Racconti

Ero una bambolina.
E a dir il vero – nonostante ormai stia invecchiando, nonostante la cipria sparsa a strati sulle mie gote, nonostante lo screpolamento delle labbra, in un viso corrugato, lacerato e arso dal tempo, che falciava come una mietitrebbiatrice, spezzava cuori come se fossi una macina, che creava amore, iniettava le vene di pulsioni irreversibili, che atterriva e attraeva – sono ancora bella, affascinante,  e  mitica, circondata di seguaci, attorniata di cavalieri che mi offrono il caffè, anche due o trecento caffè. È vero, costoro non sono giovani puledri o voraci volatili, ma anch’essi attempati e paffuti, pomposi, pasciuti declivi di uomini audaci. Ma chest’è.
Si cambia, ci si trasforma in macchine obsolete, nella lentezza mostruosa che chiamiamo divenire, che invece è l’anticamera della… della e basta, non voglio neanche nominarla. Ma alla fine che importa, il corpo è solo un mezzo, in disfacimento, dissoluzione di velleità puerili, e per una Peter Pan come me conta solo una cosa. Importa solo lo spirito.

Fioriva flessuoso l’arbusto, velario estivo al sole, ora chinato alla sera, oltre le serre dei colli, scure succise superne.
Seduta sulla sdraio nel mio terrazzino guardavo l’albero in giardino e un aquilone che s’innalzava oltre i tetti delle case. Uno scarafaggio si adagiò sul tavolino di legno. Per me era bello come una farfalla, per questo gli dissi: “vola!”. E lui mi rispose: “non sono una farfalla…”.
Era una domenica di fine estate, la pioggia a tratti scendeva bagnando le tende, alternandosi col sole, rinfrescando il caldo, rumoreggiando quasi con lo stesso sciabordio delle onde, ma con intensità e sensazioni diverse. Tristi per me che ero sola, sola a guardare l’aquilone e lo scarafaggio.
Quel mare che mi appassionava sembrava il ricordo di una stagione trascorsa da tempo, eppure non era ancora finita, sebbene ne avesse tutte le sembianze, la mestizia, il sapore amaro che porta il susseguirsi ciclico della monotonia.
Avrei preferito ristorarmi a guardare, sotto il sole ionico, l’orizzonte e il mare che rumoreggiava come nelle tante giornate liete e quasi interminabili di mesi che non dovrebbero mai trascorrere così lesti, sfumando nell’oscurità dei giorni che si accorciavano sempre più.
Nell’aquilone vedevo le ali che avrei voluto avere, per innalzarmi al di sopra dell’altalenarsi ciclico della routine, che in fin dei conti è monotonia, anche se appare come il ristoro del già conosciuto.
In fondo non mi mancava niente di materiale: una bella casa, anche se era un appartamento qualsiasi in una città qualsiasi; un ottimo arredamento, sebbene fosse una raccolta di oggetti che mi erano apparsi strabilianti, ma ai quali qualche settimana dopo mi ero già abituata, perché anonimi, come ogni oggetto inanimato. Avevo anche una vita abbastanza movimentata: quasi ogni sera uscivo per incontrarmi con amici, bere qualcosa al bar, chiacchierare con qualche avvocato, o persone che apparivano di una cultura superiore alla mia, che non era di certo fenomenale, quasi mediocre, passabile, insomma nella norma. E quindi mi beavo al suono di quei discorsi lungimiranti, artefatti, frammisti di vocaboli altisonanti. Tutte chiacchiere volte solo a scoparmi.
Che uomini…
Io ormai ero divenuta frigida da tempo, arcigna, sorridente solo per le mie battute isteriche. Non sentivo più calore dentro di me, tranne quello che mi procurava la scelta dei vestiti che sceglievo con cura, come tutte le altre suppellettili della casa, come la cappa della cucina, come le orribili tende del balcone, come gli enormi e sgraziati occhiali da sole che almeno coprivano le occhiaie, che nemmeno un barile di crema idratante sarebbe riuscita a nascondere.
Del resto stavo lentamente invecchiando.
Che avrei potuto fare?! Solo convivere con la mia senilità già prorompente e visibile da vicino.
Da lontano, anche se mi avessero guardato con un binocolo, sarei apparsa carina. Ma la distanza, come ben sappiamo, inganna.
Avevo molti passatempi, svaghi, tutte distrazioni che servivano ad allontanare quel mastino che in fondo non mi mollava mai: la solitudine.
Quel che amavo di più era viaggiare. Andare in terre straniere, lontano, a dispendermi, a rilassarmi, a passare quel tempo che altrimenti avrei dovuto passare da sola. Magari a piangere. E invece in quelle terre remote, immersa in qualche vasca idromassaggio, a mirare valli, monumenti, catacombe, chiese e pietre su pietre, mi rasserenavo.
Ero libera, in compagnia, ma libera. Maledetti uomini!
Lontana da un mondo che avrei voluto cambiare a modo mio, ma che in fondo aveva mutato me, restia a ogni metamorfosi, ad ogni adattamento, a ogni gradevole convivenza, a ogni legame che non fosse con la mia “roba”, con le mie abitudini solipsistiche, con la mia testardaggine, intrisa di aggressività repressa.
Dopotutto, avrei voluto solo una cosa dalla vita: essere felice. E felice non lo fui. Giammai.

