horrorRacconti brevi

Vladimir

 

Sono nato a Sighișoara nel 1431. Da giovane sarò destinato a essere un guerriero, diverrò Voivoda di Valacchia, sarò un eroe della cristianità contro i musulmani, sarò seppellito nel complesso di Santa Maria la Nova a Napoli. “Eu mă numesc” (il mio nome è) Vlad.

Di me la storia narra che fui sanguinario, crudele, spietato, e probabilmente non è errato. Ma in quei tempi vi posso assicurare che non c’erano damigelle e principini in giro nelle nostre terre di confine. Era un mondo bastardo. E io lo divenni. Ma questa è una storia che conoscono tutti, quindi la lascio come leggenda ridicola nei testi scolastici.

Quel che mi preme raccontare, almeno adesso, è il mio seppellimento. La tradizione vuole che sia stato tumulato nel monastero di Comana o in quello di Snagov. Altra diceria che sia stato smembrato dai turchi a Instabul. Sinceramente non me ne può fottere di meno, perché mi risvegliai vivo e vegeto nella tomba del Chiostro Piccolo nel complesso di Santa Maria la Nova a Napoli.

 

Ma veniamo ai fatti più moderni. Nel mio sepolcro, o letto, chiamatelo come volete c’è la rappresentazione di un drago, Dracula appunto, e ci sono due simboli di matrice egizia mai visti su una tomba europea. Si tratta di due sfingi contrapposte che rappresentano il nome della città di Tebe che gli egiziani chiamavano Tepes, Țepeș in rumeno vuol dire l’Impalatore. Non ci vuole uno studioso per capire che è tutto vero. È scritto sul marmo, chiaro e leggibile.

Ovviamente non sono morto nel 1477, non sono mai trapassato, nella mia lingua madre sono un “nosferatu”, appunto.

La chiesa era una qualsiasi, come tutti i luoghi sacri, abbazie, cimiteri, cappelle, puzzava d’incenso e di gente. A me sinceramente non fregava niente che fosse piccola, grande, in Romania, in Francia o in Spagna. Ma sicuramente essere seppellito in Italia mi aggradava assai. Mi sentivo “romano”.

Napoli era veramente bella, l’adoravo. Il caldo primaverile mi estasiava, e l’inverno non era maledetto come quello che dovetti subire per decenni in Transilvania. Cazzo, sarei potuto nascere in questa città invece che nella vecchia Țara Românească. Me ne sarei fottuto di essere un principe, avrei potuto fare anche il macellaio, tanto me la sarei cavata. E poi qua le donne erano proprie fighe, succulente, sprizzavano sangue, mi attizzavano come una fiamma. E a me le femmine son sempre piaciute. Per diversi secoli mi sono attaccato al loro collo e il loro sangue era prelibato, speciale, mi abbeveravo alla giugulare come una ventosa. Mi ricreavo. Nobili o segretarie di periferia erano tutte delle grandi zoccole. E io le affascinavo.

Da lì non mi sarei più mosso, e chi me lo faceva fare. D’estate me ne andavo al mare alla luce del sole. Eh sì, perché, anche se diversi film e scritti dicono che sarei diventato cenere se esposto a quel fuoco, io amavo quella stella. Mentivano o erano ignoranti. Adoravo nuotare in quel mare cristallino, con la mia potenza fisica ogni giorno mi facevo a nuoto dall’odierno molo Beverello fino a Capri, mi godevo la vita. Ero inarrestabile, ovviamente perché immortale. Nel mio cuore batteva una pompa termonucleare.

Dal lontano quindicesimo secolo erano passati infiniti anni. La vita mi ricompensò di tutte quelle vicissitudini, sofferenze, privazioni, martiri, passati a combattere guerre di cui non me ne fregava niente. Io ero pure ateo, ero intelligente, mica potevo credere in un dio, ma allora erano altri tempi, con costumi e credenze particolari, e dovetti assoggettarmi alla religione che più mi aggradava. Chest’è.

