FANS

L’Ossimoro perfetto
(parte prima)

 

Io e lui. Niente di più lontano, paradossale, niente di più sbagliato. Nulla che fosse così maledettamente perfetto.

Che poi, all’inizio, non ci cagavamo neanche di striscio. Una sana, reciproca indifferenza.

Aveva quello strano modo di osservarmi, si portava l’indice all’angolo della bocca, socchiudeva gli occhi e corrugava la fronte. Mi studiava. Non ha mai smesso di farlo, provava un sadico piacere nel mettermi sotto la lente di ingrandimento. Suppongo gli risultassi indigesta. Non provava una vera antipatia, piuttosto disagio.

Non sono un tipo facile, io. Sicuramente molto distante dal puttanaio a cui era avvezzo.

È un po’ come la matematica, dici che non ti piace perché non ci capisci un cazzo. Come dargli torto… io stavo a Jacopo come il cioccolato al vitello tonnato.

Lui, un uomo sotto i cinquant’anni, sofisticato, sicuro di sé, smoderatamente vanitoso, con la battuta sempre pronta. Si vestiva come un ragazzino, rasentando sovente il ridicolo, ma aveva stile da vendere. E un gran bel culo. Di professione indefinita, metà P.R. metà imprenditore. La sua vera occupazione era passare il tempo, possibilmente con eventi e party mondani. Niente figli, un matrimonio lampo finito presto nel dimenticatoio, all’attivo un elenco impressionante di donne archiviate. Forse trofei imbalsamati.

Io, una giovane trentenne che il mondo non lo conosce affatto, goffa, timida ai limiti del patologico, la regina dell’Altrove. Una di quelle che passa quasi sempre inosservata.

Ai miei occhi lui non era niente di più che un fenomeno da baraccone, una sorta di grottesco satiro. Non era particolarmente bello, ma aveva un fascino insolito, inspiegabile. Mi incuriosiva. “Se hai un segreto, pezzo di Satiro lascivo, io lo scoprirò…” mi ripetevo, sorniona.

Di segreti, ne aveva parecchi. Il primo: il suo profumo. Una pozione demoniaca, pungente, dolce, estasiante, invadente, con un lieve sentore di Big Babol che, a pensarci, è una roba nauseabonda ma sulla sua pelle diventava un filtro magico, da perderci la testa. Il secondo: lo smartphone. Non se ne separava mai, dentro dovevano esserci prove scottanti. Il terzo: la sua casa. Ne sentivo parlare spesso, me l’immaginavo come un Castello Incantato o un luogo di perdizione, era lì che consumava i suoi riti dionisiaci, sotto la regia di un animo apollineo. Lui era troppo cerebrale. Il quarto, il più importante: nei suoi occhi di ghiaccio scorgevo un mondo sommerso, una solitudine uguale alla mia.

E chissà cos’altro nascondeva quel vecchio stronzo…

Non siamo mai stati amici, nel senso più vero del termine, uscivamo con la stessa compagnia, ma l’unico punto di contatto erano le “feste”, che lui stesso organizzava e alle quali invitava mezzo mondo. Era una specie di Boss; tutti i suoi amici pendevano dalle sue labbra, ma non era un prepotente o uno spocchioso, riusciva piuttosto ad incantar quegli armenti con i suoi modi suadenti, peggio di un cobra reale, anzi no. Era un crotalo

Non parlavamo mai. Solo una volta, una sera d’estate, venne a sedersi accanto a me che, come al solito, me ne stavo in disparte. Per qualche minuto rimanemmo in silenzio, ognuno con lo sguardo proteso in avanti, senza mai incrociarsi. Poi si alzò e si sedette proprio di fronte a me. Non potevo più guardare altrove. “Parlami di te. Sei sempre così silenziosa o sono io che ti sto sul cazzo?” Rimasi sbigottita. Come potevo dirgli che, sì sono taciturna di natura, ma era pur vero anche che mi stava sul cazzo?! Così abbozzai un diplomatico “mi dispiace averti fatto questa impressione” anche se non poteva fottermene di meno. Si portò l’indice sinistro alla bocca e socchiuse gli occhi. Eccola, la posizione del “filosofo”. Voleva sapere da quale pianeta fossi sbarcata. E così gli raccontai di me, poco, quanto  bastasse a liberarmi di lui.  Mi osservò concentrato, stranamente non mi guardò mai le tette che facevano bella mostra di sé, fasciate da un abito nero, bellissimo. Quella sera ero proprio bona.

In seguito, tornammo ad ignorarci cordialmente. Jacopo era sempre circondato dalle sue fameliche spasimanti, cascamorte, proprio morte o mai nate, dotate quasi tutte di poco cervello e tanto silicone, donne svampite o senza vampa, divertenti come un pelo… in un occhio, di buona compagnia e di facile accessibilità. La parola “impegno” gli procurava orticaria diffusa, se ne teneva bel lontano.

Io, l’aliena venuta dal pianeta Omega, vivevo arroccata nei miei sogni e nelle mie disillusioni.  Nel mio curriculum figurava un unico grande amore, una storia lunghissima, di cui erano rimaste soltanto macerie. Stavo imparando a camminare da sola nel mondo, in cui tutto era per me inusitato, spaventoso. Un mondo impossibile.

