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Il lampo (quinta parte)

 

Avevo un terribile mal di denti, avrei voluto trovare un odontoiatra o un generale dentista, perché negli ultimi due decenni la mia bocca sembrava un vero campo di battaglia. Li avevo rifatti tutti per ben due volte. Il dolore più tremendo lo provai quando un “macellaio” mi operò agli incisivi laterali superiori inclusi. L’unica procedura che a suo dire fosse possibile consisteva, spiegata da profano, anzi da paziente, nell’estrazione di quelle zanne dal palato, tramite un piccolo taglio. L’anestesia locale fu abbastanza percepibile, forse non così insopportabile. Quel che invece mi diede proprio fastidio fu la complicazione dell’operazione. Vari tentativi di sradicamento andarono a vuoto, quindi il dottore dovette rompere con una specie di martello e uno scalpello (altro non era, sebbene avesse un nome specifico) che sentii battere in maniera ripetuta e poco piacevole.

Le vibrazioni mi scuotevano la testa, le sentivo rimbalzare attraverso la colonna vertebrale fino ai piedi, e, nonostante fossi seduto e sedato, i colpi mi provocarono uno stato di distaccamento dalla realtà, un trapasso che sembrava infinito, uno stordimento molesto e doloroso.

Dopo un’eternità il mastro era riuscito nel suo lavorio, mi diede cinque punti, sputai sangue in una bacinella attigua e mi ritrovai vivo. Mi disse che l’operazione era durata solo tre minuti, un record. Ma probabilmente era una cazzata.

Scendendo dalla stradina in pietra lavica, a destra vidi una chiesa antica, bella, accanto al cimitero, in cui non avrei mai cercato un raccoglimento spirituale e neppure una funzione religiosa. Era lì come una costruzione qualsiasi. Più avanti, passai accanto a un panificio. Immaginai l’odore del pane, o forse era profumo, che a un affamato come me accrebbe il desiderio di ingoiare un qualcosa che otturasse il buco allo stomaco. Avevo proprio voglia di divorare, avrei dovuto conquistarmelo, quasi come quella volta che alla festa di compleanno di un’amica dovetti lottare per raggiungere una porzione di lasagne.

Gli invitati erano circa sessanta, famelici, eterogenei, lupi travestiti da ballerini dozzinali; alcuni erano di una volgarità così tangibile che non avevano bisogno di aprir bocca per ricevere una conferma della loro grettezza: era visibile nel portamento, nel vestiario e persino in viso. Emanavano bassezza primitiva, ma non erano nani, anzi alcuni sì. La padrona di casa aveva previsto una compostezza signorile nel buffet, e si sbagliava, perché quelli erano abbuffini, si accalcarono come mandrie di gnu verso un fiume, però non erano antilopi, erano caimani.

Quando mi accorsi della ressa fu troppo tardi, almeno per la fame che avevo. I due lunghi tavoli di plastica erano circondati: quella gente serrava la schiera compatta e inamovibile, non trovavo una breccia, e non sarebbe servita a nulla, poiché in un lampo le vare pietanze scomparvero. Ciascuno si riempiva il piatto smisuratamente, prendendo pezzi pure per amici, nipoti, suocere e compagni di classe, come se il mondo dovesse finire lì e quel giorno. Quando a fatica giunsi davanti a un vassoio, trovai solo un misero pezzo di lasagna al pistacchio, spiaccicato ai bordi del portavivande, lo raschiai e mi ritenni pure fortunato. Andando verso la parte centrale del salone squadrai con astio una donna truculenta e truce che divorava senza belare la sua preda; mi guardò di sbieco, arcigna con due occhi neri e inanimati, dopo che si era pulita la bocca con il polso della mano sinistra. Poi prese il vino da un bicchiere di plastica poggiato a terra e bevve. Mancò poco che ruttasse.

La sala adibita al festeggiamento era sotto la villa, era fredda, oscura, ogni tanto ravvivata da una luce sepolcrale, bombardata da una musica noiosa e assordante di origine sudamericana, quasi tribale, surrogato di un luogo di perdizione.

Ogni tanto uscivo fuori a inspirare ossigeno, perché grazie a dio potevo fumare la pipa solo nel viale, però poi dovevo rientrare a devastarmi le orecchie con quella litania, o peggio ancora sorbirmi le chiacchiere di qualche ospite.

 

La divagazione non ha mai fatto parte della mia personalità, e, nonostante fossi per natura confusionario, almeno fino ad allora, e lo sia ancora adesso, iperattivo, sempre con la mente altrove e mai al presente, mi tocca tornare ai fatti, a quel che in quel momento mi accadeva, e in realtà non stava succedendo niente di diverso da quel che era sempre stato.

Quella via, quel cimitero, quel panificio, quel rione, persino l’abbeveratoio, li conoscevo benissimo, ci passavo ogni giorno, ci sostavo, ci compravo il pane, ci vivevo, anche se ancora non avevo avuto il privilegio di eleggere a dimora il camposanto. E meno male. Sapevo benissimo dove la strada mi avrebbe condotto: la prima traversa a destra, a circa cento metri da me, mi avrebbe portato al supermercato dove facevo la spesa; a sinistra costeggiando il panificio sarei arrivato da un fioraio; andando dritto sarei sbucato alla piazza principale del paese. Il mio viaggio era stato circolare. Il mulo mi aveva trasportato nel mio territorio, ossia a casa, che da quel quadrivio era a circa due chilometri.

