Racconti

Prima Parte 

di Simon REBEL


 Gli occhi mi si aprono a fatica, ancora impregnati fradici dal sonno. Nel buio appare una macchia luminosa rossa. Galleggia, sospesa nel buio della camera da letto. La macchia va pian piano definendosi e mettendosi a fuoco ai miei occhi. Delinea dei numeri. Quattro, per la precisione. In mezzo a loro, riesco a scorgere persino due puntini lampeggianti. L’immagine definitiva scaraventa via in un istante, con la violenza di una bomba atomica e definitivamente, tutto l’intorpidimento in cui ancora dolcemente mi crogiolavo.
Cazzo. le 07:49. Come diamine può essere? Avevo puntato la sveglia alle 07:15! Devo essermi riassopito. Merda, devo correre. Correre come un disperato. Come se avessi la morte alle spalle. Devo fare oro di ogni minuto. Di ogni secondo. Merda Merda Merda.


La riunione coi cinesi è sacra. Se faccio tardi oggi, sarebbe come cannare con una bella figa la prima sera, seppure prima di quella sera hai scritto la storia del rimorchio. Ci sono partite in cui l’importante non è per niente partecipare: partite in cui non puoi fallire, punto. Non puoi fallire e basta. Partite in cui non c’è andata e ritorno. Partite in cui la regola è “Oneshot,onekill”. Senza se e senza ma. Ci sono partite prima della quali puoi aver compiuto tutte le imprese che vuoi,e potrai compiere tutte le prodezze sovrumane che esistono in seguito: ma se perdi quelle partite, se sbagli quel tiro, tutto il resto non sarà valso o varrà più nulla.
Tutto ciò che hai potuto compiere fino a quel momento si sgretolerà come castelli di sabbia al riflusso delle onde.

Oneshot, onekill.

