FANS

di Alessandro UNDICI


Premessa.
Non sono mai stato bravo con le parole, non sono mai stato un gran comunicatore. Per intenderci, sono uno di quelli da cui è meglio stare alla larga. Non ho mai avuto grosse difficoltà nel farmi rispettare, ne ho avute parecchie invece quando c’era da farsi accettare dai genitori delle mie ex. Insomma dai l’avrete capito, sono uno di quelli che non piace a tutti. Preferisco starmene per i fatti miei, sono un tipo abbastanza schivo, parecchio riservato. Se devo dirvela tutta, non mi sono mai preoccupato del giudizio della gente, bado più alla sostanza, poco mi interessa della forma. Amo solo una donna, la mia donna, colei che per sempre mi sarà fedele, l’unica di cui posso ciecamente fidarmi, lei è la mia inseparabile Monster. E’ una moto, una Ducati, anima italiana, aggressiva e difficile da tenere a bada… Proprio come me. Dopo questa lunga premessa è arrivato il momento di dirvi chi sono, mi chiamo Mark e sono un cacciatore, il cacciatore di zombie.

Come tutto ebbe inizio.

Era quasi l’ora di cena, stavo andando da Jeffrey’s, non il migliore hamburger della zona, ma le porzioni sono abbondanti e questo mi basta. Non vedevo l’ora di mettere qualcosa sotto ai denti, non che avessi fatto chissà che durante la giornata, ma fortunatamente l’appetito non mi è mai mancato, proprio per questo facevo sempre contenta la nonna.
La strada per arrivare al locale è sterrata, saranno circa 500 mt, interminabili per uno come me che odia andare piano. Lì da Jeffrey ho il mio solito posto, vicino alla tv, raramente lo trovo occupato, non è molto frequentato, aspetto che io trovo estremamente positivo poiché odio aspettare. Qua sono un cliente abituale, non dico di essere di casa ma poco ci manca. Il vecchio Jeffrey mi sta pure simpatico, ad occhio e croce avrà pure i suoi ottanta anni suonati, ma è molto più sveglio di tanti ragazzetti senza palle. E’ un tipo a posto insomma. A prendere l’ordinazione viene sempre lei: Katrine, biondina niente male con un passato turbolento alle spalle, due figli da mantenere, pulizie al motel di giorno, cameriera la sera. Che donna. Ricordo che quella sera ordinai del pollo, delle patate al forno e una pinta di birra. Mi misi comodo e ascoltai il notiziario, mentre aspettavo il mio turno. Da qualche giorno a quella parte non si faceva altro che parlare di un nuovo ceppo influenzale, non si sapeva bene cosa fosse. Pare sia partito tutto dall’Asia, maledetti cinesi pensavo. Mi accorsi che fino a pochi giorni prima quella notizia era tra le ultime del notiziario, quella sera invece, si parlava solo di quello. Sentivo due tipi al bancone dialogare e pronunciare frasi del tipo: “Secondo me questo virus è una nuova arma dei russi” e l’altro replicare: “Ma no è una bufala, vogliono terrorizzarci, fa tutto parte di una strategia del governo”. Fatto sta che il bilancio dei morti era salito a quota 5.000. Cinquemila musi gialli in meno pensai ed esclamai ad alta voce: “Finché sono loro a morire c’è poco da preoccuparsi” tutti risero. Cenai e dopo aver finito le mie due belle bionde tornai a casa. Di solito del tragitto del ritorno ricordo poco, udii però delle sirene in lontananza, ma non ci feci troppo caso in quel momento volevo solo infilarmi nel letto.
Erano circa le 06 del mattino quando fui svegliato, ma che dico svegliato, catapultato giù dal letto per colpa del rumore assordante di un elicottero che sorvolava insistentemente la mia zona. Girava in tondo da più di un’ ora, all’inizio cercai di non farci caso, ma era impossibile. Inutile elencarvi tutte le bestemmie che ho tirato giù non appena ho messo i piedi per terra, la mia sveglia è da sempre impostata alle 08 e nulla fino a quel momento aveva osato o quantomeno provato a farmi svegliare prima. Ricordo che non ebbi neanche il tempo di riprendermi da quell’insopportabile rumore di eliche che mi rimbombava nella testa che subito se ne aggiunse un altro. Questa volta però era un grido, acuto, straziante. Mi catapultai alla porta per capire cosa diavolo stesse succedendo e fu in quel preciso istante che realizzai che da quel momento in poi sarebbero stati letteralmente cazzi amari. Non dimenticherò mai quel momento, mai! C’era Kate, la mia vicina ed era per terra, gridava e si dimenava con tutte le sue forze. Non era sola, c’era un uomo sopra di lei che la stava aggredendo. Lei aveva i piedi rivolti verso di me, non riuscivo a vedere in faccia il tizio, poiché era seduto addosso a lei e mi dava le spalle mentre infieriva sul suo corpo. Rimasi inerme, impietrito davanti a quella scena, immobile per qualche secondo, lo ammetto. Dopo qualche istante però, realizzai la gravità della situazione e fu allora che afferrai la mazza da baseball e intimai all’uomo di lasciarla in pace, per ben due volte. Non ricevetti nessuna risposta e quindi lo colpii, un colpo solo, ben assestato, dritto alla nuca. Fece un rumore strano, quasi ovattato, non avevo mai colpito un cranio prima di quel momento, fu una sensazione stranissima, ma andava fatto, in cuor mio sapevo che quella era la cosa giusta da fare. L’aggressore si accasciò come un sasso e solo allora riuscii a guardarlo in faccia e realizzai che si trattava proprio di Frank …Il marito di Kate! Non potevo credere ai miei occhi, da lui non mi sarei mai lontanamente aspettato nulla di simile. Ora potrà anche sembrarvi una di quelle frasi fatte ma Frank, che ci crediate o no, era davvero una brava persona (fino a quel momento). Mi preoccupai poco per lui sinceramente, mi interessavano solo le condizioni di lei. Kate era inerme, in un lago di sangue, respirava ancora, ma perdeva troppo sangue. Le dissi le solite frasi di circostanza: “Stai calma” “Andrà tutto bene” “Sta arrivando l’ambulanza”. Rientrai in casa a chiamare i soccorsi, avevo le mani completamente sporche di sangue e sporcavo tutto ciò che toccavo, dalla porta d’ingresso al telefono di casa. Ero nel panico più totale, tremavo e il telefono non funzionava o forse le linee erano semplicemente tutte occupate, non vi saprei dire con certezza. Dopo un paio di vani tentativi decisi allora di caricare Kate sul mio pick-up, presi le chiavi e quando tornai da lei, dopo neanche due minuti, il suo corpo non c’era più, era letteralmente sparita. Urlai il suo nome per qualche minuto ed iniziai a cercarla ovunque nei dintorni, ma di lei non c’era traccia.
Fu così che l’incubo ebbe inizio.

Alessandro Undici


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