Racconti

Non ricordo esattamente se l’avessi già vista, probabilmente sì, di sfuggita, da qualche parte, ma quel giorno, in un’estate incandescente, notai i capelli rubini di una donna, una chioma che  stagliava e determinava un viso intriso di malinconia e possa, sicurezza e determinazione, una nuova conoscenza che, dall’aspetto attraente, sembrava una divinità guerriera nordica, forse per la curata estetica, forse per la staticità dello sguardo che scandagliava e penetrava drasticamente nelle vene e nell’anima, ammesso che uno come me l’avesse. Gli occhi apparivano insondabili, come quando si fissa un felino che scruta per studiare i movimenti di fuga della preda. Erano occhi silvani, boschivi, iridescenti, che nascondevano un sorriso dissimulato, che raramente appariva, se non come esteriorità di circostanza, oppure in occasioni di sollievo. Oppure era un cachinno. Questo compresi. Avrebbe sorriso solo nella quiete.

Quest’epoca sembrava sempre la stessa, una copia delle precedenti. Eppure non fu così.
Quando la rividi, dopo vari mesi, o giorni, che potevano apparire lunghi più di un anno, ella era palesemente diversa, apparendo più giovane di quel che in realtà non fosse. Forse era in una nuova palingenesi. Eppure lo sguardo si proiettava malinconico, come prima, ma ora era chiaro e sicuro, fisso e immobile; aveva le sembianze di una divinità scolpita in un posto remoto, una divinità che impietrisce. Occhi saldi e diamantini, le iridi di una Sfinge, in un viso che riluceva di novilunio, la cui pelle rosea, viva, suadente, spandeva un riflesso che smarriva e confondeva. Aveva la semplicità silente di un abbraccio che avvinghia, abbranca, attrae a sé. Il sorriso celato e la sua espressione di ghisa presagivano quel che in lei era nell’indole: era ferina. Sapevo che da quegli artigli che prolungavano le sue mani, sarebbe scaturita un’estasi che in me sarebbe poi deflagrata, momentaneamente riposta nei desideri che mal nascondevo, soprattutto con lei, giacché sapevo che, dietro la chiostra illusoriamente muraria, dietro la lentezza del suo manifestarsi, dietro il distacco apparente, ella era pura ebrietudine. ‘Sta stronza.

Cosa mi suscitò quella sera, quando la vidi per la prima volta allora?!
In quel momento non avrei saputo descrivere quel che mi palesò guardandola imbambolato e strabiliato; quel che mi trasmise con una semplice occhiata, e poi sentendo l’ardire della sua voce, che era semplice e lacerante ardore, un diluvio di suoni che mi inchiodarono nel guardarla.
Mi piacque subito. Ma proprio subito.
Possedeva un’armonia magica, che sussurrava tacita un brulichio di vocaboli, come una mente che si arricchisce di sorrisi nel fievole barbaglio di un sole, che non è sempre luce. Eppure tutto in lei fioriva, tutto era sapore in quel balenio, nei suoi occhi, nel volto, nei lunghi capelli che si slanciavano sulle spalle.
Era una stagione nuova, perché lei echeggiava primavera.
Quasi una poesia. Perché? Perché radunare dei vocaboli per descriverla (ogni parola è un pensiero) vuol dire crearsi la possibilità di divallare da una radura che rasenta l’oppressione del già noto, dello stagno che suppura di untume, le cui zaffate ormai mugolano, tediano, soffocano in querimonie incommutabili e aduste. Arse appunto e ormai noiose.
E lei invece era un’anima nuova, differente dalla mediocrità, era respiro, corsa, sorriso; ella era ancestrale, speranza: era un ritorno alla vita, al sospiro, alla delicatezza, una somma di brividi, la delicatezza che sprigiona voluttà. Il punto di non ritorno. E tutto ciò io già sapevo.

