Racconti

di Simon REBEL


Il tintinnio elettronico seguito dal rumore di aria compressa che fa aprire le ante, attira subito l’attenzione dei soggetti rimasti all’interno della sala, che saranno ancora una ventina: quelli che stavano divorando gli intestini dei cadaveri si voltano lentamente nella mia direzione, iniziano ad alzarsi e camminare verso di me.
Gli altri, tutti, fanno lo stesso.
Il guaio maggiore è che, probabilmente attirati dal movimento degli altri, anche parte di quelli usciti in strada inseguendo la Bergati rientrano all’interno. La sala è nuovamente quasi piena di quelle cose.
Si muovono tutti, in massa, verso di me. E ora capisco cosa ha provato quella ragazza durante la sua fuga. Bene. Devo prendermi qualche secondo per ragionare. Rientrare nella porta sarebbe un suicidio: dentro sarei al sicuro, ma in quattro metri quadrati. Senza cibo e acqua. E una volta che l’ingresso fosse stato braccato da tutti quei mostri, non avrei altra uscita. Allora controllo che nessuno di loro inizi a correre. No. Camminano tutti. Più, meno o per niente claudicanti, ma camminano. Tutti.
Sono lenti. Non so perché, ma sono lenti.
Si, saranno lenti, ma continuano a muoversi, mi dico subito dopo.
Ma posso farcela. Sono lenti, continuo a ripetermi. Puoi farcela, sono lenti.
Può anche essere. Ma devi sbrigarti, coglione. Prima che ti chiudano ogni spazio di fuga.
Emettono dei rantoli inquietanti, ringhiano come lupi, e continuano ad avvicinarsi a me. Muovo i miei primi passi, li osservo, e continuo a ragionare.
Altro punto a mio favore: la sala è enorme. Spostandosi verso di me stanno liberando il lato est della sala: quindi passando dietro il banco della recezione avrei un sacco di spazio per guadagnare metri, forse arrivare anche a metà sala. Ma devo muovermi. Ora.
Corro quindi in quella direzione, schivo un paio di loro, raggiungo il banco. Lo percorro velocemente per la sua lunghezza, evitando le braccia di quelli posti al di là. Come avevo pensato, giunto al margine opposto ho un buon corridoio ora per avanzare, ed in effetti arrivo quasi a metà della sala. Ora mi fermo un secondo, pur avendo intuito che ogni secondo passato fermo è un rischio enorme. Inizio ad analizzare la successi vaporzione di suolo da percorrere per avvicinarmi ancora all’uscita, e decido: devo andare verso il centro ora, è la zona più sgombra. Così faccio.
Riesco ad arrivare a metà sala, faccio anche qualche altro metro. Ma ora la sensazione è davvero terrificante: so di non essere più dietro una porta blindata, e so che non ho più né un muro dietro di me, né un grosso bancone davanti. Ora so di averne anche alle spalle di quelle cose, e a destra, a sinistra, e davanti. E che si avvicinano. Tutti. Lentamente, ma inesorabilmente. Se rimango troppo tempo fermo, sarò a breve accerchiato. Ma se mi dirigo nella direzione sbagliata, sono fottuto lo stesso.
Questa è un’altra di quelle partite di cui parlavo. Una specie di partita a scacci. Ma di quelle che si devono vincere e basta. Di quelle che se le perdi non ci sarà il ritorno.
Hai un solo tiro. E se lo sbagli, non ce ne sarà un altro. Oneshot, onekill.
Faccio la mia scelta. Mi appresto a camminare a passo svelto verso sinistra. Riesco a guadagnare altri dieci metri. La litania ringhiata da quella mandria di demoni, amplificata dall’eco della struttura, sta diventando ossessionante. Accorcia ancora di più il fiato.
Un paio di loro arrivano ora ad una distanza da me che inizia ad essere davvero esigua. Eccessivamente esigua. Inquietantemente scarsa.
Faccio un movimento rapido, il cuore si ferma. Riesco a scansarli.
Ora procedo a passo più lento, ora la loro presenza è più fitta. Individuo un’altra zona abbastanza libera. Riesco a raggiungerla.
Sono a dieci metri scarsi dalla porta. Ma li davanti ce ne sono ancora diversi. Attratti li dalla Bergati quando è sgattaiolata fuori, e lì rimasti. Mi guardo un attimo solo dietro: tutti quei demoni stanno incedendo verso di me. Quelli che ho davanti, lo stesso. Decido di correre verso la parete più vicina, e di percorrere il muro.