Nel 1922 vidi per la prima volta una rappresentazione cinematografica in cui si raccontava la mia vita in Romania. Mi descrissero come in un romanzo famoso di cui non ricordo il nome. Mi appiccicarono un epiteto malvagio, nefasto, tenebroso, orrendo. Mi trasfigurarono come “vampiro”. Va be’, la realtà sorpassa la fantasia. Il film si chiamava Nosferatu. Ma la trasposizione sembrava teatrale tra leggenda e storia, alquanto falsata. La gente in sala aveva paura, quasi sveniva. A me sinceramente veniva da ridere. Non ci potevo credere. Alcune descrizioni erano però perfette. È vero che ero immortale, mi nutrivo delle mie vittime, possibilmente femmine, anzi, diciamolo chiaramente, erano solo donne. Ma se mi avessero presentato una fiorentina da seicento grammi al sangue me ne sarei fregato di girare di notte in cerca di troie. Ma la carne costava troppo anche allora. E quindi era sempre meglio abbeverarsi e saziarsi gratis.

Qualche anno dopo iniziò un periodo storico che mi segnò molto. Mi arruolai come milite, mi spedirono in Africa e lì restai per tutta la durata della guerra. Ma il clima non mi piacque troppo. Minchia se faceva caldo, ero rumeno non africano.

Nel 1945 passai un mese come disertore in un accampamento militare nei dintorni di Eraclea Minoa in provincia di Agrigento. La notte me ne volavo, come se fossi un pipistrello gigante, a Montallegro o a Siculiana Marina. Bei posti, bella gente, squisita. Dovevo pur sfamarmi veramente.

L’amnistia del 22 giugno 1946 mi ridiede la libertà. Dovevo ritornare a Napoli. Non avevo una lira e quindi m’incamminai e svolazzai per diversi giorni fino a Messina. Mi riposai al porto per circa un mese dormendo sul relitto di una nave. La mattina me ne stavo vicino al bar-trattoria a fumare, aspettando che la signora Concetta mi portasse uno dei suoi migliori arancini. La vecchia mi aveva preso a cuore, le ricordavo un nipote morto in guerra, e da un giorno a un altro decisi di chiamarla “nonna”. Mi affezionai. A pranzo mangiavamo insieme pasta con le sarde, “stigghiole” e altre leccornie del luogo. La sera me ne andavo in giro a deliziarmi d’altro.

Ma un giorno partii e non la rividi più. La ricordo, con affetto, al limite della nostalgia o forse persino oltre. Anni dopo una lettera mi avvertiva della sua morte. Una forte mestizia mi offuscò il cervello, mi strinse il petto, mi stritolò l’anima. Avrei voluto partecipare al suo funerale, ma ero troppo lontano, non avrei fatto in tempo, non avrei potuto in ogni caso. La nonna risiede in eterno laggiù dove la conobbi viva e questo mi dovette bastare. Malinconie di un principe guerriero.

Raggiunsi la mia città adottiva a bordo di una nave che faceva la spola tra Messina e Napoli. Era l’alba. Il sole illuminava il Maschio Angioino. Non lo vedevo da anni, ma mi si stagliò agli occhi in tutta la sua grandezza splendente. A piedi andai fino ai Quartieri spagnoli. Aspettai che fosse notte e cercai l’ingresso della fogna che mi avrebbe portato a “casa”. Era un rifugio che mi aveva regalato un amico. Nessuno sapeva della sua esistenza.

Ci conoscemmo per caso a Torremaggiore in Puglia, dove lui era nato. In quel paese era seppellita la mia fidanzata, che io chiamavo “viața mea”. Passò per caso dal viottolo del cimitero in cui la ragazza è tumulata. Il mio viso gli ricordava qualcuno famoso, e ci intrattenemmo in quattro chiacchiere. Mi portò in carrozza con sé a Napoli e diventammo grandi amici. Anche lui era un principe, Raimondo di Sangro, che io alteravo in “Immondo di sangue”. Il nomignolo gli piaceva, se la rideva quando lo sfottevo, anche perché tra la sua vita e la mia di sangue ne avevamo visto abbastanza.

