Racconti

di Posaja Ea


Sembra passato un secolo, ma forse lo è passato sul serio… Non è facile tenere il conto dei giorni e dei mesi, forse posso riuscire a ricostruire giusto gli anni, scadenzati dall’alternarsi delle stagioni è facile ricordare quanto distante è stato l’ultimo inverno. Già l’inverno, la stagione più dura da affrontare per il freddo e per la necessità di avere un riparo su cui poter contare, ma la notte scorre sempre più tranquilla e le temperature basse sembrano congelare anche i riflessi dei non morti che vagano meno attivi e meno pericolosi inoltre col freddo il tanfo della putrefazione si fa meno prepotente e a tratti l’aria sembra perfino respirabile, a pensarci forse posso riuscire a contare gli inverni trascorsi, ma non credo di averne voglia.

Non so perché ora, dopo tanto tempo, proprio ora senta il bisogno di condividere le mie esperienze scrivendole, forse perché ho trovato della carta e delle penne, forse perché ho paura di dimenticare come era la vita una volta, forse semplicemente perché sono consapevole che tutto ciò che sono può svanire entro sera e voglio lasciare un segno del mio passaggio, non saprei…

Quando tutto questo iniziò, o forse sarebbe più corretto dire, quando il mondo come era sempre stato e come sembrava dovesse per sempre essere finì, nessuno era abbastanza lucido da poter guidare le persone e nessuno tanto calmo da poter seguire le direttive di chicchessia, in breve regnò il panico ed il disordine e per gli zombi era come essere delle volpi in un pollaio recintato. Tanti, troppi caddero e ogni morto dei nostri andava ad ingrossare le fila dei nemici, degli altri, degli zombi…

In breve caddero i più deboli, i più pavidi, i meno preparati ed il caos cedette gradualmente il passo all’apparente tranquillità, un silenzio inquietante e pauroso che pervadeva le strade deserte ed abbandonate delle grandi città dove sporcizia e disordine testimoniavano il passato e facevano da monito a chi per un istante si volesse illudere che la vita stesse scorrendo come un tempo.

Io nel mio piccolo ero nato destinato a rimanere a resistere in questa savana, da sempre ero stato attirato dal mondo dell’outdoor e per me la sopravvivenza era uno sport prima che diventasse esigenza.

Alcuni trucchi li sapevo e li mettevo in pratica da anni, cacciare ed accendersi un fuoco, costruirsi un riparo sicuro e procurarsi dell’acqua non erano un problema, certo cominciarono ad essere attività sin troppo assorbenti quando gli scaffali dei supermercati non ebbero più nulla da saccheggiare e a volte la giornata intera scorreva intorno a quelle due o tre attività principali che servivano al solo ed unico scopo di raggiungere il giorno successivo, mangiare, bere e riscaldarsi…

Appena il contagio si diffuse il conto alla rovescia iniziò ad un ritmo esponenzialmente velocizzato ed in un paio di giorni già non c’erano più telegiornali e radio giornali che potessero ragguagliare o tranquillizzare la popolazione, le trasmissioni tutte saltarono, comprese le linee telefoniche ed i cellulari, da quel momento il caos regnò incontrastato.

Ricordo la prima notizia di un risveglio, la presi subito molto seriamente pensando che per non insabbiare una informazione così delicata il problema dovesse essere già molto più grande di come ce lo stessero vendendo e infatti ebbi ragione.

Rientravo a casa da lavoro e già per strada vedevo una certa frenesia, file davanti ai benzinai e centri commerciali strapieni. Chi  aveva la fortuna di arrivare alla cassa con il pieno in automobile o con la spesa nel carrello metteva ancora mano  al portafoglio per pagare e sembrava solo la più intenza serata di shopping natalizio  fuori stagione, il peggio ancora doveva venire.

Arrivai a casa contento delle mie scorte pronte per le emergenze sempre disponibili per affrontare i miei WE di avventure solitarie in mezzo ai boschi. Appena rientrato feci il punto della situazione e cominciai a prepararmi al peggio come in preda ad un presagio o, se volete, ad una consapevolezza della situazione ormai inesorabilmente in caduta libera.

Accesi la televisione sintonizzandola su un canale di notiziari no stop ed andai nella mia piccola sala hobby a prendere tutta l’attrezzatura di cui potevo aver bisogno in caso di evacuazione.