Oggi mio figlio aveva anche la finale del torneo di calcio. Sognava di arrivare con la sua squadra a giocarla. E al contrario di quanto pensavo, forse speravo, quei marmocchi alla fine c’è l’hanno fatta davvero, dannazione. Me ne parla da un mese e passa. Pazienza, dovrò mancare. Troverò poi il modo di spiegarglielo, qualcosa mi inventerò. Ma ora si fottesse tutto, ora devo correre.
Mentre mi butto giù dal letto come un tarantolato, non mi interessa di non far rumore per non svegliare mia moglie che mi è accanto. Moglie che si sveglia, appunto.
“Amore… perché sei così di fretta?” mi chiede, con la voce ancora ampiamente impastata. “Devo correre, sono in ritardo bestiale. C’è la riunione coi cinesi per quel contratto importantissimo, ricordi? E’ questione di vita o di morte” le rispondo in maniera sbrigativa e concitata, mentre corro in bagno.
“Ma oggi la riunione?” mi chiede al mio rientro in camera dopo qualche minuto.“E’ il nostro anniversario Luca… Avevamo detto che saremmo andati a pranzo al ristorante dove ci siamo conosciuti tutti e tre, e poi alla partita di Marco…”
Dannazione. Era anche il maledettissimo anniversario, è vero. Non lo ricordavo questo ‘piccolo’ particolare. Dannazione di nuovo. “Elisa, non cominciare. Ci andremo domani. O dopodomani, non lo so. Ci sarà tempo. Ma ora molla. Oggi ho da fare cose importanti, che non si possono rimandare”, taglio corto io.
La guardo con la coda dell’occhio mentre ho già infilato calzini e pantaloni e continuo a vestirmi. Riesco a cogliere nella penombra della stanza come inizialmente abbassa lo sguardo e rimane in silenzio, e come poi sospira. Infine abbozza con voce sommessa: “Non sai quanto mi piacerebbe essere importante anch’io… anche solo per una volta. E sono certa che sarebbe felicissimo di esserlo anche Marco”. Dopo queste parole, lentamente, torna a poggiare la testa sul cuscino. Mi accorgo di una lacrima che le riga la guancia. Piange. Piange in silenzio.
“Elisa santo cielo! Il mio lavoro è ciò che ci fa vivere! Credi che questa villa, le macchine, la scuola privata di nostro figlio, i suoi vestiti di marca, e i tuoi vestiti di marca! Credi che tutta questa roba cada dal cielo? O cresca dall’orto del romanticismo? Che ce la diano in premio per i pranzetti degli anniversari o per le partitine di calcio dei bambini!? Negativo! Questa roba è venuta dalle mie corse ossesse di mattina, dalle giornate passate chiuso in un cazzo di ufficio a diventare scemo da quando era buio a quando lo era di nuovo, dal mio essere impeccabile a lavoro, dai pranzi e le cene fatte di panini o direttamente saltati, dalle notti con due o tre ore di sonno, dal dedicarmi anima e corpo a questo! Senza tutto questo, non avresti ne tutte le borse che hai, ne guideresti una Mercedes, ne affacciandoti da quella fottuta finestra vedresti quel maledetto e snob prato inglese che hai voluto ad ogni costo assieme a quella dannata piscina!”
Questo è ciò che le sbraito in risposta, senza nemmeno guardarla, ormai quasi completamente vestito.
La cravatta. Non questa. Nemmeno quest’altra. Quella regimental. Dove cazzo è la cravatta.
“Farei volentieri a meno di qualche borsa, per un giorno in più con mio marito. Ma con quello che ho conosciuto dieci anni fa. Che girava con una Panda, che non mi riempiva gli armadi con roba di Gucci e Dior… ma che mi riempiva le giornate. Che non mi regalava oggetti, ma mi regalava se stesso”, risponde.
“E maledizione, e smettila! Per l’amor del cielo basta! Finiscila con questi piagnistei! Sembri un’adolescente! Non ho tempo per queste menate, lo riesci a capire!? Comunque io devo assolutamente andare ora”.
Prendo la giacca, la ventiquattro ore che grazie al cielo e alla mia metodicità ho preparato il giorno prima, e mi affretto ad uscire di casa. Quando sono di fronte la porta d’ingresso e faccio per aprirla una sagoma alla mia destra, sulla porta della camera di mio figlio, attira la mia attenzione: è proprio lui.
Marco mi guarda da dentro il suo pigiamino, con i piedi scalzi sul parquet. Ha lo sguardo assonnato, ma di chi ha già capito tutto. Non mi dice nulla: si incammina verso il letto dove sta la madre, scivola nella penombra della stanza, poi sotto le coperte, e le si sdraia accanto, abbracciandola. Lei lo bacia in testa e ricambia il suo abbraccio.
