momento in cui volli desistere e rassegnarmi all’inevitabile, le mie mani affondarono in una melma farinosa. Mi ci aggrappai con tutta la furia e la determinazione, che ancora necessitavo, e le vomitai con l’estremo anelito di vita e con indomita disperazione.
Fui travolta dall’ultima onda, che si infranse sul bagnasciuga e ruzzolai sull’arenile. Mi trascinai fin dove l’acqua non lambiva la spiaggia e crollai a terra.
Sputai acqua, sabbia, tossii e piansi. Urlai, con tutto il fiato che avevo in gola e risi sguaiata alla luna. Ero morta e risorta dalle ceneri, ero riemersa dalle viscere del mondo e ricondotta a nuova linfa e, come un’araba Fenice, ora ero pronta a vivere… di nuovo.
 

Michela Iucchi

 


 


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