Racconti

Tutto laggiù trascoloriva, dal verde al castano o viceversa.

Era un prato irremeabile, un empito che mi accerchiava tra il profumo delle albicocche e il silenzio di un vento che mi lambiva con una voce soave.

Era l’aspettazione dell’infinito e dell’impossibile che ammiravo oltre una rete infrangibile.

Sembrava che la natura cambiasse, mentre ella era solo così… immota, attorno a noi, sempre in divenire,noi che crediamo che sia essa a cambiare. Ma è lì che ci sfiora e ci circomprende con la sua venustà e la sua possa.

La nuova stagione arrivava, quella di passaggio, l’autunno, quella che porta dal sole alle tenebre, al freddo della stufa, alla luce che diminuisce il vivere.

Eppure qualcosa mi abbagliava: erano occhi temuti e splendidi, che illuminavano a giorno la stanza: l’amica aveva una bocca estasiante e vorace, che mi suggeva l’anima e quel che lei voleva.Labbra che mi passavano nella mente come un’immagine fissa, inscindibile dall’ossessione a guisa di incubo viscerale, eppure assai gustoso. Il pericolo di colui che sogna, o semplicemente l’intuizione del risucchio in un’apoteosi fresca e ancora effimera.

Quella parte della città era caotica, rumorosa, frastornante, sembrava l’orrida America, un mondo post-apocalittico, una cagnara in cui latravano rumori e bestie di ogni tipo, fiere che sembravano uomini.

Io odiavo quel mondo, lo temevo, mi annoiava, mi sperdeva in una vita che avevo già conosciuto e a cui non avrei più voluto soggiacere. Era la dispersione, la disperazione, la dispiacenza, il caos: un luogo ormai fuori dal tempo. Troppa gente, troppe case, troppa vita senza senso, che fluiva velocemente verso la vecchiaia. Già, quella mostruosità che noi crediamo essere la porta della morte. E invece la morte era proprio in quel tipo di vita: lo sbandamento e il tormento che velocizzano la partenza, senza cogliere l’attimo impercettibile e silenzioso della lontananza da ogni confusione prestabilita e monotona. La discesa agli inferi con la frenesia del “devo”.

Io non dovevonulla. Io volevo essere… essere finché potevo restare un Essere.

Dunque, l’assioma era davvero unico e semplice: non avrei più voluto vivere in città. L’agglomerato che mi dava fastidio e faceva male.

Io ero un animale, e avrei voluto vivere e spegnermi da solo, in mezzo alla natura, sopportando o godendo solo del fruscio degli alberi, da cui avrei insufflato l’ultimo alito, l’ultimo bacio.

Eppure quel giorno mi persi lì, di nuovo in città, chissà in quale casa irriconoscibile di una periferia, o paese che fosse, ancora più recondito di quei boschi in cui ormai da decenni vivevo. Ciononostante, la sera era silente. Sentivo solo il rumore della pioggia che sbatteva sui vetri, quasi sfondandoli, come io stavo sfondando lei.

Le innumerevoli sensazioni, le fantasie dell’anima, il petto prospero e possente, ansimante e voluttuoso, la mente che si univa alla mia cogli occhi erranti e persi; iridi cangianti e fresche, vertigini che arraffano, scuotono, e poi riardono.

 Tutto si avvolgeva in una nube dall’aroma che trascendeva quel che diveniva – da sofferenza inespressa, ricercata con passione – ansia, desiderio struggente, uno scorrere di sangue e fluidi, che sorgevano dalle più nascoste e intense cavità, per poi espandersi in tutte le membra.

Vedevo il suo corpo che ondeggiava, avvinghiato stretto al mio che la svellevo; sentivo gli spasimi che contraevano quello che a lungo era rimasto sopito e voglioso di brame attutite nelle trasfigurazioni cerebrali, prendenti ora forma e movimento, allungandosi e riempiendosi di ogni sangue che confluiva nelle estremità e nelle interiorità, per tramutarsi in vibrazioni che contraevano a dismisura, veementi, infuocate, scorrendo come torrenti che tutto solcavano e bagnavano. Lei era venuta.