Le notizie cercavano di essere più tranquillizzanti possibile, ma alcune immagini amatoriali che venivano trasmesse erano quanto mai inquietanti ed il caos totale era questione di giorni, forse di ore.

Passai tutta la sera seduto con la televisione che sputava immagini e tentava di dare informazioni, intanto mangiavo e facevo il check di tutta la mia roba, non volevo assolutamente ritrovarmi nelle vicinanze della città nel momento topico dell’emergenza, il famigerato punto di flash quando il focolaio si trasforma in incendio e non può più essere spento.

Aprii la cassaforte dove tenevo le mie armi da fuoco, le sputafuoco su di me hanno  sempre esercitato un certo fascino e le ho collezionate ed usate per una vita, una passione che si sarebbe rivelata cruciale per arrivare vivo fino ad oggi. Quella notte non chiusi occhio, la passai tutta ad oliare e caricare ogni caricatore che avessi in casa, ogni arma presente in rastrelliera, controllando minuziosamente che tutto fosse in perfetto ordine. Finito di sistemare l’arsenale mi misi a ricaricare cartucce al mio banco da ricarica, sfruttai ogni bossolo, ogni palla, ogni innesco ed ogni granello di polvere da sparo di cui ero in possesso, una notte intera ad azionare la leva della pressa progressiva, sembravo una vittima del tarlo del gioco d’azzardo che passa ore interminabili ad azionare la leva della slot machine sperando di vincere, beh anch’io azionavo quella leva sperando di aver confezionato al meglio il proiettile che mi avrebbe potuto salvare la vita e ad ogni movimento una pallottola dorata e lucente cadeva in mezzo alle sorelle che l’avevano preceduta nel cassetto raccoglitore sempre più pieno e pesante.

Il sole mi sorprese alle spalle che avevo già finito tutto ciò che avevo a disposizione, misi sul fornello un caffè e mi preparai, presi la mia fedele Sig da 9mm, la caricai e me la infilai nei pantaloni, infilai tutte le pallottole che potevo negli altri quattro caricatori e li cacciai nelle tasche della giacca, uscii cercando anch’io di accaparrarmi qualcosa che mi potesse essere d’aiuto, dall’armadio estrassi il calzino in cui tenevo un paio di migliaia di euro in contanti ed uscii.

Presi il mio furgone camperizzato, compagno di mille vacanze avventurose e mi diressi non verso la mia armeria di fiducia, non verso un grande centro commerciale, ma in un paesino arroccato su un monte dove sapevo non avrei mai potuto incontrare la ressa vista su strada durante il mio rientro a casa.

Nel paese sembrava ancora tutto normale, questi piccoli centri sono fuori dal tempo e anche le notizie dei telegiornali non vengono prese troppo sul serio dagli abitanti, quasi la cosa non li riguardasse, feci così il pieno al furgone senza particolari difficoltà, comprai del formaggio, un po’ di salumi stagionati e tutto il barattolame che trovai nell’emporio in piazza, farina, sale, vino e qualche bottiglia di liquore, quindi andai nell’armeria del vecchio Beppe, cacciatore di lungo corso e li finii di spendere i miei soldi e il plafont della mia carta di credito che miracolosamente ancora funzionava in polvere da sparo, palle inneschi e cartucce. Quella mia freddezza di quel primo giorno fu la chiave della mia sopravvivenza, più passa il tempo e più ne ho la consapevolezza…

Già ridiscendendo a valle le cose stavano velocemente cambiando d’aspetto ed ero conscio di aver abbandonato dietro di me l’ultimo squarcio di vita normale che già all’indomani sarebbe sfumata via per sempre. Sebbene ancora non avessi visto un solo zombi in giro già si sentivano colpi d’arma da fuoco che di tanto in tanto rompevano l’aria in lontananza, gli incidenti tra automobilisti affrettati e distratti non mancavano come non mancavano scene di panico incontrollato davanti ad ogni negozio o bar che si affacciava sulla strada. Chiusi le sicure centralizzate e sfilai la Sig dai pantaloni per metterla sul sedile accanto a me, la tensione che provavo era forse la più alta mai sopportata sino ad allora, ero consapevole che il momento di usare la pistola contro un bersaglio umano era sempre più vicino e ne avevo una paura fottuta.