Fanculo tutto. Devo muovermi.
Esco di casa, prendo la macchina, do un’altra occhiata all’orologio: posso farcela. Sono stato bravo. La strada è sgombra. Stranamente sgombra. Ma grazie a Dio è sgombra.
Guido in maniera per niente rilassata per le vie della città, che sono ancora velate dalla luce tenue di un mattino fresco, bluastro e ancora acerbo, striato solo da qualche spruzzo di nube qua e la. Arrivo a quello che io chiamo “La trappola di cristallo”, il palazzone ove ha sede la società per la quale lavoro. Posteggio l’auto nel parcheggio privilegiato, quello destinato al direttore generale della società, al secolo “il boss”, e a noi dirigenti. Chiudo l’auto, esco dal cancello automatico e mi avvio all’ingresso a passo svelto.
Ce la faccio, ce la faccio, ce la faccio. Entro nel grande atrio a piano terra, reso circolare nonostante la pianta quadrata dell’edificio: il via vai di persone è ancora moderato, ma già presente, e l’enorme orologio posto sopra il banco della recezione segna le 08:15: Missione compiuta. Ho spaccato il minuto.
Quell’omone del boss è al banco della recezione. Lo vedo di spalle, in un impeccabile completo blu, intento a firmare alcuni fogli. Percepisce la mia presenza alle sue spalle. Si volta e mi saluta. “Buongiorno Borrelli. Puntuale come sempre. Il tempo di un caffè se vuole ce l’ha ancora, poi siamo operativi. Ovviamente è tutto pronto… inutile chiederglielo no?” mi chiede infine, con espressione fiduciosa.
“Ovviamente Signor Direttore. Entro stasera avremo le firme dei cinesi su quel contratto” gli rispondo, con una sfacciata sicurezza.
“Perfetto Borrelli… perfetto. A tra poco allora”. Mi saluta con aria ampiamente compiaciuta. Il direttore generale a questo punto mi stringe la mano, poi fa un veloce cenno di saluto con la testa anche alla Gargani, la responsabile del personale addetto all’accoglienza del pubblico mentre le restituisce i fogli firmati. Subito dopo, a passo svelto, si dirige verso l’ascensore del quale ha l’uso esclusivo tramite il suo badge e che lo porterà al piano del suo ufficio. Mentre va via controlla nuovamente l’orario all’orologio da polso in oro che indossa, quasi fosse un tic. Io decido di prendere il caffè di cui parlava poco prima. Mentre lo sorseggio, improvvisamente, scoppia una violenta rissa. E a darsele di santa ragione sono i pensieri nella mia mente: con lo sguardo perso nel vuoto di chi è assorto da una parte ripasso alla velocità della luce l’illustrazione che dovrò fare ai cinesi tra poco, dall’altra rivisualizzo il viso delusi di mio figlio e di mia moglie. Vince facile e per knock-out il pugile all’angolo rosso: l’illustrazione ai cinesi. Un’occasione immane per la mia società, per la mia carriera, per il mio conto corrente, e per i miei guadagni economici futuri.
Getto la tazzina vuota, guardo di nuovo l’orologio, contagiato anch’io dal tic del boss: ho ancora due minuti. Il tempo per prendere anch’io l’ascensore, ma quello dei comuni mortali. Io non ho il badge del Direttore. Ancora no.
Durante la salita dell’ascensore, accompagnato dal fruscio ovattato del suo movimento, continua il furibondo turbinio di pensieri che mi trita la mente. L’ascensore rallenta. Un elegante tintinnio anticipa l’apertura delle porte. Esco e percorro il patio fino all’ufficio del Direttore: la porta blindata è già aperta, e lui ovviamente è già li.
“Venga Borrelli, venga. La delegazione cinese dovrebbe arrivare a momenti. Ne approfitti per riordinare le idee”, mi dice. Colgo la sua tensione.
“Signor Direttore, dovrebbe saper bene che non sono il tipo che riordina le idee negli ultimi minuti” mi permetto di rispondere, col doppio intento di rassicurarlo ed apparire ancora più sicuro ai suoi occhi, mentre poggio la ventiquattro ore sulla scrivania, inserisco la combinazione per l’apertura e sblocco i ganci. “Stia sereno. Sarà una passeggiata”.