Dentro avevo il fuoco! nemmeno la delusione più grande, quella che non mi aspettavo, che mi aveva messa in ginocchio, era riuscita a spegnerlo. In me tutto era fiamma, ardore, luce, splendore. Aspettavo solo di esplodere, ancora una volta, in tutta la mia devastante potenza di vita. Non sono mai stata per le mezze misure, ho sempre avuto fame di grandi passioni, di slanci straordinari, di salti nel buio. Tutto o niente.

L’inizio, una mattina di fine agosto. Da qualche giorno il nostro rapporto era diventato più piacevole, non ci guardavamo più con la consueta diffidenza, entrambi stavamo, a poco a  poco, abbassando le difese. Ci ritrovammo in spiaggia a parlare di noi, del nostro passato, per la prima volta sentivo che Jacopo volesse sapere davvero, chi fossi. Il sole era alto nel cielo, il mare ci cullava lieve, una leggera brezza mitigava il caldo soffocante. Chiusi gli occhi, respirai profondamente.  Come in un sogno le sue mani cingermi i fianchi, mi strinse a sé e avvicinò le sue labbra alle mie. Ebbi un fremito, vacillai per un attimo. “Apri gli occhi” mi sussurrò. Era ad un millimetro da me, mi sorrise e mi baciò.

Le piccole labbra sapevano di salsedine e di sogni che mai avevano raccontato.  Mi abbandonai a quel bacio sfrontato e appassionato come solo lui seppe darmi.

Dopo mesi vissuti in apnea, respirai di nuovo ossigeno attraverso la sua bocca. Mi accarezzò il volto e si allontanò, lasciandomi lì impalata come una seppia decongelata.  Mi stavo ficcando nell’ennesimo buco nero. La sera successiva ero a casa sua, nel  “Castello Incantato”, fummo travolti da una passione cieca, muta e sorda, anzi… sordida. Quella notte fu tormento ed estasi, ardore e dolore, baci e morsi. Ci fondemmo in un solo groviglio spinoso: uno slancio impetuoso ci avviluppò e ci smarrimmo in un tempo senza fine.

“Fatti un favore, non innamorarti di me. Io sono il peggio che possa capitarti” disse, pungente, rivestendosi. “Non correrò questo rischio. Piuttosto, stai attento a non perderla tu, la testa, per me” chiusi freddamente sprezzante quasi boriosa e in attacco. Da quel giorno divenimmo una cosa sola e ci amammo con tutto l’odio più sincero. E non smettemmo più di farlo, notte e giorno, al buio e alla luce, vicini e lontani. Era la dolcezza più tenera e profonda del nostro idillio. Vi ci nutrimmo.

Tra le sue braccia mi sentivo fragile, al suo cospetto tremavo febbricitante, eppure generava dentro di me una forza devastante, mi sentivo potentissima. I suoi baci mi riportavano ad un tempo lontanissimo, forse mai esistito, felice, che non ricordavo nemmeno più.

Le nostre anime si toccarono profondamente, molto più dei nostri corpi, anche se nessuno dei due osò ammetterlo.

Due universi distanti anni luce, perfettamente fusi in quell’unione che sapeva di Eterno.

Il suo modo di rapportarsi alle donne mi faceva incazzare come una iena, lui lo sapeva e provava un sadico piacere nel provocarmi. Adorava stare al centro delle attenzioni del gentil sesso, di quelle meschine senza linfa, e non evitava in alcun modo atteggiamenti ambigui, che io consideravo irriguardosi e infantili. Era il suo modo per dirmi “non illuderti, non sarò mai tuo”… ed era proprio così, non sarebbe mai stato mio. Lui era Patrimonio mondiale dell’Umanità, in particolare santo protettore delle cortigiane. Amava e temeva, allo stesso tempo, le donne, streghe cospiratrici che tramavano contro la sua inossidabile libertà ed evitava accuratamente ogni coinvolgimento emotivo, non appena ne fiutava i sintomi pestilenziali.

Era impermeabile ai sentimenti. I suoi flirt, di norma, duravano meno di un gatto in autostrada.

Soffrivo la sua immagine pubblica, così superficiale ma, quando restavamo soli, mi regalava le sue autenticità. Fuochi fatui. Svestiva la maschera di velluto e mostrava la sua “vera” effigie. L’ostentata vanità nascondeva un omino fragile, vagamente maniacale, diffidente come me, sensibile e attento. Lo consideravo un privilegio, solo io potevo godere della bellezza del suo animo complesso. Il resto del mondo vedeva il personaggio, a me donava la persona “resto del mondo”… il mio fegato, come quello di Prometeo, veniva divorato dall’aquila brizzolata ogni giorno, per poi ricomporsi di notte, nella nostra unione magica. Ero sempre a disagio quando eravamo nel “suo” habitat; tornavamo ad essere come l’acqua e l’olio, incompatibili. Jacopo si calava nel ruolo del Casanova e a me non restava che assistere, seccata, alla fiera della frivolezza. Un circo qualsiasi, con fiere e funamboli. O forse erano oche e nani.

