Raccontiracconto

Si è vero, è incontestabile, ho due bellissimi occhi verdi, meravigliosi, di una rarità non comune. Le mie iridi abbaglierebbero il mare.
Sono sempre stata una ragazza graziosa, elegante, una rosa, e ora da donna lo sono ancora di più, il volgo se ne accorge anche dalla mia voce sensuale, voluttuosa, che scava nella voragine più recondita in cui si svanisce una cosa inesistente chiamata anima. Io diffondo luce. Gnà gnà.
Il mio cipiglio è sempre stato fatale, atterra e sconvolge, annienta e rianima. Ho uno sguardo che attrae, annichilisce, dissesta, crea sospiri e infligge passione. La mia faccia dice tutto. Je suis Cat… aspe’, forse sono solo Rosetta. Mo’ mi sveglio, almeno spero, anzi no.
Sono seduta sul divano, mi desto davvero, credo di avere accanto a me un topo bianco, e invece è il mio Fuffy che ronfa come un cane. Guardo la parete e sogno l’Himalaya, miro il soffitto e penso al cielo, lavo i piatti e il rubinetto scroscia come una cascata. Fuori, dalla finestra proviene un frastuono, come il chiasso delle auto, ma io vi percepisco una melodia o un walzer. Questi attimi per me sono il paradiso, il sorriso di un’anima che può respirare.
Sì, lo riconosco, sono una sognatrice, almeno questo, maledetti uomini!
Sono nata in una terra stupenda, un’isola, forse qualcosa di molto simile a me; alle mie spalle si innalzano monti maestosi ma di fronte vedo sempre acque senza limiti. Tutto ciò che mi circonda gira attorno a me, come se io fossi un sole, solitario, imprendibile, eterno e vitale. Quel che avviene al di fuori del mio corpo sinuoso è solo un movimento che io, e solo io, attraggo e respingo allo stesso tempo. Vorrei essere qualcosa di più, o qualcosa di meno, non più un astro che brucia da solo, irraggiungibile in questo cosmo ermetico, astruso. Un universo di angoscia arcana.
Eppure un giorno, anche io mi spegnerò, abbandonandomi lentamente o d’un colpo alla cessazione di quel fuoco che irraggia.
Gli anni stanno arando la mia fronte, e ben presto l’ineluttabilità degli eventi trasformerà la bellezza che osservo ogni giorno nello specchio, mutando il candore e la giovinezza in una sfumatura di inizio di senilità, diverrà un refolo di cambiamento, e da ctonio esploderà manifesto.
Si approssima la sera. Ritorno a sedermi sul divano, apro un libro e sogno, perché non bisogna mai estinguere le luci della speranza, anche se finora non trovo che esseri inadatti al mio supremo brivido. Fremo, sento di esser viva, di avere una potenza repressa e imprigionata che soggiace alla razionalità, racchiusa in una prigione dovuta al tempo e al caos, una percezione che mi sprofonda in un pozzo dal quale vedo solo la luce della luna che illumina l’orifizio. Forse è un destino inalterabile. È una stagione inappagata.
Vorrei cambiare tutto, ripartendo dall’infanzia, quando la mia spensieratezza non mi prospettava se non la gioia del presente, quando con la bicicletta correvo verso il mare, che fosse estate o fosse inverno, e mi perdevo nell’immensità di un giorno che non aveva mai fine. Il tramonto era solo la folata prima del crepuscolo, e la notte un socchiudere gli occhi in un unico flash. E poi di nuovo il sole e il mare, l’amore sperato e disperato che fantasticavo oltre l’orizzonte, e laggiù c’era la mia avventura che assumeva un contorno sfumato e desiderato. L’illusione del futuro.
È tardi, la notte mi trascina in un torpore che mi infastidisce, mi rabbrividisce. Mi stendo sotto la coperta sempre pronta sul divano e spengo l’abat-jour. Dalla finestra penetra soffusamente una parvenza di luce, che non disturba e forse mi allieta. Adesso il tepore della lana mi riscalda, quasi mi addormenta o mi smarrisce, e forse sogno. Sento qualcosa che si avvicina ai piedi, lo sento come se mi sfiorasse la pelle, risale nel mio corpo, si addentra sempre più nei miei condotti più celati, ma non lo vedo, eppure è lì che risale, lento, caldo, fortemente intenso; diviene ancor più vigoroso, possente, si insinua in me, mi invade, si spinge dentro, irrompe nell’anima. È un ordigno che implode.

Mio marito è morto da tempo, non ho figli, nipoti, e neanche più il cane. Gli amici sono spariti nel corso degli anni. Da qualche parte dovrei avere anche una sorella, ma abita lontano, non viene mai a trovarmi, già… è andata via pure lei. Lentamente mi alzo dal sofà, mi incammino slombata verso la porta che si affaccia sul corridoio, per uscire in giardino. A fatica arrivo al portone dall’ampia vetrata translucida e guardo al di là. È un bel recinto, grazioso, adorno di fiori, attraversato da un lungo viale che porta sulla strada di una campagna mai vista.
Sulle panchine di legno di color verde muschio, vivace come lo erano i miei occhi adolescenti, sono seduti alcuni vecchietti che biascicano qualcosa tra di loro, quasi a voler conversare. Da una porta secondaria del grande caseggiato sbuca fuori una carrozzina sospinta da una donna grassa, dalle braccia nerborute e adipose. È proprio massiccia come un cinghiale. Il rumore delle rotelle si fa sempre più vicino e si accosta a me che nel frattempo sono seduta su un muretto per sciogliermi al sole. Accanto a noi giace un vecchio libro, con la copertina rossa, probabilmente raffigura una ragazza coi capelli al vento, e sullo sfondo la detonazione di qualcosa di immane.
L’anziana è ormai muta per la vecchiaia, ma mi sorride.
Restiamo insieme alla luce di quella fantastica stella per un tempo indeterminato e vago. È ora di rientrare, di andare a mensa a pranzare. Il pasto è sempre servito alle dodici. Varcando la soglia del refettorio mi guardo nel magnifico specchio. I lunghi capelli bianchi si adagiano sulle spalle, le mani rattratte e rattrappite tastano quel viso, triste come me. Sono davvero vecchia.

I raggi del sole ora invadono la stanza. Forse ho un altro giorno ancora.

Joe Oberhausen-Valdez


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