“Si Borrelli, ha ragione… la sto tartassando. E lei non mi ha mai deluso. Ma sa bene cosa c’è in ballo questa volta. Ho scelto lei proprio perché la considero una garanzia assoluta. Non possiamo lasciar passare questo treno. Per nulla al mondo!” rimarca, stringendo il pugno destro con vigore.
“Il treno non andrà via senza di noi e ancora una volta non rimarrà deluso dalla scelta, Signor Direttore. Si rilassi, e attenda di vedere le firme su quel contratto”, continuo a rassicurarlo.
“Si, va bene… Cerco di rilassarmi. Anche perché farmi vedere troppo teso dai gialli potrebbe essere negativo. Potrebbero pensare chissà cosa ci sia sotto all’affare. A proposito… ma quando arrivano? Non hanno mai tardato un minuto nemmeno loro”, nota a quel punto il Direttore.
Non gli rispondo, rimanendo con le mani nelle tasche dei pantaloni del mio completo e limitandomi ad un espressione di circostanza e di dubbio con le sopracciglia. Subito dopo il boss alza il telefono che ha sulla scrivania e digita il numero interno della recezione. Il vivavoce emette uno squillo. Uno solo, prima che la chiamata riceva risposta e dall’altro capo inizi a giungere, recitata da una voce femminile e formale, la presentazione della società.
“Signorina Gargani, sono il Direttore” taglia corto il boss. “I clienti della Cina sono arrivati?” le chiede poi.
“No Signor Direttore. Non sono ancora arrivati”
“E provi a chiamarli! Cosa aspetta!” sbotta il boss, scomponendo con una secca manata alcuni fogli che erano impilati sulla sua scrivania.
“Appena fatto, Signor Direttore. Entrambi i referenti non sono raggiungibili. Subito dopo ho provato a contattare anche il nostro autista che li attendeva all’aeroporto, irraggiungibile anche lui. E’ irraggiungibile anche l’aeroporto stesso. Oltre questo non avevo idea di come poter rintracciare la delegazione. La stavo per chiamare in ufficio per informarla, mi ha preceduto. Mi dica pure in quale altro modo posso esserle utile, Signor Direttore”.
“Maledizione! Va bene, va bene così Gargani, la ringrazio. Ha già fatto tutto ciò che poteva. Grazie ancora”. Sono le ultime parole del boss, prima che sbatta nervosamente la cornetta giù e salti in piedi.
“Cosa cazzo sta succedendo!” inveisce, scuotendo le mani aperte per poi sbatterle sulla scrivania, rimanendoci poggiato, mentre con lo sguardo cerca una frase che possa tranquillizzarlo da parte mia. Il suo volto è paonazzo.
“Signor Direttore, cerchi di non innervosirsi. Sarà accaduto qualche inconveniente al ripetitore telefonico della zona aeroportuale. Potrebbero aver trovato un ingorgo stradale, conosce il traffico di questa città nelle ore cruciali come questa. Credo che arriveranno a momenti. E ad ogni modo a questo punto sono loro ad aver ritardato, noi non abbiamo da temere brutte figure ora. Del resto abbiamo tutto il giorno, non si agiti… Non ce n’è ragione al momento…”.
Le mie parole sembrano riuscire a calmarlo almeno un po’. Sbuffa da sotto i suoi baffoni, e va ad affacciarsi all’ampia finestra posta sulla parete opposta all’ingresso, a metà sala. Lo seguo con lo sguardo, pronto a recepire altre disposizioni. La sua espressione, dal preciso momento in cui inizia a guardare fuori, passa velocemente dal nervosismo all’incupirsi. Aggrotta gli occhi, arriccia il naso e sistema lentamente i suoi occhiali. “Ma cosa diamine…” sono le parole che seguono, pronunciate lentamente ed a bassa voce, accompagnate da un gesto lento, quasi assente della sua mano destra, che mi fa cenno di raggiungerlo e guardare anch’io.
Mi porto quindi prontamente alla finestra, da dove si potevano chiaramente notare alcune colonne di fumo nero alzarsi da una zona immediatamente prossima all’aeroporto assieme ad alcuni bagliori inconfondibili di fiamme. Grosse fiamme, a giudicare dalla lontananza di quella zona, visibile da dove ci troviamo solo grazie all’altezza del palazzo da dove guardiamo.
“Accidenti… devono essersi verificati qualche tipo di incidente. Provo ad accendere la tv?”, gli propongo.
Il Direttore senza distogliere lo sguardo da quell’ambiguo panorama mi fa cenno di si con la testa, in maniera appena percettibile. Accendo quindi lo schermo al plasma dell’ufficio.
