Racconti

Sono nata un giorno ormai lontano della primavera del 1529 in Sicilia, sotto il regno di Carlo V d’Asburgo. Le mie origini erano nobili. Mio padre era il figlio cadetto di un duca Palermitano che, per volontà del fato ed una benevola concessione della dea bendata, aveva ereditato il titolo quando suo fratello maggiore era deceduto in seguito ad una caduta da cavallo. Mia madre era la terza e ricchissima figlia di un semplice baronetto che, però, aveva acquisito fortuna e nobiltà, nuova nobiltà, come avrebbe tenuto a precisare qualche vecchia matrona come la mia “adorabile” nonna paterna, grazie ad oculati investimenti nel Nuovo Mondo.

Quando nacqui fu data una grande festa e fu predetto per la piccola duchessa un futuro lungo e luminoso… nessuno poteva aspettarsi che ciò non si avverasse perché ero nata sotto le migliori prospettive.

 Ed invero gli auspici parevano essere dei migliori. Io ero la primogenita e, per nove lunghi anni, anche l’unica figlia di tale nobile casato. Non sperando più di avere altri eredi che tramandassero titolo e ricchezze, il mio nobil genitore aveva deciso di combinare per la sua pupilla un favorevolissimo matrimonio con il figlio primogenito, poco più giovane di me, di un antico principe caduto in disgrazia. Lui avrebbe portato in dote prestigio e proprietà terriere, io la ricchissima dote della mia mamma e la promessa di generare nuovi giovani virgulti a patto che, se il primo figlio fosse stato maschio, al nome della famiglia principesca sarebbe stato aggiunto quello del casato del mio amabile genitore. E così, dopo una calorosa stretta di mano e molto meno cordiali oltre che lunghi colloqui di natura economica, io mi ritrovai, a soli 8 anni, già promessa sposa e con un destino stabilito, firmato ed accordato.

Non posso dire di essermi mai amareggiata per questa sorte. Ero ricca, ero viziata, almeno finché non giunse, l’anno dopo, il mio “mai troppo amato” fratellino ed erede del casato, dopodiché lo fui proporzionalmente meno. Ma rimanevo la giovane rampolla promessa sposa di un principe, e nella mia vita non posso dire di aver mai sofferto di alcun tipo di privazione o mortificazione eccessiva. Nessuna tragedia aveva mai sfiorato la mia rosea esistenza.

A tredici anni conobbi il mio futuro sposo. Non avevo alcuna aspettativa su di lui. Sapevo che doveva diventare mio marito perché ero stata cresciuta con questa idea e per questo scopo, e lo accettavo come accettavo il fatto di mangiare tre pasti al giorno tutti i giorni. Il mio futuro marito non appariva disprezzabile nell’aspetto. Era un ragazzo alto, dinoccolato e mingherlino. Ma, a parte questo, null’altro da segnalare.

Non appena io compii sedici anni fu stabilita la data delle nozze e fu organizzato il ricevimento del fidanzamento; nonostante il giovanotto in questione avesse appena tredici anni non si poteva attendere ancora più a lungo, poiché la giovane sposa a breve sarebbe stata una promessa sposa oltre l’età media e, visto che ci si aspettava che mettesse al mondo quanto prima dei robusti e fortunati eredi, non si poteva lasciare che la giovane età trascorresse senza sfruttarne gli anni più fertili.

Il ventidue settembre dell’anno domini 1545 un grande evento fu indetto nella villa di campagna della famiglia del mio futuro sposo che si trovava in località Pedara, alle pendici del monte Etna.

Ero molto felice di poter visitare “a Muntagna”, come la definivano i paesani del luogo; ero di umore particolarmente brioso infatti, sia perché, devo ammettere, di essere stata piacevolmente colpita dall’aspetto migliorato e dalle maniere del mio giovane ma prestante fidanzato, che per l’occasione era stato “invitato” ad indossare la divisa da cadetto della scuola militare che stava frequentando. Presto, infatti, sarebbe diventato un ufficiale del regio esercito, per quanto l’attività militare vera a propria sarebbe rimasta solo sulla carta come ulteriore titolo onorifico dei suoi già lunghi e nobili fregi. Ma ero ancora più entusiasta che per onorare il nostro fidanzamento erano stati organizzati anche un picnic ed una passeggiata lungo le pendici dell’Etna. Per quanto fossi ricca e nobile, infatti, avevo avuto ben poche occasioni di viaggiare fino a quel momento, a causa della severa disciplina e del ferreo controllo paterni, e quella semplice gita di famiglia mi era parsa una prospettiva meravigliosa da aggiungere a tutte le felicità che la vita mi prospettava. Presto sarei diventata la sposa di un giovanotto nobile e affascinante, avrei acquisito il titolo di principessa, avrei finalmente lasciato la rigida e fredda casa paterna. La vita mi appariva perfetta, rosea e luminosa… chi poteva immaginare che tutto ciò sarebbe terminato quel giorno stesso.