Invece di scendere in paese spronai l’animale verso la strada che va a nord, solo che non era più asfaltata, almeno così la ricordavo, ma sembrava una trazzera di campagna, un po’ più larga, pur sempre una mulattiera.

La salita era ripida, Calogero era stanco, quindi scesi dalla sua groppa e proseguii a piedi pure io. In poco tempo raggiungemmo lo spiazzale in cui centinaia di anni addietro avevano costruito una fontana con acqua che proveniva da una sorgiva naturale del monte. Ci fermammo e dissetammo, riposandoci dall’erta scalata.

Dietro alcune casette di legno, simili a baracche per la vendita di qualche prodotto, echeggiava e proveniva un rumore tonfo, come un martello che si abbatte su un’incudine. Mi avvicinai, raggiunsi il frastuono. Un uomo tarchiato, con un camicie da barbiere, pieno di capelli brizzolati e scomposti, affondava la scure su grossi pezzi di castagno da usare come legna da ardere. Gli chiesi se conoscesse un dentista e mi rispose che l’unico al paese era lui. Di mattina faceva il falegname e di pomeriggio dalle sedici alle venti apriva lo studio, in ogni caso, per avere la preminenza ed essere sicuro della visita, avrei dovuto andare in sala d’attesa prima possibile; bastava entrare nella seconda baracca vicino all’ingresso del piazzale, scendere per le scale al piano interrato, seguire le indicazioni. Aggiunse che sarebbe stato meglio se avessi portato con me una torcia, perché le luci dei corridoi erano fioche e a volte inesistenti; che mi sarei potuto sbagliare, entrando in un’altra sala, altri vani, e perdere il mio tempo facendo una fila inutile nel posto sbagliato.

Legai Calogero a un eucalipto, ordinai ai cani di restare nello spazio vitale del mulo, e mi diressi verso la porta della casetta in legno.

All’ingresso, dietro a una scrivania, c’era un donnone con una scritta al petto, Marianna Balena, che si curava le unghie. Iniziò un discorso senza senso, che fu, bene o male, questo: “il vento è scomparso, la pioggia è finita, le nuvole si sono diradate. Tornerà il sole a splendere in questa vallata. Tu hai bisogno di qualcuno, non puoi fare tutto da solo, non puoi fare a meno di noi, della società, del mondo. Potrai cavartela e resistere un po’ di tempo anche lontano, sperduto in qualche grotta, rintanato come un lupo nella foresta, e anche se possiedi numerose conoscenze specialistiche, non le padroneggi tutte. Ciascuno di noi può e deve girare una manovella alla volta, ma il meccanismo va alimentato da tutte le mani. Senza di noi puoi solo fotterti. Vuoi venire a cena da me questa sera?”. La guardai fisso per un attimo, con occhi biechi, trasudanti livore, la bava della rabbia mi saliva alla gola, quasi schiumavo, ma mi trattenni e le risposi gentilmente: “Cazzo, bevi e mangia, occupa questa bocca truculenta, tienila impegnata, ingoia aria, orribilissima e pingue pattumiera di liquami.”. Mi sorrise e tornò a limare le sue unghie.

La scala era in pietra con un passamano di legno ruvido ancorato alla parete destra, il muro cosparso di salnitro, puzzolente di umidità salmastra, persino sulfurea. Sembrava un vecchio ingresso di una miniera di sale o di zolfo. Abbasso si allungava un corridoio buio, silenzioso e forse pure tetro. Riuscivo a notare a destra e a manca solo le prime diramazioni, anch’esse oscure e prive di ogni flebile barlume di luce. Non distinguevo niente, per cui accesi la torcia per cercare di trovare una possibile direzione. La lampada illuminò alcune insegne a destra e a sinistra.

Vidi “Cinema”, “Obitorio”, “Tabaccaio” e tantissime altre indicazioni, purtroppo non quella del dentista. Andando più avanti nel tunnel scorsi una barriera, con un uomo in mimetica fuori da un ufficio; il locale aveva l’aspetto di una gendarmeria da metropolitana. Attraverso un grosso vetro blindato si vedeva una scrivania dietro la quale era seduto un pelato, scarno, con gli occhiali da topo di biblioteca. Il militare all’esterno era armato di pistola mitragliatrice, che teneva a tracolla sulla pancia che sembrava da maresciallo, non da sergente. Chiesi a lui e mi rispose che il dentista si trovava oltre il confine, che avrei dovuto imbarcarmi sulla metropolitana internazionale, e in poco tempo sarei arrivato nel paese dello “Zahnarzt”.

Oltrepassai la sbarra, percorsi circa cinquanta metri e giunsi alla “Grenze”, cioè fuori patria. Maledetta terra straniera, sempre lì finivo.