Quel carattere sembrava quasi asperrimo, eppure quando la vedevo, quando parlavamo, sembrava gioiosa, persino giocosa, quasi puerile, seppure a prima vista uno si scantava. Lo intuivo chiaramente, e poi compresi che amava la lentezza, il tempo che si ferma e si assapora, il gusto, che non è un’illusione che sfuma nel vortice della velocità che si perde, ossia l’eleganza che diviene raffinatezza, che muta in un crescendo di piccole forme sempre più dense e tangibili. L’attimo inteso come intensità ineluttabile e infinita. Mi sarei dovuto guadagnare a fatica ogni atomo di terreno scavato in una roccia durissima. La Grande Muraglia.
Ella era un labirinto, come un giorno le dissi, un dedalo senza uscita, che voleva dire semplicemente: “entrando in te ci si perde, perché ci si vuole restare”. Ecco perché non la credetti un bersaglio, uno scopo. Ma una perdizione.
Valkiria non si dischiudeva facilmente, probabilmente poiché qualcosa di doloroso, affliggente, disillusioni ripetute l’avevano pietrificata, resa inscalfibile, benché inferii – come le scrissi – che all’apparenza era lignea ma nell’essenza invisibile era ignea.
Le anime complicate sono sempre alla mia ricerca, o forse sono io che ne abbisogno e le vado a esplorare. Sminchiandomi come sempre, ma questa volta speravo di no. Anime che sono funeste o gioiose, sempre velate dal delirio dell’indiscernibile, ritrose a perdersi in incanti spasmodici, che danno dolore, un succo amaro che è pur sempre il primo passo che porta alla passione, estrema e unica verità tangibile.
Sempre una tragedia per la ragione, un vortice assoluto che sbaraglia, sbatte, sbriciola la fermezza che uno tenta di creare per non cadere in quell’uragano o in quella delizia. Lei aveva la faccia sperta.
Era l’attimo della follia, una suggestione di frammenti mal rievocati in un tempo illusorio, che si sostituisce al precedente, quasi fosse indelebile, quasi fosse persino reale, migliore, il divenire di una scelta, o del caso, che poi chiamiamo destino.

Cosa capii nei primi tempi di lei?!
Non capii niente.

La mia fantasticaggine trasvolava realtà, ipotesi, perdendosi in utopie e illusioni, che impossibili non erano, e proprio per questi dilemmi, peregrinazioni fittizie, eventi sperati, io amavo smarrirmi in lei, nella sua idealizzazione, ansie che mi ottenebravano con allettamenti straordinari. Ecco, avevo iniziato a sognare nuovamente, e non era un accadimento buono per me.
Spesso queste emozioni sembrano allontanarsi o nascere nel nulla, sfumate come sempre, come un minuto che non cogliamo se non nell’attimo in cui viene rievocato da una sensazione, da un oggetto, dalla focalizzazione estemporanea e casuale; come quelle mani che strinsi esterrefatto, ansioso, avido, assetato, calori intensi ricordati tutte le volte che adopero il sapone per i piatti, perché lei mi diceva spesso “ma tu non usi saponi e detergenti!”.
Il tatto di quelle dita rivissute ancor oggi alla vista di un sapone qualsiasi, ritorna presente, tangibile, come se ieri fosse ora. E stringere le sue mani era un’esaltazione, un desiderio ricercato, un’ebbrezza che potrei solo descrivere come il blandire di una carezza che sfiora il viso. Un brividìo che non mi spiegava come lei fosse, che non dipanavano né la sua mente né la sua anima.
E come avrei potuto capirla, era così complicata. Talmente complicata da essere autentica.
Una sera, nel silenzio di una luna che non illuminava forte, in riva a un mare placido e sconfinato, al riverbero di pochi lampioni mal dislocati, passeggiammo tra le ombre prodotte da soffuse luci intermittenti, tra filari di alberi arsi di giorno da un caldo sole sublime e inusitato. Valkiria aveva una voce sottile, calda come un violino che riecheggia da qualche parte, che si ode ma non si vede. Ogni tanto si girava a sinistra per guardarmi, sorridendo, muovendo la testa tra me che la guardavo e il mare che ci osservava, liberando ogni tanto i suoi flutti, con tremolii e strombettii a testimonianza della sua presenza immane.
Quando ci fermammo, affinché io mi accendessi la pipa, m’avvidi che nel suo viso vi ferveva la grazia della serenità, non studiata, voluta o ricercata, ma semplicemente raffinatezza senza elaborazioni di circostanza. Aveva gli occhi vispi e belli, vergolati e igniti, occhi malinconici, occhi limpidi leali veri, le labbra rosee e soffuse, le gote evocazione di carezze. E laggiù, le sue braccia mi avvinghiarono e le sue labbra mi baciarono.
Non era lì con me accidentalmente. Sebbene ancora non avessi capito, e giammai lo compresi veramente, che o se fosse una divinità guerriera, che mi avrebbe accompagnato chissà dove, di certo non in questo mondo, dacché posso ancora raccontarlo.
La notte ha lo scopo di rasserenare gli animi, sopire i deliri, addormentare le vicissitudini. È il buio che placa, chiude le tribolazioni in uno scompartimento chiamato sollievo; fa evaporare i fumi della ripetitività, che sia pura armonia o logorio. La macinazione per un attimo si arresta, ristora il corpo e stacca la mente.
Spesso la immaginavo sul suo letto di fronte all’armadio a fissare un punto sperduto, a meditare assisa, sulla sedia intenta a leggere al tavolinetto di legno di ciliegio posto in quel balcone adornato con cura, precisione, tutto a regola d’arte, dalle piante, alle tende che scendevano fino a coprire la sua realtà dalla vista di altra gente. Lei toglieva la tovaglietta dal tavolo, vi poggiava i gomiti e leggeva.
Quello era il suo infinito, la sua tana, era la proiezione incontaminata della sua personalità, insondabile e impenetrabile. Per studiarla sarebbe bastato dare un’occhiata all’appartamento, arredato e sistemato con cura, diligenza e passione. Niente vi era lasciato al caso. Se l’avessi visitato, mi sarei accorto che ella aveva plasmato il suo mondo come riflesso di sé. Tutto preciso, tutto tranne un cesso scoperchiato.
Al di là della perfezione, delle rielaborazioni che velano un mondo il cui sostrato è la solitudine, l’apice del ristoro come prefabbricato del romitaggio, di un’essenza che tendeva a proteggersi, io sentivo che in lei il cuore era un moto che anelava a divenire perpetuo, bramava accelerare e finalmente vivere la sua noradrenalina, fuga dalla ripetitività dell’ordinario, del già conosciuto che consuma e logora.