Entravo e uscivo da casa sempre dalla stessa botola, c’erano altre porte segrete e diramazioni varie ma non starò di certo qui a svelarle. Raimondo mi raggiungeva in carrozza o a cavallo tramite un tunnel che aveva fatto scavare sotto la superficie della città. Un giorno mi disse che avrebbe voluto ridarmi la giovinezza. Era malato di alchimia e altre scienze similari. Era fuori di testa. Secondo lui avrei potuto riacquistare un viso e un corpo da giovincello. Non era sicuro, si sarebbe trattato di un esperimento, ma in ogni caso, al limite, mi avrebbe fatto risorgere con un po’ di beveraggio di sangue.

Qualche giorno dopo mi avvertì di tenermi pronto. Quella notte lo raggiunsi nel suo laboratorio, ci bevemmo qualche bicchiere di grappa. Ci fumammo la pipa e qualche minuto appresso cominciai a perdere i sensi. Mi aveva narcotizzato.

Mi risvegliai tre secoli dopo, più o meno. Sembravo un sedicenne o forse un diciottenne.

 

La zia Jaqueline, aveva il viso dolcissimo, ma sembrava un toro, di femminilità manco a parlarne. Però era simpatica. Lo zio era oriundo siculo, grezzo, massiccio, volgare, parlava solo il dialetto stretto del suo paese. Io lo capivo benissimo perché sembrava rumeno. Il suo “Unni sini” mi ricordava il mio “unde esti”.

Secondo il principe mi sarei dovuto svegliare in quella che fu la mia terra d’origine, poiché dai miei occhi e dai nostri discorsi traspariva una profonda nostalgia. E lui la percepiva benissimo. Ma l’esperimento non fu perfettissimo. E mi ritrovai in Francia.

Lo zio Fer non era d’accordo con la mia decisione, ma era un pazzo, almeno quanto me, era stato pure in galera a Gibuti, perché era una testa di cazzo. Quel giorno mi accompagnò a Marsiglia. Mi arruolai come soldato, avevo la guerra nel cuore, mi trasferirono in diverse città e poi finalmente al reparto finale, una decisione chiara e univoca dovuta a un mio probabile impiego come traduttore in terra straniera ai confini con la Russia.

Una notte qualsiasi mi ritrovai su un aereo che sorvolò i Carpazi. Sentivo già il profumo, anzi il “gusto”, della mia gente, ma un guasto al motore mi costrinse a buttarmi senza paracadute. Volai per qualche minuto vedendo il mezzo precipitare. Dall’alto vedevo il fiume Târnava Mare, le varie torri di fortificazione della città, che rifulgeva di luci mai viste prima, lo splendore della civiltà, e la mia adorata Torre dei sarti, Turnul Croitorilor, la piana di Albești, l’odore degli alberi. In un attimo ripensai alla mia giovinezza, agli studi, alle armi, alla biblioteca paterna, alla mia casa che era pur sempre un castello. Mi venne in mente l’infanzia gioiosa, il giardino pieno di fiori, i cespugli rigogliosi, i cavalli, i sorrisi degli amici.

Avevo attraversato diversi secoli, viaggiato oltre confine, conosciuto un’infinità di donne, mi ero deliziato del loro nettare e del loro sangue. Avevo costruito la mia intera vita attorno alla potenza, al culto della mia divinità invincibile. Avevo attraversato e vinto malattie, torture, solitudine, dolori indicibili, ma ero sopravvissuto. Ero pur sempre un demone. Desideravo la vittoria e sconfiggere avversari. Era lo stimolo innato della ricerca del piacere, la felicità della mia forza che annientava tutto, soprattutto e persino me stesso. Era il mio egocentrismo forte e divino che mi spingeva al di là del desiderabile, al di là dell’ideale. La ricerca dell’emozione che mi lanciava in una cerimonia magica nella bramosia dell’immenso e del violento. E in quell’attimo, cinque secoli scomparivano in un solo istante. Avrei voluto essere solo un uomo e non lo ero. Avrei voluto risiedere là dove ero sempre stato con la mente, dove avevo lasciato la mia giovinezza perduta. Volavo come sempre con la fantasia e l’illusione. Ma ormai si approssimava davvero la mia terra. Vidi un palo che si ergeva da una vigna. Fermai le ali e mi ci buttai, precipitandovi col cuore. M’impalai.

Respirai a stento quell’aria pura, fresca ed esalai l’anima.

Ero finalmente a casa, nella mia Țara Românească.

 

Joe Oberhausen-Valdez

 


 


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