 

La stazione si trovava oltre uno strapiombo, varcato da un ponte himalayano, costruito con cavi d’acciaio e legno teak, praticamente indistruttibile. Nelle viscere era visibile e incandescente un fiume rosso. Attraversai con sicurezza, avrei anche potuto balzare o volare, tanto era sempre stato tutto solo un sogno o un delirio, dopo pochi metri giunsi alla stazione della metropolitana. Non occorreva biglietto in quell’incubo, era tutto gratis e obbligatorio, poiché già vissuto. Scesi la rampa di scale, per accedere ad un’area illuminata a giorno, in cui tanti passeggeri aspettavano il convoglio, forse erano una trentina. Dopo qualche minuto arrivò quello che questi stranieri chiamavano treno. Attraverso le carrucole superiori a cui era attaccato, cominciò ad avanzare la carlinga di una specie di aereo che aereo non era. Sulla fiancata, lunga più di venti metri, vi era riportata una scritta LGM-118, ma si leggeva malamente; sembrava un missile balistico intercontinentale, modificato, e sicuramente lo era, a cui avevano aggiunto una carrozza anteriore per i passeggeri. Una botola si aprì da sotto la struttura, con una scala che via via prese la forma di una a chiocciola. Iniziammo a salire e ci accomodammo ai sedili che erano posti ai bordi interni dell’unica cabina.

Una ragazza che barcollava come una zoppa prese posto alla mia destra. Era giovane e fresca, sembrava introversa, eppure iniziò a parlare di sé: “mi chiamo Claudine, studio lingue e voglio fare la cameriera.”. “Ottimo” risposi io e aggiunsi: “ma perché solo la cameriera, non hai bisogno di laurearti per fare la cameriera, ossia puoi fare ciò che vuoi; se stai studiando e ti stai consumando sui libri, occhi, ore, obliterando energie, impiegando tempo, l’unico tuo tempo, avrai altre aspirazioni, più elevate ambizioni o dovresti averle…”. Lei continuò con un discorso vago e metafisico, astruso e irrilevante, sciorinando teorie sull’inutilità di uno scopo in questo universo vuoto, inconsistente e labile. L’obiettivo primario, ammesso che ve ne fosse uno, che ve ne sia uno, era “l’io-sono-adesso”, “l’esserci” che si espleta nel momento in cui faccio qualcosa che non avrà futuro, ma che esiste solo perché è temporaneo e non avrà compimento. L’atto di libertà avviene nel presente e non in un proseguimento ipotetico, poiché inesistente. Quel che è vero è unicamente il dolore, che non è virtuale, ma è oggettivo e intimo, soprattutto personale, incomunicabile. A ogni sua cessazione riscopriamo la gioia che dura fino alla comparsa di un nuovo malanno. La felicità sovviene sempre veloce tra l’afflizione e la disperazione. Ecco perché ricerchiamo continui e fiammanti spasimi (e spasimanti), a volte persino prolungandoli dopo la loro cessazione. Essere delicati nella sofferenza degli altri non ha nulla della compassione: è invidia, è disprezzo, è pure compiacimento, sapendo che quello stato mentale o fisico, temporaneo, non ha ancora raggiunto il punto di arrivo o il punto di non ritorno. I sensi sono meccanismi soggettivi non comunicabili. Poi aggiunse: “E bla bla bla.”. Le sorrisi, riprendendomi dalla sua traumatica orazione. Capivo solo che era intelligente, oppure fuori di testa.

La voce all’altoparlante annunziò di allacciare le cinture di sicurezza, il “treno” accese i motori e partì inchiodandoci ai sedili. In circa venti minuti arrivammo alla stazione di Ratingen non distante dalla famosa Neanderthal. Riconobbi quel posto in cui ero stato diverse volte, non sembrava di essere in Germania ma in Turchia, o in qualche casbah algerina, in terra comunque araba. Il cielo era sempre grigio, opaco, scuro, tetro e maledetto come lo era sempre stato.

Ero in anticipo per andare dal dentista, per cui pensai di passare al ristorante “Fabulus”, di un amico di nome Morò, nella Dorfstrasse, vicino alla chiesa gotica, distante poco dalla mia salvezza, cioè dieci minuti a piedi, anzi, col mio passo, anche meno.

Entrai nel bar, mi avvicinai al bancone e gridai “cafèe”. Il barista che non mi conosceva mi guardò perplesso; in quel frangente dalle cucine si mosse, correndo come un rinoceronte alla carica, l’amico che aveva riconosciuto una voce lontana e familiare, e per poco non si spiaggiò sui lavelli del bar.

Dopo il caffè uscimmo fuori a respirare l’aria pura che avvolgeva quella frazione così distante dal mio mondo, un paese che fu pure un tassello della mia esistenza. Dal cielo cadeva la neve imbiancando i tetti spioventi di quelle case e di quella vecchia chiesa. Lì non era cambiato nulla, e nulla sarebbe mai potuto mutare. Era pur sempre un vagabondare, il solito, forse un pellegrinaggio o un supplizio, il mio giro a ritroso. Era remoto, era dimenticato, ma sempre ritornava nel sonno o nella veglia.

 

Joe Oberhausen-Valdez

 


 


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