Arrivai a casa schivando ogni problema e parcheggiai il furgone in giardino con la cabina proprio di fronte alla porta sul retro. Chiusi bene il cancello e mi barricai in casa accendendo di nuovo la televisione. Lo scenario era già tutt’altro e il caos nei grandi centri era pressoché assoluto, ebbi appena il tempo di vedere qualche scena di sciacallaggio estremo e qualche morto ammazzato ripreso dai passanti col telefonino prima che interrompessero le trasmissioni, eravamo già nell’apocalisse zombi e io ancora non ne avevo visto nemmeno uno, al punto che cominciavo a dubitare della effettiva esistenza del fenomeno. In ogni caso sbarrai porte e finestre e malgrado fosse giorno sprofondai in un sonno ristoratore dopo circa 60 ore di veglia ininterrotta.

Mi risvegliai che era quasi l’alba, anche se ero stato disturbato durante la notte dal rumore di esplosioni lontane avevo comunque riposato abbastanza bene e mi sentivo pronto per la giornata. Ancora non sapevo bene cosa fare aspettando di valutare la situazione e visto che la TV non dava più notizie cercai di sintonizzarmi su qualche stazione radio, le poche informazioni  frastagliate che mi giunsero furono peggiori dei miei peggiori timori, Milano, Roma, Napoli e tutte le principali città erano già cadute, i saccheggi, gli sciacallaggi prima e la diffusione del virus avevano già trasformato le grandi città in cimiteri di morti viventi alla ricerca del loro vivo pasto da reclutare tra le fila dell’armata dei dannati.

I messaggi ufficiali invitavano vanamente la popolazione alla calma e ordinavano di recarsi ai centri d’accoglienza dove protezione, cibo e un rifugio sicuro non sarebbero mancati per nessuno… “col cazzo che mi avrete!” pensai tra me e me, consapevole che questi centri non avrebbero che amplificato i problemi e diminuito la difendibilità delle posizioni, siamo pur sempre in Italia, dove se piove tre giorni i fiumi esondano e la gente muore per le strade sena aiuti!! Presto anche casa mia non sarebbe stata più un posto sicuro, bisognava sloggiare in fretta. Le scorte prese il giorno prima nel pesino erano ancora sul furgone, caricai le provviste che avevo già in casa e fissai la pressa per fabbricarmi le cartucce sul tavolo della cucina della cellula abitativa del furgone. La discrezione del giorno prima non era più necessaria e forse sarebbe potuta essere anche anti producente, per cui mi equipaggiai come si deve per la più dinamica delle gare di tiro dinamico, fondine ad estrazione rapida e corpetti tattici con portacaricatori nei punti più strategici, per unire così la velocità della risposta armata al deterrente psicologico nei confronti della folla impazzita e terrorizzata in cerca di cibo e riparo che avrei potuto dover affrontare sulla strada.

In due giorni già lo scenario si era ribaltato completamente, macchine incendiate, negozi saccheggiati persone disperate e piangenti in ginocchio al centro della strada ed altri che corrono con in mano un fagotto contenente magari poche scatolette di carne che però sarebbero potute bastare per farsi ammazzare come una bestie randagia da qualche altro disperato, perché l’ignoranza e la disperazione, si sa, rendono violenti e ciechi.

Io il mio percorso mentale già lo avevo chiaro in testa, era una via di fuga pianificata e ripercorsa mentalmente tante volte,  le uniche incertezze erano relative alla condizione in cui avrei trovato il tratto di strada provinciale che portava al primo viottolo di campagna che mi avrebbe condotto lontano da tutti, pochi chilometri che avrebbero potuto essere lunghissimi. Nel retro del furgone avevo sistemato una mountain bike, accanto a me c’era il mio calibro 12 carico e pronto, subito dietro al sedile l’arsenale completo che, oltre ad un paio di carabine semiautomatiche di derivazione militare, versioni civili dello statunitense M4 e del sovietico Kalashnikov,  contava anche una precisissima bolt action da caccia CZ, con tanto di ottica a 30 ingrandimenti, in grado di centrare una moneta a 200 mt di distanza senza troppi problemi, avevo poi accumulato negli anni e per passione altri bei pezzi da collezione, tra cui un possente revolver Ruger in 357 Magnum, una pistola Micro Uzi, un Fal israeliano e tante lame, machete, coltelli da lavoro o da survivor, accette da lancio stile Tomawake, insomma non si poteva certo dire che non fossi attrezzato al meglio per affrontare la fuga, ma il numero dei rivali poteva essere un problema, solo com’ero rimanevo pur sempre un facile bersaglio per una folla motivata e disperata.