La cucina era apparentemente buia, quasi nascosta e privata della solarità a causa di un colore delle pareti che non la rallegravano; o forse era solo sera, e le luci soffuse la rendevano semplicemente silente e monocroma.
Lei non sapeva cucinare – me lo disse subito –, non sapeva far niente, se non telefonare, lavare piatti e bicchieri, vestirsi (almeno secondo la sua testa… era fissata con l’aspetto e con gli abbinamenti di indumenti) quindi avrei dovuto cercare una padella per buttarci dentro due hamburger, o avremmo dovuto optare per una pizza mediocre commissionata a un qualsiasi locale da asporto del circondario, ma a quel punto, dopo tutte le titubanze, i tentennamenti, mi scassai la minchia e le dissi: “metti le patate surgelate nella friggitrice ad aria, che io friggo questa carne e non se ne parla più”.
Lei sorrise col suo mezzo ghigno, mal abbozzato e grottesco, che denotava un’enorme fatica, per contenersi e non gridarmi un qualche improperio. Valkiria a volte mi inoculava ansia, a volte agitazione, mai fastidio, finto gioco o forse no; mi provocava con quelle sue solite frasi che mi ripeteva a intervalli più o meno distaccati nelle nostre conversazioni, e io non capivo se fossero dettate da provocazioni, da lentezza, dalla sua grazia arcigna che mi seduceva già solo a guardarla in quegli occhi mefistofelici e diabolici. Tuttavia, al di là di tutte le cattiverie che potrei elaborare, mi iniettava desideri straordinari, di quelli che uno vorrebbe non avessero mai fine. Aveva un bel corpo, sebbene, se fosse stata ignuda, si sarebbe evidenziata la sua trippa; sebbene, se non fosse stata truccata si sarebbe notata la pelle raggrinzita e vintage del suo contorno occhi; sebbene, se non fossi stato abbagliato da quelle cosce marmoree, slanciate, sormontate ad arte da una minigonna, mi sarei spaventato per la sua presenza e per gli occhi vitrei di quello spirito fosco e barbaro, che mi esaminava come se fosse la morte.
Senza il suo aspetto incerto e indefinito, mi avrebbe ammaliato di meno?!
Perché mi appariva diversa da come l’avevo immaginata?!
Forse la sua vita, oggi, era solo l’ombra scolorita di un passato perso, riflesso amorfo e in decomposizione di un futuro carico di malinconia nefasta, in cui i sogni sono aborriti, divorati, e soffocati dai rimpianti, che conducono a un appagamento impossibile?!
Presentivo una dissoluzione nichilista nello scorrere di bottiglie di prosecco, che tracannava a guisa di pompa idrovora. Anche se lei si giustificava: “ho tante feste a cui partecipare!”
Già, le solite celebrazioni dionisiache, che distolgono e curano come un blando inutile farmaco analgesico dal dolore della malattia, che è già metastasi.
Questo percepivo, e anche se Valkiria mi avesse detto “percepisci male”, sapevo che la mia intuizione era verosimile, imprecisa, ma probabile.
Aveva lo spirito stanco e danneggiato, annegato nella paura della solitudine, che un giorno l’avrebbe potuta incarcerare nelle tenebre di un dolore assoluto e sconfortante, quando sola e vecchia non avrebbe più potuto gioire dell’amore che non ebbe.