Se solo avessi saputo che al mio giovane futuro sposo era stata garantita la vita solo grazie ad uno scambio con un’altra vita, sarei stata molto meno entusiasta sia di quel matrimonio che di quella gita. Quando aveva solo tre anni, infatti, il piccolo principe aveva rischiato di morire a causa di una febbre reumatica ed i genitori dopo gli unitili tentativi di vari medici, speziali, farmacisti, preti ed esorcisti cattolici si erano rivolti, come ultima risorsa, disperati e ad un passo dalla follia per il timore di perdere il loro unico erede, giunto dopo dieci anni di vari tentativi falliti, ad una guaritrice pagana che, in cambio della vita del bimbo reale aveva chiesto qualcosa di molto particolare. Un sacrificio: “Nu destinu niuru pi nu destinu d’oru, a Muntagna voli ‘na vita”, erano state le parole pronunciate dalla donna. Un destino nero per un destino dorato, la montagna vuole una vita…

Così quel giorno ci dirigemmo tutti, dopo pranzo, ai nostri calessini per cominciare la passeggiata. Io ero accompagnata dalla mia balia, che mi avrebbe seguita anche nella nuova vita come dama di compagnia e non riuscivo a star ferma per l’entusiasmo. Le carrozze si dirigevano in fila indiana verso i crateri, salendo metro dopo metro verso l’aria più fredda della cima del vulcano.

Improvvisamente il clima caldo settembrino ed il cielo azzurro lasciarono il passo ad un’aria più umida, più fredda e via via sempre meno tersa. Se fino a quel momento quell’inoltrato mese di settembre era parso più simile ad un giorno di metà agosto, in pochi attimi si trasformò quasi in un umido e nebbioso giorno di novembre. La nebbia arrivò a banchi sempre più fitti invadendo la strada e rallentando i cavalli che cominciarono a dar segni di nervosismo e a rallentare inesorabilmente il passo. I cavalli più nervosi erano quelli che trainavano la nostra vettura. Appiattivano le orecchie, battevano gli zoccoli per terra, e per quanto il conducente li spronasse si rifiutavano di fare anche solo pochi passi.         

La balia guardava nervosa attorno e cominciò a segnarsi la croce e a pregare a mezza bocca mentre, con aria frenetica, tentava di avvicinarmi a sé e di coprirmi le spalle con uno scialle. Io ridevo del suo nervosismo e ne canzonavo l’atteggiamento superstizioso ma lei mi lanciò uno sguardo nervoso e quasi balbettando per la paura disse “a Muntagna voli na vita!”, la montagna vuole una vita. Pur non condividendo il suo nervosismo né la sua superstizione quelle parole mi percorsero il corpo e mi raggelarono l’anima. Il sorriso mi si pietrificò sul viso. Un sommesso brontolio sembrò innalzarsi dal terreno e tutti i passeggeri delle vetture si immobilizzarono al fremito del suolo.

Mio padre suggerì che forse era il caso di sospendere la gita ma il principe afferrata la mano di sua moglie incitò i vetturini a proseguire minimizzando i timori del mio genitore. Mia madre si voltò a guardare nella mia direzione facendo un leggero cenno del capo alla mia balia che, a quel segnale, mi afferrò bruscamente stringendomi a sé.

Il cocchiere diede un violento schiocco di frusta proprio in quel momento ed i cavalli del nostro calesse, già impauriti e nervosi, si impennarono e successivamente si diedero ad una fuga impazzita trascinandosi dietro il loro carico. Fummo inghiottiti dalla nebbia e i passeggeri delle altre vetture ci persero di vista. In quel preciso istante un forte terremoto bloccò il loro avanzamento e l’ultima cosa che videro di me i miei cari fu il mio cappellino di paglia che atterrò lentamente tra le mani tremanti di mio padre.

Il calesse con i cavalli ed i corpi del vetturino e della balia furono trovati alcuni giorni dopo in un dirupo. Di me non fu trovata alcuna traccia. Il terremoto e la successiva colata lavica avevano ritardato le ricerche e la lava aveva coperto tutto distruggendo ed incendiando ogni traccia della giovane duchessa. Il cui luminoso avvenire fu cancellato quello stesso giorno mentre quello del suo promesso sposo, spiccava il volo…    

Una donna dai lunghi capelli neri, abbigliata a lutto, passò qualche giorno dopo la tragedia da Pedara. I paesani che assisterono al suo lugubre passaggio testimoniarono di averle sentito mormorare “Nu destinu niuru pi nu destinu d’oru, a Muntagna voli ‘na vita”.       