Il tempo scorreva sempre più in fretta e io mi sentivo sempre più in ritardo consapevole che la questione avrebbe solo potuto peggiorare nel breve. Mi decisi, avviai il motore e aprii il cancello per affrontare la strada. In lontananza i colpi d’arma da fuoco e le esplosioni riecheggiavano e verso la città si vedevano le colonne di fumo degli incendi alzarsi alte fino al cielo, la mia direzione era opposta, quella che puntava verso i monti, che non avrebbe dovuto attraversare centri abitati, quella lontana dall’Autostrada che se non era ancora bloccata lo sarebbe divenuta di lì a poco. Avanzare di un metro senza problemi era già una vittoria, molti però erano ancora chiusi nelle case illudendosi di far passare l’ondata di follia rintanati come ricci nella tana e questo per me era un vantaggio in termini numerici puri. In lontananza vidi delle macchine ammucchiate come in un incidente, l’auto davanti a me che si ferma e qualcuno esce e poi scappa, invado lentamente la corsia opposta e continuo ad avanzare quando vedo la scena, un gruppo di zombi si accalca per sbranare un poveraccio che ancora vivo urla il suo terrore ed il suo dolore, non so cosa fare…

Cazzo non c’è più nulla da fare per quel disgraziato, devo cercare di sfruttare la distrazione di quei mostri schifosi e passare, punto il muso del furgone sull’angolo della macchina che occlude parzialmente la via e spingo fino a spostarla di quel mezzo metro che mi permette di passare oltre, durante l’operazione una di quelle carcasse animate si avvicina incuriosita e mi sbava di sangue putrido il finestrino, provo una serie di sensazioni tutte spiacevoli, la principale è il disgusto, seguita dalla paura, lo zombi non saprei dirlo neanche ora se era un uomo o una donna, ma quello che adesso so è che non era così aggressivo solo perché con i finestrini chiusi non poteva sentire il mio odore di carne viva e il solo movimento non lo rendeva così sicuro che io potessi essere cibo per lui ed il suo branco. Passai ed accelerai per allontanarmi in fretta, lasciai l’asfalto appena possibile ed iniziai a risalire zigzagando tra le strade carraie verso la cima di una vicina montagna dove avevo un capanno nel quale spesso passavo i giorni liberi testando qualche nuova attrezzatura. Li sarei stato lontano da tutto e da tutti, dalle vie di fuga di chi abbandonava la città e dalla concentrazione del centro abitato, lì avrei potuto organizzarmi, aspettare ed in caso di necessità sarei potuto ritornare velocemente verso casa o verso un insediamento urbano, col furgone in bici o addirittura a piedi avrei potuto andare e tornare in giornata senza troppo stancarmi.

Il capanno è ai bordi di un boschetto, a poche decine di metri dalla strada, l’ho costruito io con le mie mani e rispecchia l amia personalità, è essenziale, è solido e quasi non si vede nemmeno quando gli sei quasi sotto. E’ piazzato su una robusta base di legno fatta di grosse tavole levigate inchiodate tra loro che appoggiano sui rami di un albero di quercia che apre le sue fronde e ne protegge con esse le pareti alla vista, non sono più di una ventina di metri quadrati con un paio di finestre una stufetta auto costruita con dei grossi barattoli di ferro intagliati ed incastrati tra loro per formare una roket stove coibentata ed in grado di ottimizzare al massimo la combustione di piccoli legnetti con cui ci si può riscaldare e cucinare con grande facilità. Parcheggiai il furgone proprio sotto al pianerottolo della casetta sull’albero, per salire sarebbe così stato sufficiente utilizzare la scaletta posta sul portello posteriore e non avrei dovuto sfruttare la più scomoda scaletta in corda che di regola usavo, d’altronde quando venivo qui ci arrivavo più che altro a piedi… Ora avevo altre esigenze, la prima era quella di camuffare il furgone per non far notare la mia postazione. Il posto era deserto come sempre, qui in quota ho solo incontrato cacciatori e cercatori di funghi e non così spesso, quasi sempre le stesse persone, persone che avevo imparato a conoscere e che mi conoscevano, mi vedevano come uno un po’ strano ed ero abbastanza sicuro che non me li sarei ritrovati da quelle parti in questa circostanza.

CONTINUA

Posaja Ea


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