Eppure avevo sognato tutto diversamente.

Come avevo fantasticato quell’incontro?
Sarei salito da lei col cuore in gola, con la frenesia di incontrarla alla porta di casa, che mi avrebbe aperto con una grazia del viso incancellabile, ardendomi dal desiderio di abbracciarla, baciandola senza contenimento, libero di godere di quelle labbra raffinate e metafisiche.
Chiusa la porta, infatti lei mi avrebbe cinto con le braccia come un miscuglio inscindibile, lambendo le mie gote con gli aromi della sua pelle, che avrei assaporato fervendo.
Le sue mani mi avrebbero sfiorato, frugato, incendiando quel che avrei voluto anche io.
E così avvenne.
Avevo della sua bocca un’idea fissa, irremovibile, che riusciva ad empirmi di ardore, ansando, con soffusi, veraci, lusinghevoli baci, afflato di labbra dilette, abbandono in cui mi obliavo, tra le insidie di una voluttà inesprimibile.
Bocca che mi suggeva avida e struggente, estuosa e repente, in cui liberavo, con mia e sua delizia, tutto quello che dentro mi ferveva, sempre in balia dei suoi profluvi, trasognamenti e suggestioni che divenivano materializzazione, corpo, veste estrema del suo alito vitale; divenivano un amalgama che si compenetrava indissolubile, inscindibile, magmatico quando sul quel divano, per terra, su un lurido tappeto, sul letto immacolato, alla ringhiera del balcone, ci scaraventammo in una lotta, selvaggi, primitivi, affamati delle nostre carni, dei succhi prelibati, miele dolcissimo e veneficio transeunte, fino a perderci in una dissoluzione che non ebbe tempo e neanche fine, se non quando, disteso sul suo petto, non m’accorsi che ella strabuzzava gli occhi, e altro che dir non posso. Stava per raggiungere l’estasi. E quindi venne, e quindi un sorriso illuminò il suo viso bello e felice.

In quelle iridi vidi il crepuscolo serale, la quiete, la luce che si rifugia tra i monti, un silenzio che cala in una metamorfosi che solo la sera sa esprimere.
Quel mattino di settembre mi svegliai, guardando come sempre il sole sorgere a sinistra della vigna. Il mare brillava placido e lontano, il silenzio della pianura sovrastava tutto, raggiungeva la costa inglobando il circondario.
Rilessi il biglietto che ella mi aveva scritto con caratteri quasi gotici, che terminava con un “a mai più, ossia per sempre”.
Il virus e la pandemia erano ritornati ancora più infestanti di prima, decimando giovani e vecchi, riducendoci a piccole essenze diafane. Ed io ero sopravvissuto ancora una volta, ero maledettamente vivo.
Quella notte sarei dovuto partire con lei, sarei dovuto morire tra le sue braccia, per poi essere traslato in un luogo inesistente, invisibile, ctonio e pur sempre triste, come ogni morte, nella fine di una vita terrena che io amavo e non volevo abbandonare.
Mi risparmiò e poi sparì, lei divinità guerriera, della quale amavo l’opposto di quel che io ero, nell’ansia di cercare un eterno e ineffabile slancio, che si arrestava, ripartiva si soffermava, cedeva, aggrediva, sempre dilaniato dalla fantasia, tangibile, rovente, dolorosa, e pure richiesta. La sofferenza che cercavo, che sentivo nella sua voce avulsa da cadenze dialettali, voce idilliaca, genuina, cosparsa di sorrisi.
Cosa mi resta ora di lei?!
L’eco delle infinite conversazioni, i suoi precordi indomiti, in un tempo che aveva le sembianze flessuose, che travalica la coscienza, offusca la comprensione, scava nelle immagini e in ricordi che inspirano nel silenzio e nella notte; i suoi sentieri remoti, velati da nostalgiche aspirazioni luminose, riflessi saporiti e cremisi, dolcissimi come ciliegie.

Ma lei era pur sempre una Valkiria.

Joe Oberhausen-Valdez