Le immagini trasmesse, stranamente disturbate, mostrano scene di ambulanze e personale di soccorso medico che forniscono frenetica assistenza a dei feriti, apparentemente gravi, molti dei quali sembrano addirittura privi di sensi.
… si susseguono confuse e le fonti non sono ancora certe. Il primo episodio pare essersi verificato alle prime luci di questa mattina, presso l’aeroporto locale. Voci non confermate parlano di aggressioni ad alcuni membri del personale della struttura e ad alcuni passeggeri da parte di altri viaggiatori discesi da un volo proveniente da Buenos Aires e diretto a Mosca, che ha dovuto compiere un atterraggio di emergenza nel nostro territorio. Subito dopo lo sbarco la situazione presso l’aeroporto stesso e le zone circostanti sarebbe immediatamente degenerata, con aggressioni e disordini sempre più numerosi e diffusi, fino a scivolare di mano alle autorità che avrebbero preferito evitare di utilizzare le armi per non mettere a rischio i civili ma che al contempo non sarebbero riuscite a fronteggiare la situazione pacificamente. Sembrerebbe che gli esagitati si siano dimostrati in breve tempo molto più numerosi di pochi ed isolati individui, che le aggressioni verificatesi siano avvenute anche in diverse e lontane zone dell’aeroporto nonché all’esterno dello stesso, come dicevo in un brevissimo lasso di tempo, elemento che non fa escludere un’azione preventivamente organizzata e coadiuvata da elementi già presenti in aeroporto, potenzialmente di natura terroristica. Non sono stati risparmiati dalle aggressioni neanche membri del personale di soccorso giunto ad assistere i primi feriti. Attualmente l’intera zona circostante l’aeroporto è fuori controllo e le comunicazioni interrotte. Le autorità stanno ora provvedendo…
Il Direttore, dopo aver girato alcuni canali, si rende conto che la trasmissione del notiziario è a reti unificate.
“Santo cielo… Ma si può sapere che diamine sta accadendo? Cosa possiamo fare?” mi chiede, passandosi sempre più nervoso una mano tra i suoi pochi capelli e sistemandosi nuovamente gli occhiali. La sua fronte è umida di sudore.
“Aspettare, signor Direttore. Non ci rimane che aspettare…” gli rispondo.
Il boss annuisce, poi mi dice: “Borrelli mi dia una sigaretta per favore. Ho bisogno di fumare”.
“Senz’altro, signor Direttore” gli rispondo, mentre lo seguo fuori dall’ufficio, sul poggiolo che percorre tutte e quattro le mura del grande edificio e che affaccia sull’enorme sala del piano terra. Da quassù, le persone sono piccole come mosche. Intravedo anche il banco della recezione. Il via vai, come ogni giorno a quest’ora, è incessante e fluido. Da una sensazione di potenza enorme, stare quassù.
“Lei sa Borrelli quanto ho faticato e dannato per mettere in piedi tutto questo? Per dare lavoro a tutte quelle persone, per far si che questa società fiorisse? E’ per questo che ho vissuto tutta la vita, ed è a questo che ho dedicato tutta la mia vita. E’ per questo che ci tengo così tanto. Morirei, prima di veder andare a rotoli tutto. Perché questo è tutta la mia vita. E’ tutto ciò che ho…”
“La capisco bene Signor Direttore. Anche io mi sono dedicato anima e corpo alla sua azienda. Lei lo sa. Ed ha fatto un lavoro eccellente. Ogni suo dipendente come me è felice di lavorare per lei e per una società così seria ed importante. I suoi sforzi sono stati ampiamente ripagati. E vedrà che anche oggi tutto andrà per il meglio. Le autorità argineranno in breve le sommosse presso l’aeroporto e vedremo arrivare la delegazione cinese tra non molto”.
Ad un tratto, mentre converso con il boss, il mio occhio è attratto da qualcosa di anomalo. Proprio laggiù, nell’atrio circolare. Lì, dove le persone sembrano piccole come mosche, sta accadendo qualcosa di decisamente insolito: noto che tre o quattro individui vengono a contatto con altri. Seppure così lontano da loro, riesco a riconoscere facilmente delle colluttazioni. Non faccio in tempo a rendermene conto, che riconosco anche qualcosa di ben più terrificante: in coincidenza di quelle colluttazioni, scorgo del sangue.
Poi altre colluttazioni in zone diverse del piano terra. Altro sangue.