Cazzata immane. Mi rendo conto di aver appena fatto una tra le scelte peggiori: lo spazio a mia disposizione continua a stringersi inesorabilmente, come era prevedibile che sarebbe stato dal momento che sono uscito dalla porta, e ora è difficile chiedere al muro di spostarsi per concedermene altro. Ormai sono quasi braccato, gli spazi per spostarmi sono pressoché nulli. Penso che forse ho appena fatto la mossa sbagliata, che forse ho perso una di quelle partite che si devono vincere e basta: ho appena mandato a vuoto uno di quei proiettili che non possono mancare il bersaglio, etra pochi minuti per me potrebbe essere finita.
Oneshot, onekill. E probabilmente ho fallito il tiro.
La disperazione è una cosa strana. Ho sentito storie nelle quali persone disperate hanno fatto cose assurde. Ho sentito di come ogni serpente, anche il più velenoso, inizialmente tenti di fuggire in presenza di esseri umani o altre presenze, e che nessuno di loro abbia la sadismo di attaccare gratuitamente, ma assuma atteggiamenti minacciosi o arrivi a mordere solo quando si sentisse eccessivamente minacciato, o inesorabilmente braccato. Esattamente come anche il cane più mansueto, alle strette, possa diventare feroce.
Forse è la stessa identica cosa che credo stia per accadere a me.
Io, che non sono mai stato in grado nemmeno di abbattere una mosca che infastidisse Elisa. In realtà,pensandoci bene, forse non ero mai stato in grado di fare nulla per lei che non potessero fare i soldi, ora che ci penso.
Capisco in un attimo come il mio sia un grande portafogli, e come io evidentemente non sia assolutamente un grande uomo.
Elisa… ora come ora dubito fortemente che ci sarà modo di risistemare le cose.
Però la disperazione è una cosa strana. E io, che non ero mai riuscito nemmeno ad abbattere una mosca, improvvisamente mi ricordo di avere una mazza da golf in mano. Nello stesso momento, il cervello pare dirmi “ora mi hai stancato coglione. Ora faccio un po’ io”.
Blackout.
Vedo la mazza alzarsi e abbattersi con trucida violenza in mezzo agli occhi del mostro più vicino a me, spargendo melma color bordeaux tutto intorno: la sua testa fa un suono sinistro di ossa rotte. Quell’essere mi fissa per un secondo scarso col suo sguardo vitreo, prima di accasciarsi al suolo.
Non si rialza. Stavolta non si rialza!
Pianto una seconda terribile mazzata sulla testa di quello che gli era accanto: stessa sorte. Non si rialzano più!
Ho appena fracassato la testa di due esseri umani, o pseudotali. Comunque di due a forma di essere umano.
Io, che non ero mai stato in grado nemmeno di uccidere una mosca. Si… la disperazione è una cosa strana.
Così facendo ho aperto un varco di tre metri buoni. E’ la mia ultima occasione.
Mi fiondo in quel buco che mi sono aperto, sfiorato dalle braccia e dalle unghie degli altri mostri che cercano di afferrarmi, e sono fuori da quel mortale circondamento.
Riguadagno il centro del palazzo. Ora ho qualche altro secondo per ragionare. Ormai sono a pochi metri dalla fuga. Ma non faccio nemmeno in tempo a pensare ciò, che me ne trovo un altro paio proprio davanti: tiro un’altra mazzata terrificante in mezzo agli occhi al primo, che stramazza al suolo. Il secondo lo becco sulla tempia: fuori anche lui.
Corro.
Abbasso la testa e corro.
Corro. Corro e basta.
Sgattaiolo tra gli ultimi schifosi che si frappongono tra me e la porta. Non mi prendono. Varco la porta.
Sono in strada.
Non appena metto piede fuori da li, mi chiedo se non era meglio rimanerci.
Fuori, peggio che dentro, il caos pare essere l’unica legge universale rimasta: auto incidentate, in fiamme e capovolte bloccano inesorabilmente la carreggiata; cadaveri e membra di persone ovunque, gente che corre impazzita in ogni dove. In realtà è difficile anche capire quali di queste sono realmente persone.
E urla, colpi di arma da fuoco, rumori di vetri infranti.
Sangue. Fuoco. Distruzione.
Mentre rimango per qualche attimo attonito dinanzi a questa scena, sento afferrarmi il braccio: istintivamente do uno strattone, prima di voltarmi. Poi mi volto. E mi avvedo che il mio strattone ha fatto cadere in terra un altro di quegli schifosi rantolanti, che sta già rialzandosi. Non gliene do modo. Il mio cervello continua a fare da se, e prima che io possa dirgli qualcosa ha già aperto un altro cranio con un’altra mazzata, che stavolta si piega.