Il sole cadeva lento e piccino oltre il cielo; saliva il crepuscolo dalle colline, oscurando quel che sembrava terso. Lo guardavo seduto su una sedia a dondolo, dalla quale con molta fatica mi sarei rialzato. Era infatti sera, per la luce e pure per me, vecchio e indolenzito, come ogni macchina senziente, consumato nel corpo,sebbene l’anima ancora ascoltasse e respirasse intatta, pressoché integra e immutabile, uguale a quei primi mesi, quando cominciai ad averne percezione nell’infanzia lontana e sperduta, laggiù, in un posto che sarebbe sembrato qualsiasi, ma che sempre avrei voluto rivedere e rivivere.

L’anima, quel riscontro immateriale che mi sarei portato oltre quei monti, oltre la sera, oltre ogni nulla.

Erano quasi le venti, l’ora in cui da smisuratestagioni ero solito cenare, davanti alla televisione che mi teneva compagnia nella solitudine muta che mi accerchiava dalla vigna al giardino.

Attorno a me non abitava nessuno, come io avevo sempre desiderato. Solo con un cane, ma ormai non avevo più nemmeno lui, morto da chissà quanto tempo. Un bel cane.

Il brodo bolliva odoroso, e l’aria di casa ne olezzava. Un bicchiere di vino rosso per accompagnare quella delizia e la cena era già terminata.

Raggiunsi il divano sgualcito, logoro e polveroso, sul quale mi aspettava un libro di un autore francese, ma non avevo voglia di leggere; volevo invece respirare aria pura, vedere qualche luce sperduta nel firmamento, volevo assaporare lo scrosciare del fiume che da qualche parte si buttava in una cascata sotto il castello del paese. Un ruscello che un tempo raggiungevo per immergervi e rinfrescare le bottiglie di vino da tracannare cogli amici durante le grigliate estive.

Lungo il declivio avevo edificato le stalle, coi fagiani, le galline, persino qualche cinghiale, che adoravo allevare per poi degustare con appagamento. Vivevano bene loro e pure io, finché non me li mangiavo, tanto non se ne accorgevano. Ma un giorno un alligatore buttato da qualcuno nel fiume, cresciuto e divenuto una bestia enorme, era salito a divorarsi la roba mia.

Adesso, invece, dove sorgevano il pollaio e il porcile, il villico, assoldato da mio figlio, aveva passato la ruspa, ripulito da ogni legname, un colpo di trattore, e poi vi aveva seminato il grano.

Se avessi preso il binocolo avrei anche visto il lungo tavolo vicino al fiume e gli smisurati bambù che mi oscuravano la vista delle montagne dei colli di fronte. Ma di sera non avrei distinto niente, come in ogni oscurità.

Maledetta senilità.

La noia e la decrepitezza mi divoravano, in attesa che scendesse l’angelo della morte, che al postutto ormai desideravo, come mai avevo creduto.

Immobile, stanco, inutile, soprattutto logoro e solo, abbandonato tra i colli e la pianura, in mezzo al verde della natura, ogni tanto visitato dai due figli che attendevano la mia morte per vendersi la casa, ero stanco. Come un quadrupedemalato e senza padrone, relegato in una cella, grande o piccola che sia, in un posto che non ha vita, se non quella che si scorge dai guaiti di altre bestie che piangono. E io manco quelli sentivo.

Vivere non era più luce e fiamma; quel vivere come un effluvio, goduto e assaporato in ogni inquietudine e in tutte le delicatezze, nel brividìo dell’attimo che mi flagellava o mi estasiava quando giovane credevo di essere immortale, e non mi accorgevo che lampo dopo lampo imputridivo.

Nonostante tutte queste considerazioni, vorrei ancora svegliarmi domani, guardare quel sole che si alza da dietro le colline, esserne irradiato e scaldato.

Mai mai mai, avrei creduto di potermi spegnere lentamente, forse avrei preferito trasbordaresubito d’un colpo, senza pensarci, senza capire, ammesso che ci sia qualcosa da capire e qualcosa a cui credere.

Ma ormai la notte volge al crepuscolo mattutino. Anche questa volta sono sopravvissuto a me stesso.

Scorgo la luce che rischiara la valle, che mi ridesta l’anima.

E ripenso ancora a quanto sia incantevole questo affresco, un panorama straordinario, che ancora assaporo come facevo: con le sue iridi cangianti e fresche, vertigini che mi arraffavano, scuotevano, e tutto mi riardevano.

Joe Oberhausen-Valdez

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