Racconti

Da sempre sono stato attratto da tutto ciò che riluce e brilla, ammalia e poi attrae, sconvolge e quindi folgora.

Che i suoi occhi fossero un effluvio di sapori, conseguenti passioni, una vampa di brace che incenerisce, me ne accorsi un giorno per caso, in un tempo che non ha riscontro oggettivo, se non quello di una mente che ricorda e affanna, quasi sperdendosi in pensieri che sovrastano la possibilità e la speranza.

La sua voce era un incantamento, un’eco che strazia o rasserena, penetra nei capillari, e ridesta sangue e battiti, che poi tamburellano e risuonano dentro lo sterno come la bocca di un cannone. Era proprio superba e trascendentale.

Lo sguardo celava sensualità e delizie che avrei voluto assaporare con ingordigia, come un cinghiale che sbava, ché già mi sconvolgeva da lontano e dall’impossibile, con un moto perpetuo e indefinito.

E sì, quel viso mi spaccava, e pure tutto il resto, infondendomi un desiderio prisco e assai primordiale, un fiume che mi avvoltolasse e trascinasse con sé tra rocce e pendii inusitati, in cui cascare, affogando in un appagamento corporeo e metafisico.Oppure mi avrebbe strascicato a valle, verso lidi pacati, lenti e temperati.

Cosa avvenne in realtà?!

Osservavo il suo ritratto, quello di lei, seduto sul divano in pelle di un colore chiaro.

Quei begli occhi mi guardavano fissi dalla balaustra superiore del camino, di fianco ai mattoni rossi refrattari; sembrava statica, da vero quadro.

Le iridi erano plastiche, estatiche, ferme e rigide, sporgenti come dune, rilievi che risaltano e poi confondono in un luogo arido, davvero come miraggio e perdizione.

Cosa esprimeva l’effigie? Chi o cosa ritraeva?

Chiaramente non era un’incudine e nemmeno un iceberg, ma il volto di una donna, che appariva giovane e forse bella, seguendo almeno i miei canoni soggettivi. Per un altro sarebbe potuta apparire persino mediocre, ciononostante per me era attraente, accattivante,fuorviante. Fuoriusciva dalla staticità e si muoveva, veniva a me, senza che io facessi nulla per avvicinarmi a “lei”, poiché era un viso che afferrava, trasfigurandosi o materializzandosi oltre la dimensione artificiale. Il pittore dipingeva sempre fotogrammi astrusi e sfumati.

La figura liberava uno sguardo che irradiava, era un’espressione che fissava qualcosa, un punto di fronte a lei che spesso cambiava simultaneamente, senza la possibilità di rimanere statico; si perdeva nel vuoto, vagava, girovagava, roteando.

Seguirne i movimenti era facilissimo, poiché io mi concentravo a guardare direttamente l’istante che divideva le due iridi, senza focalizzare altro, se non con la parte più periferica dei miei occhi che la puntavano.

Ormai incantato, rapito e stregato mi accorsi che non era un quadro. L’allucinazione precedente o posteriore mi palesarono una donna che aveva le apparenze somatiche tipiche di una straniera, o di una strana, perché a dire il vero si presentava bizzarra e stravagante.

Da cosa lo arguivo?

Dall’impalpabilità. Era viva ma incorporea, avvenente eppure intangibile, dritta di fronte al mio mento, e nonostante ciò assai distante. Il distacco vaporoso di uno spirito.

La visione mi estasiava, mi sbalordiva, baluginando tra realtà e fantasia, frantumando quel che di razionale ancora potevo frapporre come scudo ad uno smarrimento trasognato che diveniva incessantemente più evidente.

Ero in uno stato confusionale, muto e ammaliato.

Poi iniziò a parlare, e allora compresi che stavo solo delirando.

Secondo i pochi frammenti, ancora memorizzati, delle premesse della sua storia, posso raccontare che percepii una specie di offuscamento: era uscita da un libro di racconti marinareschi. Era un mostro marino, forse una sirena, una divinità subacquea. In entrambi i casi, in tutti i casi, un essere bellissimo e spaventoso, che alletta abbranca macina divora, e digerisce.

Ecco, mi sentivo attrarre e assimilare. Ero in balia della vaghezza del suo volto, che guizzava verso il mio.

Che cosa fa più paura di un mostro?! Di certo una donna. E lei era mostro, ed era donna.