Mi rendo conto immediatamente di quanto questo luogo sia ancora meno sicuro della trappola di cristallo, e di quanto anche qui io sia vulnerabile rimanendo fermo, soprattutto ora che la mia unica arma sta dando segni di cedimento. Inizio quindi a correre, come tutti gli altri, divenendo un altro atomo impazzito, prendendo parte e mescolandomi a quel caos universale.
Istintivamente mi dirigo al parcheggio posteriore al palazzo, ove ho lasciato la mia macchina.
Il telecomando dell’apertura automatica di quel cancello ce l’hanno dieci persone: il boss e altri nove dirigenti, compreso me. Sapendo già la sorte capitata al direttore, mi faccio quasi schifo quando mi scorgo a sperare che gli altri otto non ce l’abbiano fatta, per far si che il parcheggio non sia stato aperto. In quel caso costituirebbe un altro possibile checkpoint. Un’altra tirata di fiato.
Corro all’impazzata, rendendomi conto che è l’unica e sola cosa plausibile da fare, e sperare di arrivare prima che mi accada qualcosa in mezzo a quel trambusto: la sola ipotesi di fermarsi nel tentativo di riconoscere e fronteggiare i pericoli, infatti, sarebbe totalmente impensabile in mezzo a quell’apocalisse.
Arrivo a qualche centinaio di metri dal cancello, sufficientemente vicino per vederlo, ma soprattutto incolume. Mentre continuo a correre, mi accorgo che le mie speranze forse erano fondate: il parcheggio è chiuso, con tutte le dieci auto dentro. Da qui all’interno non scorgo nessuna traccia di sangue, nessun segno di danni. La zona è ancora vergine: conoscendo a memoria i tempi di apertura, inizio a premere il telecomando del cancello automatico come un ossesso già da qui, mentre non smetto di correre.
Poco dopo, il lampeggiante giallo si accende, ed il cancello comincia a muoversi. Per quando arrivo, ha completato la sua apertura.
Mi fiondo in macchina, la tiro fuori dal parcheggio. Mi si parano davanti due uomini ed una donna. Ma ormai riconosco la loro andatura: la conosco abbastanza per capire che non sono due uomini ed una donna. Ingrano la prima, acceleratore e frizione fanno il resto. Li stendo come birilli, li sento sotto le ruote del mio suv. La cosa non mi dispiace nemmeno un po’. Imbocco la strada in direzione casa.
Non percorro neanche un chilometro, che la strada è nuovamente bloccata: un auto capovolta giace avvolta dalle fiamme, accanto a questa altre due con gli evidenti segni di uno scontro frontale. Non si passa.
Tuttavia è libero il passaggio per la traversa adiacente. Allungherò il tragitto, ma forse potrò arrivare a casa. La imbocco, e mentre procedo più lento per svoltare un uomo insanguinato mi chiede disperatamente aiuto, prendendo a pugni il finestrino. Non me ne curo. Accelero maggiormente e vado avanti.
Forse era un uomo, perché parlava. Ma fermarsi ora capisco che continua ad essere la cosa più folle da fare. La traversa che ho imboccato è libera, alla prossima devo svoltare a sinistra per riavvicinarmi all’arteria che interessa a me. E così faccio.
Il caos pare aver preso tutto il quartiere, a questo punto credo tutta la città.
Arrivato all’incrocio successivo, altre auto in strada ferme, abbandonate. E mi accorgo con orrore che stavolta non c’è modo di passare. Nessuno.
Il cervello, di nuovo, dice ‘lascia fare a me’: mi prende il piede e me lo spinge giù. Affonda sull’acceleratore, fino a fine corsa.
Ma cosa diamine stai facendo, penso subito dopo.
Il suv aumenta velocità, e si dirige dritto verso il punto in cui i musi delle due auto che bloccano la strada sono accostati.
La velocità aumenta, e io continuo a chiedere al mio cervello ‘ma cosa cazzo stai facendo’.
Lui non risponde. Tiene solo il piede giù, a tavoletta. Trecento metri.
Continuo a cercare di mollare il gas, ma la mia testa non ne vuole sapere. Duecento metri.
La velocità aumenta, sempre più. Come lo sbattere del mio cuore in petto. Sto sudando. Cento metri.
Chiudo gli occhi. Sento solo il motore. E’ alto. Non guardo. Aspetto.
Un boato.
Sento sbattermi in ogni direzione come in una centrifuga. Mi sembra durare ore.