Sposto gli occhi in diverse zone di quel grande cerchio, velocemente, come fossero palle da pingpong: vedo sangue, sangue e sangue. Sangue che inizia a spargersi ovunque.
Mi volto terrificato verso il direttore, e lo vedo assorto nel suo smartphone, cercando non so quale numero dalla rubrica. Mi affretto ad attirare la sua attenzione: “Signor Direttore, signor Direttore… guardi laggiù. C’è qualcosa che non va”.
Lui, guardandomi con aria quasi sorpresa dalla mia agitazione, si volta verso l’atrio, riposiziona gli occhiali e rifà la stessa espressione di poco prima, quando si era affacciato alla finestra, per poi sbiancare e dire: “Ma che diamine… ma quello… ma quello è sangue!”.
In un nulla, la scena lì in basso assume le sembianze di un formicaio ad agosto: puntini neri che corrono freneticamente in ogni dove, urla di strazio e terrore iniziano a giungere fino al nostro piano, mentre un numero sempre più numeroso di quei puntini sono fermi in terra, in altrettante pozze di sangue. La struttura, avente pianta quadrata, permette di vedere cosa accade anche sui poggioli dei piani inferiori, ognuno dei quali proprio come il nostro percorre per tutto il quadrato le pareti. Noto a questo punto, con orrore indescrivibile, qualcosa che sarebbe stato decisamente meglio non vedere: dall’altra parte del palazzo, proprio al piano sotto il nostro, un soggetto completamente insanguinato abbranca una donna che conosco di vista, che comunque sapevo lavorare per la società. La azzanna voracemente al collo. Distinguo chiaramente la carne che le si strappa dalla parte, e la donna cadere in terra. Le vetrate trasparenti della ringhiera non nascondono il seguito di quell’orrore: il soggetto si china su di lei, le infila le mani nel ventre, dilaniandola in maniera barbara, e inizia a cibarsi delle sue interiora. Mentre mi domando se ciò che sto vedendo è reale, passo l’occhio veloce sugli altri poggioli dei piani inferiori. Mi avvedo così che il palazzo in un attimo ha assunto l’aspetto di un girone dell’inferno dantesco: ad ogni livello si stavano verificando quelle terribili scene. Sconvolto mi giro verso il direttore, avvedendomi che quella atroce ed incredibile strage non stava sfuggendo nemmeno a lui, il quale subito dopo tale tremenda visione chiude progressivamente gli occhi, si accascia sulle gambe prima che possa sorreggerlo, sbattendo con violenza la testa sul corrimano della ringhiera, per poi stramazzare al suolo, completamente svenuto.
Istintivamente volgo lo sguardo a destra e sinistra, forse per cercare aiuto. In quel momento noto che da due dei quattro varchi al piano, fuoriescono altrettante figure poco rassicuranti, molto simili ai carnefici dei piani di sotto. Hanno andamento claudicante, colorito cianotico, e sono imbrattati di sangue in maniera sconvolgente. Uno dei due al lato est del poggiolo si avvicina ad un uomo delle pulizie, che era impegnato a parlare concitatamente al cellulare con qualcuno. Lo afferra da tergo per i capelli, gli tira la testa indietro con secca violenza, facendogli cadere il cellulare di mano, giù, nel vuoto del palazzo, e gli sferra un morso in pieno volto. L’uomo aggredito tenta una reazione, prima colpendo l’aggressore con due forti pugni ben assestati al volto, uno con una mano, uno con l’altra. Ma questo non sortisce alcun effetto, e la presa non viene minimamente mollata. A questo punto i due si sbilanciano su un lato, battendo sul muro, e poi sull’altro. Entrambi giungono così a ridosso della ringhiera, dalla quale si sporgono a causa dello slancio, cadendo catapultati nel vuoto anche loro. Li seguo con lo sguardo, pietrificato, mentre cadono giù, per tutta l’altezza, fino a terra. Si schiantano al suolo. Alcuni altri soggetti accorrono verso i due. Mi accorgo subito che non è per soccorrerli: tutti iniziano a cibarsi in cerchio, come cani, dell’uomo delle pulizie, ignorando l’altro.
Mentre mi chiedo che senso abbia una tale follia, sento che i sensi stanno abbandonando anche me. Mi accorgo nel frattempo che di quei soggetti ambigui ora al piano ce ne sono diversi, ed altri continuano ad uscirne dai quattro varchi. E’ una vera e propria invasione. Ed alcuni iniziano a dirigersi lentamente verso di noi.
Scuoto il direttore, cercando disperatamente di farlo rinvenire. Invano. Mi guardo di nuovo attorno. Due di quei soggetti, uno da un lato e uno da un altro del poggiolo, seppure con passo incerto, si stanno avvicinando sempre più. Ora riesco a guardarli meglio. Il loro sguardo sembra ipnotizzato, ed emettono dei rantolii poco promettenti. Ognuno di loro è grondante di sangue. Faccio un ultimo disperato tentativo di risvegliare il capo, dandogli dei forti schiaffi al volto e scuotendolo con tutta la forza che ho. Nulla da fare. Quei tizi ora sono davvero vicini. Pericolosamente vicini. Troppo vicini. A quel punto sfilo il badge del direttore, che sapevo tenere nella tasca interna della sua giacca, e apro la porta elettronica dell’ufficio del boss. Mi ci infilo dentro, consapevole che mai e poi mai sarei riuscito a spostare la mole del boss per trascinarlo con me, e le porte si richiudono alle mie spalle. Poggio una mano sul tavolo, mentre respiro convulso e a fatica, cercando di razionalizzare ciò a cui stavo assistendo.
