RaccontiRacconti brevi

Era il giorno di Santo Stefano.

Dopo esser tornato dal centro della città nel mio piccolo paesino, dove tutti sanno tutto di tutti, decisi di trascorrere un po’ di tempo con la mia ragazza di allora.

“Voglio aprire una piccola parentesi su quanto sia insensato e indiscreto l’amore adolescenziale, che sempre riconduce al sesso e al non voler apparire diversi e soli da quella stupida massa di coetanei”.

Tornando al racconto…

Passeggiammo per la piazza e i suoi dintorni dove era palpabile quella falsa benevolenza che si instaura tra le persone nel periodo natalizio.

Salutammo un paio di amici che a ‘sto giro pensavano mi fossi davvero sistemato.

Illusi.

Giunto il buio, dopo un tramonto con un fondo di rosa, che tanto piaceva alla mia lei, quella che forse ho amato, ma probabilmente no, ci dirigemmo in una pianura prima del bosco proprio dietro le mura della città.

Chiedere cosa fanno due adolescenti in una foresta, in un buio fitto fitto, e nel tardo pomeriggio invernale, è ben più di una domanda retorica. È una cazzata.

Mi limiterò a dire che non sentimmo freddo.

Mentre mi baciava il collo riempiendomi di frasi ansimanti, che sembravano quasi ripetute a memoria, ripensai alle tante altre prima di lei.

Non giocavo con il cuore di queste ragazze, per me era un semplice passatempo, un hobby come chi cucina o fa giardinaggio per passione.

Definire le ragazze come svago probabilmente è brutto da dire e da sentire, ma per un ragazzo, che razionalmente giudica l’amore un’emozione negativa e senza alcun fine, è così. È così: un hobby.

Ora toccava a lei cascare nella trappola, finire tra le mie grinfie, distorta dalle mie parole e dai miei sguardi che tutte influenzavano, che ogni contadina principessa faceva sentire, e che facevano credere alla ragazza in questione di avere davanti il ragazzo dolce, premuroso e sensibile.

Ero la regina cattiva di Biancaneve travestita da principe azzurro.

Iniziai a baciarla sul collo calando lentamente le labbra verso il seno, e con la mano che scendeva verso i suoi jeans firmati Levi’s iniziai a percepire quel calore che trasmetteva il suo corpo, unico lume, simile a fuoco, in quel buio che ormai era quasi totale.

Presa dal momento anche lei si lasciò andare e mi sbottonò i jeans.

Diventammo quasi un elemento unico, nell’oscurità non si distinguevano i nostri corpi, e per la prima volta mi sembrava diverso dal solito sesso.

Eravamo uniti, mi sentivo libero, come se lei mi capisse.

Mi sbagliavo.

Quel sentimento era frutto della mia immaginazione, una bella bugia ma questa, questa è un’altra storia.

A un certo punto si girò dicendomi di aver sentito un rumore.

Quando si voltò verso di me era sbiancata e singhiozzando mi disse che c’era “qualcosa” a una quindicina di metri da noi.

Mi girai per guardare il punto indicatomi da lei e intravidi un’ombra larga più dell’albero che aveva un diametro di circa due metri.

Rimasi immobile per qualche secondo confuso e incredulo di ciò che c’era davanti a noi.

Ragionai a menta fredda e pensai potesse essere mio fratello, o un mio amico, che volesse spaventarci.

‘’Christian, Christian sei tu?!’’ Nessuna risposta.

‘”Tommy, sei lì? Esci dai” Nessuna risposta.

E adesso che cazzo faccio pensai.

Mi agitai ripensando a tutti quei film e quei racconti horror che mio zio Joe mi faceva vedere e raccontava nelle estati in cui passavo le vacanze da lui.

Guardai lei esponendole le mie rassicuranti teorie: “se quello è un demone, un mostro, siamo fottuti, o magari è un assassino che ci vuole ammazzare e io devo morire per salvare te”.

Ridemmo per paura, eravamo preoccupati ma uniti da quella adrenalina e dal menefreghismo verso tutto il mondo.