Poi tutto si ferma. Il motore non lo sento più.
Sposto l’airbag, e mi guardo addosso, le mani. Sono intero.
Guardo fuori. Sono a testa in giù.
Un fischio mi tappa le orecchie. Fischio che va a svanire pian piano.
Quel fischio viene gradualmente sostituito dal trambusto di fuori. Il trambusto c’è ancora. Ma se lo sento vuol dire che anche io ci sono ancora.
Cerco di tirarmi fuori dall’auto: non sono conciato bene, ma riesco a muovermi. Mi accorgo tuttavia che le gambe non mi funzionano benissimo.
Sono fuori, di nuovo.
Sdraiato in terra, vedo il cielo terso, e cerco di riprendermi dallo stordimento.
La mia macchina ha il motore che fuma, e giace capovolta col muso rivolto nel senso opposto a quello che stavo percorrendo. E io sono vivo. E’ il secondo miracolo che mi accade oggi.
Mi tocco la testa, sanguino. Ma mi sembra di stare relativamente bene.
L’orrore mi bracca quando mi accorgo che le gambe si muovono a malapena. Non sono in grado di mettermi in piedi.
La luce del sole che vedo da sdraiato, bello alto nel cielo limpido, ad un tratto viene oscurata, e non sono più costretto a tenere gli occhi a fessura per la troppa luce.
Forse era meglio farlo. Un mostro che doveva essere una donna, alla quale manca completamente una guancia e la dentatura è visibile completamente da quel lato, si avvicina a me. La vedo al contrario. Probabilmente è in piedi vicino alla mia testa. Se immagino il suo volto completo, somiglia tantissimo ad Elisa.
Più avvicina la sua testa alla mia, più le somiglia.
Si, ora la vedo meglio. Le manca una parte di faccia, e ha la bocca che gronda sangue. Spalanca la bocca. Si avvicina al mio viso.
Capisco ancora meglio che non è Elisa, né una donna. E’ un altro di quei mostri.
Lo capisco e non lo capisco. Non senso l’urgenza di muovermi. Forse perché non riesco a muovermi, forse perché non mi va di continuare, non lo so. Capisco ciò che vedo ma non avverto paura.
La guardo, mentre ringhia e si abbassa, sempre più vicina a me.
Alla fine la forza di gridare la trovo.
Urlo di terrore. Urlo di pentimento. Urlo di rabbia.
Consumo gli ultimi secondi della mia vita sdraiato in terra. Urlando.
No, il mio conto in banca non mi salverà stavolta.
La sua bocca è vicina. E’ spalancata. Riesco a sentire nitido il fetore della morte uscire dalla sua bocca ormai. Continuo a urlare.
Fa gli ultimi centimetri. Ormai i suoi denti mi sfiorano il viso. Ci siamo.
Urlo. Urlo come un dannato. Come quello che sono.
Chiudo gli occhi.
Li riapro. Sto ancora urlando. E’ buio. Fisso quel volto ancora su di me.
“Luca, amore, calmati… calma…”
Il volto che fisso non è quello di un mostro che sta per sbranarmi. No.
Il volto che fisso al contrario è il più bello del mondo. E’ quello di Elisa.
Volto subito lo sguardo alla mia destra: Le 07:54.
“Cosa ti è successo amore… avevi degli incubi?” mi chiede mia moglie, carezzandomi.
“Si… ho avuto degli incubi… Scusami”.
“Tranquillizzati ora… va tutto bene… Vuoi che vada a prenderti un po’ d’acqua?” mi dice poi, con una dolcezza incommensurabile.
“Si tesoro… grazie…”
Colgo una vena di stupore misto a piacere sul volto più bello del mondo, al momento in cui pronuncio questa frase.
Torna col bicchiere in mano e me lo porge.
Lo prendo, mentre scrivo un messaggio al mio cellulare. Poi Elisa guarda la sveglia.
“Amore ma non è tardi? Non avevi un impegno importante stamattina?”
Termino di scrivere il messaggio:
“Oggi non potrò essere dei vostri, sono martoriato da una febbre tremenda. Spero di star meglio domani. Semmai vorrà prendere provvedimenti, lo comprendo. Ma spero potrà comprendere e che ciò non infici la sua considerazione nei miei confronti. Ma oggi davvero non posso.”. Cerco nella rubrica, seleziono “Boss”. Invio.
“Per la verità ne ho due di impegni importanti stamattina. Due impegni importantissimi…”, le rispondo poi. Il volto di Elisa si vela di rassegnazione.
“Ho il mio anniversario di matrimonio con la donna più splendida al mondo. E c’è il mio piccolo campione che deve giocare una finale” concludo, abbracciandola.

Fine

 

 

Simon REBEL


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