Racconti

Ho avuto la mia giusta dose di casi strani nel corso degli anni, ma, certamente, ce n’è uno che spicca.

Era un martedì sera. La città fuori urlava di clacson e sirene contro se stessa, le luci al neon verdi e rosa dell’insegna del motel di fronte lampeggiavano sulle pareti del mio ufficio. Io avevo già buttato giù nel gargarozzo tre whisky doppi e non avevo fretta di tornare a casa.

Mi ero appena versato il quarto, quando sentii sbattere il portone d’ingresso. Poi, un passo leggero sulle scale: esitante, insicuro. Guardai la Glock che riposava sulla scrivania ma non serviva. Quelli erano suoni che conoscevo bene. Volevano dire che avevo un cliente.

L’ombra sulla porta a vetri era inequivocabilmente di una lei; poi, un colpetto leggero, indubbiamente da femmina, come se sperasse che non fossi in casa. Alla bambola era andata male. Io c’ero.

Le gridai di entrare e non si fece pregare. Era di aspetto normale, poco appariscente, quasi anonima. Benestante ma non così tanto che te ne accorgeresti. Probabilmente molto istruita. Niente trucco e borse grandi come il Canada sotto gli occhi. Pantaloni e ballerine. Non sembrava il tipo di moglie gelosa, più probabilmente un gatto scomparso a cui era affezionata come a un bambino. Comunque c’era qualcosa, ne ero certo come la scadenza delle tasse, a tenerla sveglia la notte.

Le ci volle un po’ per iniziare. Era nervosa, continuava a stare in piedi a gironzolare nella stanza, poi si sedette, ma subito dopo si alzò per ricominciare a girare come un cavallo nel recinto. Le intimai di fermarsi! Dannazione! Mi stava facendo ammattire. E finalmente iniziò a parlare. All’inizio era poco più di un sussurro e non mi guardava, buttava gli occhi solo fuori dalla finestra, il bagliore rosa e verde dell’insegna giocava sul suo viso.

Alla fine si sciolse e parlò e parlò, quanto parlò! Ma io l’ascoltai. Non la interruppi, non le feci domande, non le dissi niente fino a quando lei non ebbe finito; non dissi molto neppure allora.

Qualcuno la stava molestando, mi confidò. Non sapeva chi e non sapeva perché.

Tutto era iniziato lentamente mesi prima, con la sola sensazione di essere seguita. Poi, un paio di volte, le era sembrato di sentire qualcuno in casa di notte. Aveva chiamato la polizia, che era venuta, ma non aveva trovato nulla. Poi le cose erano diventate sempre più strane. Aveva iniziato a fare sogni claustrofobici, disse, e quando si svegliava, si sentiva lenta, inconsistente, irreale, come se avesse preso dei pesanti sedativi; come se fosse stata drogata.

Aveva difficoltà a concentrarsi, si sentiva disorientata, confusa. Poi aveva iniziato ad accusare degli attacchi di déjà-vu, più simili a flashback, ma di cose che non ricordava fossero mai accadute. A volte, quando si svegliava la mattina, le sue cose erano state spostate in tutta casa: libri, vestiti, le stoviglie nel lavandino che era sicura di non aver lasciato.

I sogni dopo un po’ peggiorarono. Erano diventati terrificanti, sognava di essere tenuta prigioniera, rinchiusa in una cella, urlava ma nessuno la poteva aiutare, addirittura sognava di stare sognando ma non poteva svegliarsi. Era intrappolata nell’oscurità, da sola.

Un giorno, si era destata e aveva scoperto di aver dormito per un’intera giornata: mercoledì era andata a letto e quando si era alzata era già venerdì. Quando si era presentata al lavoro, scusandosi da morire, il suo capo, guardandola sorpreso, le aveva detto che non capiva cosa stesse sostenendo, le spiegò che il giorno prima aveva lavorato come di consueto e avevano pure pranzato insieme. Le aveva mostrato la sua scrivania che era un disastro di carte, un disastro che lei non aveva lasciato.

Allora si convinse che qualcuno la stava drogando e prendeva il suo posto. Non sapeva perché, disse, e la sua voce si spezzò.

Presa dal panico aveva gettato tutto il cibo presente in casa, si era sforzata di cambiare abitudini, di modificare gli itinerari quotidiani, i negozi dove faceva la spesa, aveva iniziato a pranzare in un posto nuovo ogni giorno, temendo che le avvelenassero il cibo. Eppure tutto era continuato. A volte dormiva, non solo per un giorno, ma per anche due o tre. Allora iniziò ad invitare degli amici a casa per farle compagnia durante la notte; una volta aveva portato a casa anche degli estranei incontrati al pub. Qualsiasi cosa pur di non restare sola nell’oscurità. Ma niente l’aveva aiutata. Purtroppo era talmente spaventata di andare a letto che cominciò a prendere degli stimolanti per rimanere sveglia, ma i sogni continuavano, così come i giorni mancanti e allo stesso tempo il terribile senso di déjà-vu.