Sentivo già le unghie, lunghe inafferrabili slanciate e artiglianti, affondarsi nelle spalle che non gemevano, anzi, poi trascinarmi verso le scale e quindi abbasso, sollevato da terra e sospeso da braccia sottili, leggiadre ma portentose e potenti.

Laggiù vi era un’oscurità permanente, lugubre, silenziosa e sinistra, placida e quieta, il luogo adatto per un crimine o per un diletto. Il dilemma imprevisto. Se avesse voluto divorarmi, l’avrebbe già fatto accanto al camino, alla luce, come ogni buon predatore che consuma il pasto nell’immediato.

Ma la sua bellezza, era infatti una Biddrazza, mi evocava qualcosa d’altro ed io non vedevo l’ora di assaporarla, che fosse mostro, fantasia oppure un sogno.

Poggiò il mio corpo ancora vivente e intatto sul divano, sollevò una piastrella antistante la stufa in ghisa settecentesca, lì piazzata da centinaia di anni, quando la casa era una torre di avvistamento, e ne tirò fuori un libro illustrato, vecchio, impolverato, malandato, forse funesto.

La Biddrazza voleva farmi conoscere quel che era.

Seduti sul divano cominciò a sfogliare le pagine, ma la carta si sfaldava e diveniva cenere, pagina dopo pagina. I suoi occhi si umettarono e quindi pianse. E se piangeva era viva, ed era pure vera.

A quel punto iniziò a discorrere più velocemente.

Ero trafitto da quelle pupille che mi seducevano, l’aspetto magico e fatale, il corpo ammaliante e ardente. Avrei voluto divorarla io.

La sua voce mi deliziava, e mi dilettò per ore, o forse furono giorni, poiché non ebbi il tempo di discernere tra le parole e la bellezza, tra l’essenza o l’apparenza. Era un’oggettività, caratteristica assoluta e non di certo arbitraria, quindi non interpretabile, ossia sfuggente ad ogni riduzione relativa ed unilaterale. Ciò che è, per sostanza e nutrimento, non muta. Non muta a discrezione di svariate teste.

Questo io pensavo, eppure immaginavo altro, sperando che accadesse come in effetti poi avvenne, quando smise di esporre. Qualcosa mi entrò fin nelle viscere, fondendosi in me attraverso la pelle, la carne, gli occhi negli occhi; qualcosa che si plasmava dentro, si fondeva, creava e vi restava. Il suo Essere era penetrato in me, non lo sentivo, ma lo intuivo, lo intravvedevo, e lo vivevo.

Ero quasi in estasi, quando la zia scese nella stanza.

Mi rimproverò. Non avevo messo il numero 58 nella tenda alla porta della terrazza.

Secondo la testa della zia, se avessi scritto il numero 58 su un foglio di carta, attaccandolo alla tenda, le mosche non sarebbero entrate. E quindi sciamarono dentro.

Era un’idiozia, lo sapevo ma lei ci credeva.Il donnone non si scompose quando mi vide sul divano a riposare nudo, perché ero solo. Per il mondo circostante ero davvero solo.

La mia fantasia era personale, non oggettiva. Il mondo apparente seguiva altre regole, sebbene apparenza esteriore corporea e mondo apparente visibile e percepibile fossero in contrapposizione, o in dissoluzione, e in ogni caso visioni incomprensibili e non comunicabili.

Stavo vaneggiando.

Non vi era alcun portento marino, neanche seduttrici, spiriti leggendari, o divinità peripatetiche; solo demenza, farneticazione, follia, ebbrezza di una mente distesa sull’ottomana, che smaniava e impazziva precocemente. La sua anima era secca, asciutta come un legno. Arida come ghisa, arsione di un salice piangente ormai sfogliato.

Eppure sentivo quel mostro fascinoso dentro di me, e soprattutto sopra di me. Si muoveva.

Quel che successe poi è inverosimile, di sicuro mi entusiasmò, travalicando ogni lucidità, mi esplose nel torace e nell’addome.

Guardavo il mare, appoggiato coi gomiti sul muro semi-diroccato che saliva dalla renella. Pensieri turbinosi s’infrangevano sugli scogli, s’involavano, e fluttuavano dolenti, ripensavano all’effigie del quadro.

Ella era davvero una sirena.

Joe Oberhausen-Valdez

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