Racconti

Una calda giornata pugliese

 

Sbadigliai, portandomi una mano a coprire la bocca. La noia e la mancanza di sonno stavano per farmi addormentare. Là, davanti a tutti, in quella cazzo di parodia di aula di tribunale in cui ci trovavamo.

Guardai due mosche aggirarsi fastidiose attorno al capo pelato e sudato di un collega seduto davanti a me, anche lui in attesa che venisse chiamata dal giudice la sua causa. Ovviamente grondavamo tutti ed eravamo preda di nugoli di insetti che ci giravano attorno, attirati dall’odore di essere umani accaldati, come piccoli condor che svolazzano attorno alle carcasse in decomposizione delle proprie vittime prima di scendere a cibarsene.

Scacciai l’ennesima mosca dal mio ginocchio lucido, pentendomi di aver scelto di indossare, in quella giornata estiva così calda, il formale e castigato tailleur che cominciava a sembrarmi una camicia di forza.

Dio, che squallore! Com’era possibile che ci fossimo ridotti a tenere le udienze in tende da campo improvvisate?

Maledissi per l’ennesima volta i burocrati incapaci che avevano ridotto il rinomato foro di Bari ad un branco di profughi stipati in una tendopoli di fortuna. Sembravamo una massa di sfollati dopo un terremoto. Ma nessun movimento tellurico si era abbattuto sulle aule del tribunale di Bari. Lo avevano sepolto malaffare, incuria e menefreghismo.

I trentasei gradi esterni, che sotto le tende raggiungevano tranquillamente i quarantasei gradi di umidità e tanfo di ascelle sudate, stavano facendo andare in fumo più d’uno dei più rinomati e riconosciuti cervelli dei principi del foro.

Lo stesso giudice faticava a mantenere la calma e la dignità della sua funzione. Sotto la toga pesante si intravedeva una camicia bianca talmente bagnata dal sudore da sembrare trasparente. E lo spettacolo non era né piacevole né dignitoso.

Spostai lo sguardo dal banco dei giudici giusto in tempo per vedere entrare l’imputato della nuova causa chiamata in discussione.

L’uomo, che doveva essere alto sul metro e novanta, entrò con un’andatura strascicata. Barcollava, le spalle erano ricurve e la testa ciondolava su un solo lato del collo. La pelle aveva un colorito tra il grigio ed il giallognolo ed i vestiti erano laceri e macchiati.

Aggrottai la fronte perplessa. Dalla distanza in cui mi trovavo non riuscivo a scorgerne bene i tratti del viso né l’espressione, mentre una momentanea folata di vento caldo, portava fino alle mie narici un odore nauseabondo di pesce andato a male.

Molti degli avvocati delle prime file si portarono la mano alla bocca e si spostarono precipitosamente verso il fondo della tenda-aula. Facendo aumentare la massa disposta nelle sedie posteriori e conseguentemente la temperatura dell’ambiente.

Decisi di alzarmi e spostarmi verso l’apertura, per poter respirare un po’ di aria pura e più fresca.

Tornai a rivolgere la mia attenzione verso il banco dei giudici e notai che sembravano stranamente nervosi. Erano scivolati tutti di almeno un metro sulla destra, frapponendo maggiore distanza fra loro ed il nuovo imputato. Tentai di osservarlo meglio.

Ero incuriosita, ma avvertivo anche una punta di apprensione gelata che aveva momentaneamente bloccato la mia sudorazione.

Era stranamente legato sia alle mani che ai piedi da pesanti catene, tenute da due agenti della polizia penitenziaria che lo seguivano a tre metri di distanza. I poliziotti reggevano degli strani bastoni metallici tra le mani che ogni tanto puntavano contro l’uomo per indurlo a proseguire. Erano completamente equipaggiati con vistose imbottiture che ne ricoprivano tutto il corpo dai piedi fino al collo, i loro volti, infatti, erano lucidi di sudore che scivolava lungo le guance arrossate.

Sulla bocca l’imputato portava una specie di mascherina in pelle che mi diede immediatamente l’impressione di una museruola per cani. Che razza di trattamento barbaro era mai quello? Non avevo mai visto un imputato essere condotto in quello stato di fronte a dei giudici. E a cosa era dovuto il bislacco abbigliamento degli agenti di scorta? Sembrava avessero a che fare con un orso in cattività piuttosto che con un essere umano. Si trattava forse di un soggetto pericoloso? E allora perché non era stato portato nell’aula bunker anziché in quella sottospecie di aula improvvisata che non poteva offrire la sicurezza nemmeno dall’attacco dei moscerini, figuriamoci da parte di un soggetto violento e di difficile gestione.

