Racconti

LA REGOLA DI MAMMA

 

Quando ero bambino ricordo che mamma diceva sempre: “se devi uccidere “qualcosa”, ma anche qualcuno, dovrai farlo per mangiarlo”. A ripensarci, aveva una voce aspra che non sembrava un consiglio ma piuttosto un ordine. Tuttavia, alle orecchie di un bambino, quelle parole suonavano melodiose e sicure, erano perle di saggezza. Un ragionamento da mamma: non si spreca nulla, il cibo è importante.

Poi però, ricordo ancora la volta in cui imparai la reale funzione di quella regola. Avevo cinque anni ed era estate ma quel giorno pioveva forte, così anziché stare in giardino all’aria aperta, mi stavo divertendo a schiacciare delle formiche saltandoci su. Avevano invaso il pavimento della cucina. Non appena mamma entrò in casa e vide quello che stavo facendo, mi disse con calma ma ferma: “ora raccogli le formiche morte e mangiale, figliolo!”. Ricordo che risi a quell’affermazione ma lei mi fissò con occhi infuocati e smisi immediatamente.  Gli dissi che non volevo, ovviamente, e mi rifugiai dapprima nell’angolo più lontano della cucina cercando poi di guadagnare l’uscita in modo indolore. Naturalmente non ce la feci, mi afferrò e tenendomi bene stretto, mi costrinse ad ingoiare le formiche, una ad una. Me le infilò in bocca cacciandole fino in gola. Quando mi lasciò, corsi in bagno a vomitare. Rimasi in ginocchio davanti alla tazza per almeno mezz’ora, mi doleva tantissimo la gola. non potevo smettere di fissare il vomito nero in fondo al cesso.

Un’altra volta, avevo otto anni, e l’adorata mammina mi beccò mentre stavo giocando con delle mosche, ne avevo preso una a cui avevo staccato un’ala soltanto e mi divertivo a vedere come impazziva mentre cercava lo stesso di spiccare il volo. In pratica continuava ad avvitarsi su se stessa pur rimanendo ad un millimetro dal tavolo. “Puoi decidere di mangiarla subito da solo oppure lo farai insieme a me tra due minuti!” mi disse. Iniziai a mugugnare, presagendo ciò che m’attendeva. Lei non tollerava che piangessi quindi figuriamoci quando borbottavo incazzato. Di scatto picchiò un pugno sul tavolo che mi fece trasalire, poi fulmineamente raccolse la mosca e mentre la guardavo terrorizzato, contorcersi tra le dita di mia madre, venni afferrato per il collo. La mia bocca non poté fare a meno di spalancarsi. Me la buttò dentro. Sentivo la mosca muoversi sulla lingua, forse cercava l’uscita. Ronzava sul bagnato delle papille gustative. “Chiudi e butta giù” mi intimò. Son sicuro che non fosse ancora morta quando la inghiottii. Per settimane immaginai la mosca che se ne andava in giro dentro al mio stomaco.

Passarono un paio d’anni, mi stavo divertendo in giardino con arco e frecce che avevo costruito utilizzando un ramo e un laccio di scarpe. Ad un certo punto mi svolazzò davanti agli occhi un piccione piuttosto grosso. Fu una preda facile. Bastò un tiro e quello cadde ai miei piedi. Proprio in quel momento però, mamma era alla finestra del piano di sopra e aveva visto la scena. “Raccoglilo e portalo dentro! Subito!”. Sbuffai, non avevo fame.

Mi obbligò ad assistere alla pulizia dell’uccello, prima gli strappò tutte le penne, lo ripassò sul fuoco per bruciare tutti i residui, poi lo sventrò, quindi lo gettò in una pentola di acqua bollente. Quando fu cotto, lo mise su un piatto di fronte a me. Sembrava un piccolo polletto. “Adesso mangialo!”, ordinò. “Ma non ho fame” provai a dirle. “Non importa! Conosci le regole!”. Rimase immobile davanti a me per assicurarsi che lo mangiassi tutto.

Mamma una volta riuscì anche a non essere malvagia. Per il mio decimo compleanno mi comprò un cucciolo. Fu un avvenimento. Diventò il mio migliore amico.