Alla fine era andata alla polizia. L’avevano ascoltata attentamente, avevano preso alcuni appunti e l’avevano mandata da un medico per dei test. Il dottore l’aveva ascoltata attentamente anche lui, le aveva fatto fare alcuni esami e poi l’aveva mandata da uno psichiatra per una valutazione. Lo psichiatra l’aveva ascoltata attentamente come gli altri, le aveva rivolto alcune domande e poi le aveva prescritto dei farmaci. I farmaci non furono di alcun aiuto. Anzi, peggiorarono la situazione. Una mattina si svegliò scoprendo che era addirittura trascorsa una settimana. Tuttavia amici e colleghi le dissero di averla vista, di aver conversato con lei, le mostrarono anche i suoi messaggi che aveva inviato loro e il lavoro che aveva svolto.

Quindi, in preda alla disperazione, era andata da lui. Voleva che lui la seguisse, per catturare chiunque le stesse facendo tutto questo, che cogliesse questa sostituta sul fatto. Era l’unico modo per cui gli altri l’avrebbero creduta, disse. 

Quando si voltò, le sue guance erano bagnate di lacrime, lampeggianti di rosa e verde delle luci al neon.
Ok, so cosa state pensando, avevo pensato la stessa cosa: a questa povera ragazza mancava un venerdì e il caso non valeva molto. Il fatto era che avevo un paio di debitori alle calcagna pronti a venire a bussare per farmi lo scalpo. In pratica il vuoto del mio portafoglio mi disse che avrei potuto aiutarla, tranquillizzarla sembrava un lavoro facile. Quindi pagamento anticipato per seguirla un mese a partire dal giorno successivo. Non concordammo alcun contatto durante il mese per non dare alcun gancio ai criminali che le avevano organizzato quello scherzetto. Le chiesi la chiave di scorta del suo appartamento con lo scopo di controllare eventuali “indizi” ma soprattutto per controllare ogni giorno nel caso fosse stata lasciata lì, drogata, priva di sensi.

Così, il giorno seguente andai da lei in un orario in cui lei si sarebbe dovuta trovare al lavoro. La casa era effettivamente vuota, anche il letto era vuoto. Feci il sopralluogo come si deve, con professionalità; la tipa era pazza ma aveva pagato in contanti e io avevo una reputazione da difendere. 

Come immaginavo non trovai niente. La casa era pulita, organizzata. Viveva da sola: nessun coinquilino, nessun ragazzo, nessun animale domestico. Strano… perché lo stereotipo della ragazza sola era di essere una gattara con un paio di felini ciccioni in giro per casa. Le uniche foto se ne stavano appese sul frigo ed erano di lei in vacanza, sempre da sola. 

Tuttavia, come ho detto, visto che mi aveva sganciato un bel gruzzolo, iniziai ad indagare per capire meglio il contesto in cui viveva. Scoprii che era una scienziata. Cercando in giro, venni a sapere che il laboratorio in cui lavorava era finanziato privatamente, qualcosa di segreto. Pensando che potesse essere importante, scavai un po’ più a fondo e alla fine trovai il tesoro. Una mia fonte m’informò di certe voci che circolavano: stavano lavorando a qualche diavoleria scientifica che doveva servire alla “piegatura del tempo interstiziale”; tradotto, per il comune mortale qui presente, voleva dire: viaggio nel tempo. Scienziati pazzi fottuti, pensai e non mi meravigliai che la pupa stesse andando fuori di testa. Chissà cosa stava combinando con i suoi colleghi dallo stipendio segreto.

Queste rivelazioni smossero la mia curiosità a mille, spingendomi a mettermi di buzzo buono nel pedinarla. La guardai andare a pranzo con i colleghi, bere con gli amici – non era così sola allora – e vidi che aveva una paura morbosa dei gatti, avrebbe letteralmente attraversato la strada per evitarli, urlò come una matta quando un soriano le era saltato accanto mentre se ne stava su una panchina del parco. Questo mi fece rivalutare lo stereotipo, a ‘sto punto inutile, della ragazza sola uguale gattara.

Alla fine della prima settimana ero sicuro che nessuno la stesse seguendo: nessuno si era intrufolato in casa sua di notte per drogarla e ogni giorno controllavo, usciva alla stessa ora per andare al lavoro e in casa il letto era vuoto. Nessuno la stava sostituendo.

Alla fine della seconda settimana ero già annoiato a morte e pronto a smettere. Ma avrei dovuto restituire i soldi. Mi aveva pagato per un mese intero. Decisi di resistere. 

Poi, però, arrivò la terza settimana e cambiò tutto; iniziai ad avere la sensazione di essere seguito. C’era un ragazzo con un cappello fuori dall’ufficio che leggeva lo stesso giornale da due giorni e poi un furgone nero aveva iniziato a comparire dietro di me nel traffico, tre macchine indietro. Entro la fine della settimana, ne ero sicuro. Forse la tipa non era pazza, dopotutto, pensai tra me, forse aveva ragione.

Poi feci il primo sogno.