Tuttavia, nei suoi occhi potevo scorgere una grande voglia di amare ed essere amato. E lui desiderava ardentemente che fossi io a farlo. Ero il suo piccolo gioiello. Mi proteggeva, mi viziava, mi seduceva con la sua smisurata dolcezza, mi costringeva ad affrontare le mie insicurezze e mi buttava nella mischia perché imparassi ad affrontare la realtà da cui sapeva che ero avulsa. Ridevamo tantissimo, la nostra intesa divenne speciale, poiché trasformammo l’originaria antipatia in un’avvincente “singolar tenzone”. Sapeva leggere nella mia malinconia, ne era affascinato, ma temeva potesse inghiottirmi e la corrompeva con tutta la spensieratezza di cui era capace. Non ricordo mi abbia mai fatto un complimento esplicito, mi prendeva in giro per la mia goffaggine e per ogni mio difetto… e io, permalosa fino al midollo, non mi offendevo mai, sapevo che mi trovava bellissima! Mi regalò un paio di scarpe da stronza “adesso sì che sembri una femmina. Permetti solo ai tacchi  a spillo di farti soffrire” disse, sarcastico, Mefistofele, ergendosi a maestro di sensualità.

Mi piace riguardare le nostre foto… una in particolare. Eravamo a Budapest, abbracciati, sprofondati in un divano dell’Hard Rock Cafè, guardavamo la città da una finestra. Quella notte di ottobre pioveva. Sperai che il tempo potesse fermarsi in quell’istante perfetto. Giocò per la prima volta a carte scoperte, lui che da abile giocatore di poker, era abituato a bluffare. Mi chiese “tu ci credi in questa nostra storia?” io risposi, senza pensarci “sì, ci credo. Io voglio te e tu vuoi me. Non c’è altro che conti”. Mi guardò, col suo consueto sorriso beffardo. “Hai ragione, noi ci vogliamo. Il resto sono solo cazzate”.

Il suo cuore di ghiaccio iniziava a sciogliersi. Non lo avrebbe mai ammesso, anzi, continuava a ripetermi che non sarebbe mai stato all’altezza delle mie aspettative. Adoravo quel modo di mantenere le promesse senza averle mai pronunziate. Io, la creatura delle tenebre, rivedevo la luce attraverso di lui. Era un uomo insicuro, odiava la solitudine, dentro aveva uno squarcio che bruciava ancora, una cicatrice indelebile e dolorosa. Quell’urgenza di vivere era il suo modo per esorcizzare il fantasma di un passato che lo avrebbe perseguitato per sempre. Era ossessivamente proiettato in avanti. Io, abituata ad osservare quel tempo, con la mia impassibile flemma, imparavo a viverlo al suo ritmo incalzante, non avevo più paura di lanciarmi nel vuoto. Finalmente sentivo di poter spiccare il volo. Imprevedibile, completamente pazzo, mi era entrato nelle ossa.

Non mi chiedevo cosa sarebbe accaduto l’indomani, vivevo quel momento perfetto… con tutta la mia totalità, non avevo aspettative, nessun progetto se non quella di nutrirmi della sua linfa vitale. Nel suo Castello Incantato mi sentivo a casa. Dormivamo intrecciati, come i rami di un albero secolare, i nostri corpi si fondevano, respiravamo allo stesso ritmo, la notte io e Jacopo diventavamo Noi. L’ossimoro perfetto.

Ho sempre odiato il buio, l’oscurità è assenza. Eppure, accanto a lui, la paura svaniva. Nel suo tenero abbraccio, il mio animo irrequieto trovava una rassicurante serenità.

Non ho mai permesso a nessuno di dormirmi accanto, ho sempre difeso la mia solitudine, ora c’era lui a proteggerla per me. Passavo ore a guardarlo, sembrava un cucciolo indifeso, era bellissimo. Una notte mi sembrò sentirlo piangere… forse era soltanto un sogno…

Era tutto forte, troppo forte. Troppo, per lui. Iniziò a temermi, diventò inquieto. Quella bizzarra streghetta era un pericolo, era giunto il momento di allontanarla. Si apprestò a preparare il “Canto del cigno”. L’uscita di scena fu nel suo consueto stile: improvvisa. Una morte rapida, la mia… non indolore.

Utilizzò un banale pretesto per liquidarmi. Era evidente che ci pensava da un po’. Mi congedò con il suo solito savoir faire, senza scomporsi. Avvertii come uno squarcio al petto, mi stava dicendo addio.

Mi sciorinò tutta una lunga serie di stronzate preconfezionate. Era tornato il sileno di qualche mese prima. Mi consegnò la lettera di licenziamento mentre era intento a sbarbarsi, Narciso si preparava per le sue fan. Non avrebbe mai potuto recitare il suo copione guardandomi negli occhi.

Era bastato un secondo per radere al suolo tutto quanto. Hiroshima, a confronto, era una leggenda metropolitana.
 

di Ilaria Di Leva

 


 


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