Tento di riprendermi. Quando i sensi sembrano sorreggermi maggiormente, provo ad affacciarmi da una delle finestrelle insonorizzate della porta. I soggetti che stavano raggiungendomi e guardandomi con sguardo per niente rassicurante, sono ora proprio dinanzi alla porta. Ne arrivano poi altri due. Noto uno di loro avere un’evidente frattura scomposta ed esposta ad un braccio, oltre ad un foro grosso come un piattino da caffè che lo attraversa da parte a parte sul tronco, all’altezza del petto. Nonostante questo, si muove ancora. E sembra non interessarsi minimamente delle sue condizioni. Tre di questi soggetti si chinano sul direttore, gli altri cercano lo spazio per fare lo stesso. Li vedo strappargli la carne con le mani, e cibarsene. Tutto ciò accade a una porta da me. Indietreggio terrificato e inorridito, perdo un fiotto di vomito. Nell’indietreggiare poi inciampo e crollo in terra, sbattendo su una delle sedie che mi trovo dietro. Scalpito, allontanandomi ancora dalla porta. In quel preciso momento, due di quei soggetti si affacciano alle finestrelle, uno per anta, e non appena mi vedono iniziano a battere i pugni proprio sulla porta, con l’ira degli indemoniati. Il terrore mi cristallizza il sangue nelle vene. I loro occhi sembrano spiritati. Dalle bocche di quegli individui grondano brandelli di carne e sangue. Ne sono impregnate anche le mani, ed in breve tempo i vetri antisfondamento delle finestrelle si colorano nello stesso macabro modo. So bene che ci vorrebbe perlomeno un ariete e probabilmente qualche ora per forzare o sfondare una porta come quella, ma il terrore mi divora comunque. L’unica mia via d’uscita ora è l’ascensore personale del direttore, accessibile da questa stanza e capace di raggiungere ogni piano dell’edificio. Mi guardo attorno, alla ricerca di qualcosa che potesse fornirmi una qualche difesa. Fogli di carta, quadretti, temperamatite e penne. Dannazione.
Poi mi viene in mente che il direttore era un amante del golf. Prendo una delle mazze che sapevo conservare in una borsa nel suo armadio personale. Prendo quella che ad occhio ed a mani mi pare la più grossa e pesante: ricordo che in una giornata al suo club nella quale mi aveva invitato ad accompagnarlo mi aveva spiegato che serviva per i tiri lunghi e di potenza. A chi ne è mai fottuto qualcosa… chi ha mai capito nulla di golf. Ma non potevo mostrare disinteresse al boss. Beh, se non altro quella noiosissima giornata oggi forse servirà a qualcosa.
Armato della mia mazza apro l’altra porta blindata che da all’ascensore, l’ultima via possibile che mi rimane per uscire di qui, mentre quei mostri continuano a battere sull’altra porta come degli ossessi.
Per la prima volta oggi avrei usato l’ascensore del boss. Avevo sempre agognato a farlo. Ma di certo non in una situazione simile.
Riorganizzo un attimo le idee, seppure le mie possibilità di scelta ora come ora sono davvero esigue. Penso quindi che tramite l’ascensore cercherò di raggiungere il piano terra, e che li troverò un’altra piccola stanza, chiusa da un’unica porta, anche quella blindata ed apribile solo con il badge del direttore. Se non altro, so che finché non uscirò da quella di porta, avrò la certezza che nessuno potrà toccarmi: il badge è uno. E ce l’ho io. Discendo i piani del palazzo: delle urla disperate ed il fracasso di fuori ancora penetrano nella tromba dell’elevatore, e sono udibili anche da qui dentro, annunciandomi l’orrore che mi attende.
Sto tremando. Poi l’ascensore finisce la sua corsa. Il solito campanello segna l’apertura delle porte. Porte che stavolta si aprono sull’inferno.
Come prevedibile, il varco blindato che mi separa dalla sala al piano terra si affaccia su un terribile, drammatico, incredibile scempio: corpi smembrati, mutilati e dilaniati giacciono ovunque. Il sangue ha imbrattato pavimento, muri, sedie e ogni oggetto d’arredo in maniera mostruosa. Il disordine degli arredi è il più totale. Ma soprattutto, di quei demoni arrivati solo Dio sa da dove, simili a quelli di sopra che avevano sbranato il direttore, qui ce ne sono a decine e decine. Hanno tutti lo stesso sguardo e la stessa andatura incerta. Alcuni si trascinano in terra. Ad altri mancano degli arti. Altri si stanno ancora cibando dei cadaveri in terra. Tutti sono lerci di sangue.