Eravamo simili anzi no, complementari.

Mi feci coraggio. Gli uomini sin dall’inizio dei tempi hanno sempre compiuto gesti eroicamente stupidi e a tratti ridicoli per risultare valorosi agli occhi delle donne.

Mi avvicinai con la torcia del telefono accesa, intento a capire cosa o chi fosse.

‘”Scusa chi sei? Ohhh, chi sei?’”. Manco il tempo di dirlo e l’ombra iniziò a correre verso il bosco; lì era ancora più buio e fu impossibile distinguerne la reale forma.

Iniziammo a percepire rumori forse inesistenti e perfino il minimo fruscio di una foglia significò pericolo e preoccupazione.

Avevamo perso di vista l’ombra e quel buio che prima ci aveva tanto fatto sentire a nostro agio era divenuto improvvisamente un elemento spaventoso, non più così rassicurante.

La guardai senza pronunciare parola, sperando di trovare nei suoi occhi risposte ai miei complessi mentali.

Quei dannati occhi color autunno mi parlarono, era in ansia e in preda al panico trasmessi sotto forma di un finto sorriso e di un tremolio che l’accompagnava lungo tutto il corpo.

La presi per mano e iniziammo a scendere lentamente, e vista la strada provammo quella sensazione che scaturisce in un naufrago quando vede terra.

A pochi metri dalla panchina sulla via maestra sentii un rumore e mi voltai a guardare. Dal bosco a passi di due metri scendeva verso il parcheggio lungo la strada una figura non ben distinta.

Mi fermai con la mia ragazza facendola sedere sulla panchina.

Riuscii a distinguere la figura che, uscendo dal parcheggio, si diresse sul marciapiede opposto.

Era un uomo adulto sulla quarantina poco più o poco meno, uno qualsiasi dai capelli scuri, occhi marroni, dal fisico normale e non troppo alto.

Si fermò dall’altro lato della strada in corrispondenza della panchina dove eravamo seduti, ci fissò con uno sguardo sadico quasi a dirci:

“Questa volta vi è andata bene ragazzi!”.

Eravamo pietrificati, quell’uomo che aveva rubato la nostra intimità ripassò altre tre volte mentre faceva su e giù per il marciapiede.

Alla terza inclinò leggermente la testa sfoggiando un sorriso da psicopatico, terrificante, uno di quei ghigni che ti accompagna negli incubi per mesi. Le labbra posizionate a U che raggiungevano le guance e le sopracciglia inarcate per dare spazio a due occhi totalmente spalancati.

Aveva una faccia che avrebbe fatto gelare il sangue a chiunque, da Edgar Allan Poe a Stephen King passando anche per Dario Argento.

Scomparve poi quasi per magia tra le macchine che passavano.

Andammo via, legati da qualcosa che per sempre rimarrà nei nostri ricordi.

Tornai a casa turbato senza parlare con nessuno fino a quando mia mamma scorrendo tra le notizie del giornale online locale lesse una notizia particolare:

“Maniaco sessuale fuggito dalla casa di cura, ancora vane le ricerche”.

Mi si gelò il sangue e un brivido mi attraversò la schiena.

Ero incredulo.

Chiamai la mia ragazza che, appresa la notizia, scoppiò a piangere.

Le dissi cercando di rassicurarla: “Dai tranquilla, da domani usciamo solamente il pomeriggio”.

Rise.

Per fortuna.

Le diedi la buonanotte e terminai la telefonata.

Prima di addormentarmi mille pensieri mi balenarono per la testa, ma solo uno mi restò impresso, una frase che qualche anno prima mi disse mio zio, quando mi diceva che nel giardino c’erano i lupi mannari, morti-viventi e altri mostri, di cui io avevo terrore, nascosti nell’ombra.

“Non avere paura dei morti, non possono farti niente. Giacciono in eterno nelle loro tombe. Abbi paura dei vivi, loro sì che sono pericolosi”.

Giuseppe Musumeci

Tratto da una storia vera.