Fu esattamente come la scienziata me lo aveva descritto la prima volta: intrappolato nell’oscurità, gridavo, tentavo di svegliarmi ma mi sentivo trattenuto nel profondo, incatenato in un angolo buio da legacci invisibili, da solo. Mi svegliai gridando, tutto sudato, annebbiato come se fossi stato picchiato come una zampogna o riempito di tranquillante per bestie feroci. Mi trascinai fuori dal letto e uscii in strada, gridando ai passanti, chiedendo che giorno fosse, come un pazzo o un personaggio di “ai confini della realtà”. Per fortuna scoprii che non mi ero perso nemmeno una mattina.

Tuttavia, mi ero spaventato a morte. Passai dall’ufficio e fortunatamente dell’uomo con il cappello, nessuna traccia. Quindi andai in città, per controllare la casa della tipa. Stavo pensando tra me e me quando mi sembrò di rivedere il furgone nero. Al semaforo potei guardare meglio, era proprio fermo dietro di me nel traffico, tre macchine dietro la mia. Ero quasi contento di vederlo. Mi dava comunque un senso di realtà.

Quella mattina però non avevo voglia di ballare così mi diressi verso la stazione dei treni come se volessi lasciare la città. Parcheggiai fuori ed entrai nella sala d’attesa, guardando il parcheggio dalla finestra. Il furgone nero non si fece attendere, parcheggiò anche lui. Per un po’ rimase fermo col motore al minimo. Poi un uomo scese dal lato del passeggero. Un uomo che indossava un cappello.

Lo guardai mentre diceva qualcosa all’autista, si guardò intorno e s’incamminò verso la stazione. Mi passò accanto senza vedermi, era concentrato a controllare la coda di gente in biglietteria, con una mano infilata sotto il bavero; un ragazzo saggio allora, pensai. Facciamo a chi ce l’ha più grosso? 

Non persi tempo. Mentre con la sinistra gli tenni fermo il braccio, con la destra impugnai la Glock e gliela spinsi tra le costole. “È stato facile”, gli dissi mentre si irrigidiva.

“Faremo solo una bella chiacchierata amichevole. Ho alcune cose di cui discutere con te…” gli dissi.
Bene, alla fine scoprii che era anche lui un investigatore privato e stava svolgendo il mio stesso incarico. Proprio così, la scienziata pazza lo aveva assunto per scoprire se qualcuno la stava seguendo. Doveva aver dimenticato che aveva già assunto me.

A questo punto cosa vi aspettate che avremmo potuto fare? Nessuno di noi si sentiva in grado di proseguire, quindi l’unica cosa da fare era andare tutti insieme a casa della tipa e sistemare le cose. Quando arrivammo all’appartamento però, ci accolse la madre della ragazza. Ci spiegò che i colleghi di sua figlia l’avevano fatta ricoverare in psichiatria. Sembrava soffrisse di una rara forma di qualcosa chiamato “Disturbo Dissociativo Temporale” che le aveva incasinato la memoria e l’aveva resa paranoica. Proprio mentre stavo restituendo la chiave di scorta dell’appartamento, era ovvio che non ne avevo più bisogno, la madre si scusò del pasticcio che si era creato e ci disse che eravamo stati fortunati ad averla incontrata proprio nel mentre che era passata a dar da mangiare ai gatti di sua figlia. Rimasi tramortito come se mi fosse arrivato un tir in faccia e per un pelo non caddi a terra. Gatti? Quali gatti? Provai una fortissima sensazione di pezzi mancanti. Non era un déjà-vu, era proprio qualcosa d’altro, di essere nel posto giusto ma al momento sbagliato. Non dissi comunque nulla.

Mentre tornavo a casa, la sensazione che qualcosa non era andata per il verso giusto non mi aveva abbandonato e quella notte qualcosa continuò a tormentarmi. Ma ehi, non dovevo fare più nulla, il caso era chiuso, mi dissi e mi girai nel letto costringendomi a dormire.

Nel prosieguo della notte sognai che qualcuno era entrato nella mia stanza mentre dormivo e mi aveva trascinato via. Non solo, aveva anche lasciato un sostituto nel mio letto. Il giorno successivo mi svegliai normalmente, ma da quella notte feci lo stesso sogno ripetutamente. Il sogno in cui ero tenuto prigioniero da qualche parte: era buio ed ero solo e non potevo svegliarmi. Da quel momento cercai in tutti i modi di dormire il meno possibile. Una sera, era un martedì, ero seduto, al buio, nel mio studio, da solo, ascoltando la città che urlava di clacson e sirene contro se stessa e guardavo le luci al neon verdi e rosa dell’insegna del motel di fronte lampeggiare sulle pareti del mio ufficio e non avevo per niente fretta di tornare a casa. Tirai fuori il whisky e mi riempii il bicchiere. Al quarto bicchiere, sentii il portone sbattere. Un passo indeciso, era lei, inequivocabilmente. Avevamo un po’ di cose di cui discutere.

Luca Pennati