Pochi mesi dopo mi stupì ancora: aveva deciso di insegnarmi a guidare la macchina. “Sei l’ometto di casa, devi imparare, dovessi aver bisogno…” mi disse.

Mentre stavamo uscendo dal vialetto, sentimmo uno strano scricchiolio, allora pigiai il freno con tutta la forza che avevo. Quando scendemmo dalla macchina, purtroppo trovammo il mio amato cagnolino schiacciato sotto una delle ruote posteriori. Caddi in ginocchio e scoppiai in lacrime.

“Conosci le regole” mi disse Mamma.

“No, no, nooo” urlai.

Mamma raccolse da terra il povero cucciolo ormai defunto. Nel frattempo, temendo il peggio, mi ero già dato alla fuga nel campo. Rimasi due giorni barricato nella casa sull’albero che mio papà aveva costruito per me quando nacqui. Era un luogo sicuro. Lontano dalle manacce di mamma che non sarebbe riuscita a salire là sopra. Per fortuna. Tuttavia faceva freddo e iniziai ad avere molta fame.

La terza sera aspettai fino ad ora tarda e m’intrufolai in casa passando dalla porta sul retro, cercando di fare pochissimo rumore. Nonostante il passo felpato, sentii la voce profonda di mamma come se fosse prodotta direttamente dal buio: “La tua cena è sul tavolo! Sbrigati a finirla. Tutta!”

Si accesero le luci, lei era in piedi ferma in posa granitica nel bel mezzo della cucina e indicava un grosso vassoio sul tavolo. Potevo riconoscere il mio cucciolo arrostito con una mela in bocca.

Provai a scappare ma fu tutto inutile. Mi afferrò come sempre faceva e mi costrinse a sedermi a tavola. Avrei anche potuto piangere ed urlare all’infinito ma a lei non sarebbe importato.

“Stai fermo e composto” mi disse mentre con coltello e forchetta tagliava delle generosi porzioni di carne di cane. Me lo fece mangiare fino a non poterne più; quasi mi scoppiò lo stomaco.

Ciò che successe fu veramente troppo. Non era la classica goccia che fa traboccare il vaso. Si trattò di un’alluvione di proporzioni bibliche. Decisi che non avrei più sopportato tutti quei soprusi. Me ne sarei andato.

Una mattina presto, poco prima dell’alba, mi vestii velocemente e buttai un po’ di roba nello zaino che usavo per andare a scuola. Poi senza far rumore, lentamente uscii dalla mia camera. Stavo scendendo le scale, quando ad un certo punto sentii un respiro caldo soffiarmi dietro la nuca.

“Stai andando da qualche parte?”

Istantanee goccioline di sudore gelato mi corsero lungo la schiena. Mi girai anche se conoscevo già la scena. Quella megera mi stava fissando dalla cima delle scale.

Non feci in tempo a scendere l’ultimo gradino che mi sentii afferrare dal coppino. Avrebbe dovuto brevettare la mano come una nuova forma di tenaglia.

“Dove pensavi di andare? Dimmelo!”

Non risposi, ero pietrificato dalla paura. Mi lasciai cadere a peso morto. Questo però le fece perdere l’equilibrio, non se lo aspettava. Rotolò giù per le scale e per un pelo non mi rovinò addosso. Infatti cadendo aveva allentato la presa e riuscii a divincolarmi.  Col suo mastodontico peso mi avrebbe sicuramente ucciso. Era stesa a terra con la faccia verso il pavimento. Doveva aver sbattuto la testa cadendo o non so cosa. comunque aveva il collo piegato in modo strano. Mi avvicinai e la toccai ma niente, era immobile come uno stoccafisso. Provai a chiamarla, nulla. Quando le girai la testa, i suoi occhi di morte non riuscivano più a sostenere il mio sguardo. La bastarda non c’era più, eppure era lì. Iniziai a piangere. Forse dalla gioia.

Stavo ancora piangendo mentre accendevo il forno e uscivo in giardino per andare nel capanno a prendere l’ascia. Non avevo fame ma conoscevo e avrei eseguito il precetto della genitrice… La regola della mamma.

 

Luca Pennati

 


 


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