La risposta mi venne direttamente dal cancelliere che, in quel preciso momento, si alzò sbraitando, e rivolgendosi al giudice gli rese noto che era stato fatto un grave errore. Quel caso non risultava nel ruolo delle udienze da trattare, non “doveva essere” là.

Gli agenti sbiancarono sotto le loro spesse divise e cercarono di giustificarsi affermando che gli era stato detto di tradurre il prigioniero proprio in quell’aula. Era palese che qualcuno doveva essersi confuso con le procedure. Mai errore fu più fatale di quello…

Mentre i giudici accaldati dalla vampa estiva si consultavano fra loro, dando le spalle all’imputato e gli agenti, momentaneamente spaesati, abbassavano la guardia ed i bastoni metallici, l’uomo, che fino a quel momento era rimasto inerte e quasi inebetito, tra urla che si sovrastavano e confondevano emise un suono gutturale terribile e tentò di sollevare le braccia in avanti per dirigersi verso i magistrati a due metri da lui.

I poliziotti, colti di sorpresa, mollarono la presa alle catene e, sbilanciati dal contraccolpo che lo strattone improvviso aveva creato, caddero lunghi, distesi per terra in un viluppo di braccia e gambe che rese loro difficile una reazione immediata.

Uno dei giudici fece appena in tempo a girarsi a quel trambusto che fu assaltato dall’uomo che gli si avventò contro di peso.

Si scatenò l’inferno! Urla di orrore esplosero dalle bocche degli astanti e molti fuggirono dalla tenda senza domandarsi cosa si stavano lasciando dietro. Io fui travolta da quella massa impazzita e per evitare di venire calpestata mi lanciai per terra nell’angolo. Nel tentativo di salvarmi dal finire sotto i tacchi dei miei colleghi sovraeccitati urtai il ginocchio contro una delle sedie ed il dolore mi tramortì al punto che per un attimo persi i sensi.

Mi svegliai con la vista annebbiata ed un dolore sordo e palpitante al ginocchio, mi portai una mano alla testa e tentai di sollevarmi. Il capo mi girò ma resistetti alla nausea ed al dolore tentando di mettere a fuoco la scena attorno a me.

Il silenzio, dopo la confusione di pochi istanti prima, era assordante e ininterrotto, eccetto che per un unico umido rumore.

Sentivo una specie di grugnito accompagnato da suoni che, pur se sconosciuti, mi fecero istintivamente risalire la nausea. Avvertivo una sensazione di terrore inconsulto.

Sbattei le palpebre più volte e finalmente focalizzai la scena attorno a me.

La tenda che fungeva da aula di tribunale era totalmente sottosopra. Le sedie rovesciate, i banchi dei giudici capovolti, c’erano delle masse scure per terra. Uno strano mucchio scuro sporgeva dietro i banconi. Un’altra ombra si trovava accanto all’entrata da cui aveva avuto accesso l’ultimo imputato.

E poi, in mezzo all’aula, circondata dal sangue, distinsi la scarpa di uno degli agenti, al suo interno c’era ancora il piede…ma, non c’era il resto del corpo. Singhiozzai portandomi una mano alla bocca e mordendomi le nocche per non fare rumore. Sentivo ancora la presenza di qualcuno sotto quella tenda ed avevo già il sospetto di chi si trattasse.

Sangue era sparso ovunque, per terra, sulle sedie, sui banchi, sulle tende… il rumore umido continuava e, nonostante tutto il mio essere mi gridasse di non voltarmi e di fuggire a gambe levate, il mio corpo sembrava possedere una propria volontà. Girai la testa mio malgrado verso destra ed osservai, in uno stato di choc affascinato, l’uomo che era stato condotto in catene poco prima pasteggiare con l’intestino del collega calvo che era stato seduto davanti a me e di cui avevo osservato la lotta continua con le mosche ed il sudore.

Non riuscii a farne a meno. Vomitai. E quella fu la mia sentenza di morte.

L’essere si voltò nella mia direzione e, senza nemmeno sollevarsi, cominciò ad avanzare carponi nella mia direzione, emettendo dei suoni gutturali, strozzati e mostruosi dalla bocca grondante sangue.

Rimassi a fissarlo inebetita, senza muovere un muscolo. Si diresse verso di me, mi guardò per un attimo con quel suo sguardo vuoto e sbilenco e mi si lanciò addosso.

<<Cazzo!>> riuscii a dire un attimo prima di morire.

 

Caterina Schiraldi

 


 


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