Mi accovaccio, nascondendomi dietro la porta. Inorridisco ancora una volta. Inizio a pensare a come potrò raggiungere l’uscita posta all’altro lato della sala dopo che avrò aperto la porta senza essere fatto a pezzi da quei pazzi. Poi mi viene in mente di chiamare Elisa. Vorrei sapere com’è la situazione da lei e se stanno bene. Tiro fuori il cellulare, ma vedo che il segnale è totalmente assente. Provo e riprovo: nulla da fare. Non c’è il minimo campo di rete. Inizio a preoccuparmi per loro. Infilo nuovamente il telefono in tasca, e do un altro sguardo dalla finestrella. Noto uno di quei soggetti vicinissimo, e mi rifugio nuovamente in basso. Sento dei lievi rumori al di la della porta. Guardo in altro, verso la finestrella, e vedo che quel soggetto sta guardando proprio all’interno della stanzetta dove mi trovo. Ha gli occhi coperti da un velo bianco, il viso dilaniato. Sembra uscito da un film horror. Non ho tempo per chiedermi ancora una volta cosa diamine stia accadendo. Cerco solo di occupare il minimo spazio, appiattendomi quanto più possibile alla zona bassa della porta. Dopo una ventina di secondi, che sembrano durare una vita, quello si allontana. Mi sporgo di nuovo, cautamente. E’ in quel momento che noto la Bergati, un’altra delle addette alla recezione, che disperata sbuca da una porta di servizio dove il personale delle pulizie riponeva i suoi materiali. Tutti quegli esseri, non appena aperta la porta, si voltano verso di lei. La Bergati inizia a correre scalza, terrorizzata e sconvolta. Corre, senza mai fermarsi, e ad ogni passo tenta di evitare di avvicinarsi ad ognuno di quei soggetti, facendo una sorta di gincana tra loro. Molti di loro, quelli a cui passa più vicino, protendono le braccia per agguantarla. Tuttavia nei vari tentativi di agguantarla qualcuno cade, altri non la raggiungono, altri ancora sono troppo lontani per afferrarla. La cosa che mi meraviglia è che nessuno di loro inizi a correre per raggiungerla. La seguono in massa, ma con passo lento. Concludo che per qualche ragione forse non sono in grado di correre. Giunta quasi alla fine della sala, tremo per lei: uno di quegli assassini, riverso a terra senza gambe, le riesce ad afferrarle una caviglia, facendola cadere. Subito dopo la inizia a tirare a se, spalancando la bocca e tentando di addentarla. La donna, nonostante la brutta caduta, riesce a sferrare due potenti calci sulla faccia del suo aggressore, a divincolarsi e a rialzarsi. Si guarda intorno, si tiene la testa: ora è quasi attorniata. Ma proprio quando temo il peggio per lei, ricomincia a camminare e a spostarsi. Riesce a schivare le prese di quelli che le sono più vicini e continua a correre. Riesce a raggiungere le vetrate infrante della porta d’uscita. Gli ultimi due demoni sono troppo lontani tra loro per braccarla: gli passa in mezzo. E’ fuori. Ce l’ha fatta. Continua a correre ed abbandona quest’inferno, sparendo in strada.
Tutti quei dannati ora sono rivolti verso la porta d’uscita, e si stanno avviando lentamente verso essa, probabilmente ancora attirati dalla fuga della Bergati. Tutti, tranne due o tre, che ricominciano a cibarsi delle interiora di alcuni cadaveri.
Inizio a pensare a tante cose, mentre temo che il cuore mi esploda da un momento all’altro. Continuo a chiedermi cosa stia accadendo, a come sia la situazione a casa mia, a come stiano mia moglie e mio figlio.
Inizio a pensare a come, ora, tutti i soldi del mio conto corrente non possano servire in alcun modo per tirarmi fuori da questa merda. Inizio a pensare alla morte. A cosa sarebbe stata, cosa sarebbe significata la mia vita se non uscirò vivo da quest’incubo. Inizio a sentire un desiderio irrefrenabile di tornare a casa, e riabbracciare mia moglie e mio figlio. Vorrei recuperare il tempo che ho perso non dedicandolo a loro. E mi accorgo di come la morte che ti bussa alla porta possa essere un fenomenale filtro visivo della vita: di come sia capace di evidenziare le cose davvero importanti.
Do un altro sguardo fuori dalla finestrella. La sala è molto più vuota di prima ora. Mi do coraggio. Penso che se ce l’ha fatta una ragazza scalza, disarmata e con la sala piena di quelle cose ad uscire, ce la posso fare benissimo anche io. Se non altro armato di una mazza da golf. E con le scarpe.
Respiro profondamente. Respiro di nuovo. Mi preparo. Infine infilo il badge: la porta suona e si apre.

Fine Prima Parte.

Le cose non si mettono per niente bene per il nostro amico. Come andrà a finire?

CONTINUA …

 

 

Simon REBEL


 

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