È il 22 settembre 2019. Un gruppo di amici si riunisce a Pedara nella villa atavica di un amico in comune per una giornata all’insegna dell’amicizia, del vino e del buon cibo. La giornata è stranamente fredda e piovosa, nonostante in città si segnalino picchi di trenta gradi. A fine pranzo il padrone di casa suggerisce di salire su ai crateri per ammirare il panorama che si vede da “a Muntagna” e smaltire un po’ di calorie. Entusiasti, un gruppo di loro si pigia in un unico fuoristrada e si avvia alla scalata delle pendici del vulcano siculo. Ridono e scherzano lungo il percorso, sudano perché sono in sei in un’unica auto ed i vetri sono appannati dei loro respiri. Il guidatore racconta aneddoti e barzellette intrattenendo i suoi passeggeri.

Mentre l’auto percorre metro su metro inerpicandosi per la salita la visuale della strada comincia a cambiare. L’aria diventa sempre più fredda e coltri di nebbia risalgono dagli strapiombi ad invadere la carreggiata. Luca e Arianna, i due amici del nord, scherzano, dicono di sentirsi quasi a casa con quel clima umido e nebbioso. Caterina, la pugliese, invece è nervosa e ad ogni curva un po’ più difficile stringe forte il sedile. L’amico alla guida, Pietro, cerca di sdrammatizzare raccontando ancora altre barzellette ma anche gli amici di Pedara, Giovanni e Gabriella sono stupiti dello strano cambiamento climatico. L’auto s’immerge ancora di più nella nebbia ed affronta l’ultima curva prima di giungere a destinazione.

Ad un tratto un’ombra sembra attraversare la carreggiata e il guidatore è costretto ad una brusca frenata e a sterzare violentemente. L’auto sbanda e dopo un testacoda si ferma ad un centimetro dal guardrail… Caterina urla, ma non per la manovra improvvisa ma perché nello specchietto retrovisore ha colto uno sguardo. Si gira di scatto per guardare nel lunotto posteriore ma non vede nulla. Non c’è nessuno, solo nebbia. Gli amici si burlano di lei e tirando un sospiro di sollievo escono tutti dall’auto.

L’aria è fredda, il vento intenso ma la nebbia sembra essersi diradata. Aldilà delle nubi il cielo è azzurro e, infreddoliti, si dirigono subito ai crateri per esplorarne l’interno. Corrono tutti per scaldarsi, l’abbigliamento è estivo, non adatto ad un clima che si è tramutato all’improvviso diventando quasi invernale. Caterina è qualche passo indietro, grida agli altri di rallentare perché non ha le scarpe adatta ad affrontare il terreno sconnesso. Gli altri la precedono, si avviano dentro il cratere, raccogliendo rocce laviche come souvenir…

““Nu destinu niuru pi nu destinu d’oru, a Muntagna voli ‘na vita”.  Caterina si blocca, sente il vento sussurrare queste parole ed il suo cuore perde un battito…

Sono nata nella primavera del 1529, il mio era un destino di amore, fortuna e vita prospera. Ero nobile di nascita e di cuore e credevo nella vita, nell’amore e nel futuro.

Tutto ciò mi è stato strappato, portato via per essere regalato ad un altro e da allora la mia anima è furente. Vago per le pendici del vulcano facendo esplodere la mia rabbia, di tanto in tanto, e provocando terremoti e colate laviche.

Io sono l’Etna, io sono il suo nucleo immortale… Io sono A MUNTAGNA. Quasi cinquecento anni fa la mia anima ha preso il posto della sua padrona precedente, scambiando il suo posto col mio. Quel giorno il mio corpo è morto ma la mia essenza, arrabbiata ed in cerca di vendetta, cova il suo dolore mescolandolo al magma incandescente… sto aspettando, sto aspettando che giunga il mio momento, il mio turno, la mia vendetta. Sto attendendo che giunga colei che prenderà il mio posto e mi libererà finalmente dal mio dolore… un destino nero, per un destino dorato… oggi ho trovato la mia nuova custode!

Negli occhi della ragazza ho letto la sua storia ed ho trovato quel che cercavo, il discendente del mio vecchio promesso sposo… la mia vendetta sarà spietata.

Caterina è tornata a casa dalla gita. Con gli amici ha ridisceso la strada che è sembrata meno impervia che in salita. La pioggia ha smesso di cadere, l’aria sembra più calda. Ma la ragazza non è più la stessa, ha portato con sé l’anima della “Muntagna”.

Quella notte stessa, quando suo marito l’abbraccia, nel sonno sussurra “Nu destinu niuru pi nu destinu d’oru, a Muntagna voli ‘na vita” 

Caterina Schiraldi

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