Il quadro nel salotto era uno specchio. Mi ci guardavo spesso, perché ero bella, o almeno lo ero stata. A volte il parossismo della rappresentazione si può raggiungere con pochi tratti, che non per forza devono ricalcare l’effigie precisa, con la bruttezza, l’avvenenza, nascondendo la pulverulenta intelligenza da scendiletto. Bastano elementari pennellate, da scuola primaria o da menestrello mediocre, ed ecco che un’ombra sale dagli stivali, dapprima erpetica, poi raggiunge il collo, fino a sormontare le rughe, e così si staglia, divenendo tout court una creazione diafana, assumendo una forma bidimensionale, mutando benissimo, completamente, quasi fosse un oggetto in rilievo.
Così mi vidi in questo quadro che ritraeva una bella creatura, almeno un tempo. Ancora fissa nel suo ricordo o semplicemente nell’oblio.
Avevo sempre gli occhi belli, tuttavia ormai spiccavano in un viso raggrinzito, che non avrei mai creduto potesse divenire tale. La folta capigliatura arricciata copriva, non del tutto, i solchi che scendevano da tempo dalle tempie fino alla mascella, fino a velare la pelle increspata del collo che in inverno coprivo con maglioni a collo alto, terminanti e avvolgenti quasi persino il mento.
Eppure, così facendo si evidenziava solo la minuscola bocca costituita da due labbra non più fulgide, tristemente sottili e appena visibili.
Ciononostante il naso era ancora perfetto, non avrei saputo trovarvi dei difetti, se non che sorgeva tra due gote stagionate e bucherellate da decenni passati a colorarle di sostanze bituminose.
Ebbene sì, sto appassendo, come un fico roso da un topo su un bell’albero vigoroso, anche se indosso costumi, abiti eleganti, – non di marca, ma nemmeno comprati in negozi di cineseria, ci tengo a sottolinearlo – che mi fanno apparire a guisa di una giovane, che fresca non è di certo, ma ci prova. L’abito è l’essenza, l’apparire che è il dono che fuoriesce dal mio animo svuotato di sogni effimeri.
Vorrei sempre andare in giro con gli occhiali da sole, enormi, che mi ricoprano tre quarti di viso,  giacché non potrei indossare una maschera che mi ricopra per intero.
Sto tramontando.
Non ho figli, nipoti, neanche un cane, non ho nessuno; solo amici, tanti, ma così tanti che potrebbero essere definiti comparse, forse come clienti che cercano anche loro un trastullo alla loro emarginazione.
Un giorno abbandonerò finanche questo grazioso rifugio; sarò portata da qualche parte in un laido caseggiato anonimo, sconsolato e deprimente, in cui trascorrere gli ultimi giorni di questa tragedia che chiamiamo vita, schiaffata in una stanza buia riscaldata e trafitta da quel sole che amavo, ma che, almeno lui, resta sempre giovane e caldo. Condividerò quelle ore con altre vecchie come me, abbandonate nell’eremo da una progenie inesistente. Biaschiremo qualcosa, forse pure sdentate, con goccioline che scendono dalla bocca, mentre ci infervoriamo in celebrazioni di un passato rutilante, quando correvamo sulle rive di un mare azzurrissimo, in sella a cavalli stupendi, quando mangiavamo in ristoranti eccentrici, sorridendo come se fossimo felici.
Uno di quei film che amareggia e sconforta, spingendo stille e disperazioni a fuoriuscire dagli occhi; fotogrammi che spezzano gli anfratti di un cuore troppo vecchio per questi dolori, troppo vecchio per sostenere la miseria del mondo tetro e angusto che è un ospizio.
Tutto questo penso, davanti allo specchio che fa scorrere il nastro del mio prossimo futuro, ammesso che ne abbia uno. Magari un giorno o l’altro mi schianterò al suolo dall’alto della mia alterigia, precipitando dalla mia vacuità o da un cielo che ho sempre adorato, che mi avrebbe portato chissà dove, destinato a scelte e destini e ambizioni che non avrei mai raggiunto.
Ero sempre stata pretenziosa, a volte accesa da collere improvvise, a volte mesciuta di razionalità e arroganza, alla ricerca di sogni pedestri, inveterati sino alla dissoluzione, ambiziosa eppure sterile, come una romantica o un’illusa.
Spesso mi dicevo: “resta sola, goditi la vita, divertiti, esplora il mondo, viaggia, sorridi sempre ai maschi e soprattutto alle donne, che ti invidieranno più di tutti!”. E così feci, fino a restare davvero sola, sola con la vecchia che spartirà con me gli ultimi istanti di queste sofferenze che soffocano i grigi respiri tra il verde e i muri alti di quell’orribile residenza che intravedo nella mia città bagnata dal mare che mai più mi tergerà, e che mai più potrò ammirare, se non dalla finestra cosparsa di grate, istallate per impedire a noi disperate di buttarci giù, alla ricerca delle onde marine.

  • Mamma, questa storia è sconfortante, non mi piace. Raccontami di te, di quando guardavi l’aquilone dalla terrazza e sognavi di volare.
  • Come se fossi una farfalla.

Joe Oberhausen-Valdez