FANS

di Luca Pennati


GIORNO 12

Ore 2:25

Amy è morta, non si risveglierà…

Sarah se ne sta in un angolo, il viso affondato nelle mani.

Ho tentato di abbracciarla. Si è allontanata.

Il mio ottimismo è sotto due metri di terra. Morto insieme a questo schifo di vita se si può ancora chiamare così.

Siamo solo un’inutile resistenza, un’anomalia di questo nuovo corso.

La cosa che mi fa più incazzare è che ci è stata tolta la speranza. Noi vivevamo grazie alla speranza.

Ora non ha più senso.

Ho consultato la mappa con John. Seguiremo le indicazioni tracciate dai militari, sperando nella loro certezza. Comunque vada dovremo allontanarci dai centri urbani, più gente c’era prima e più non-morti ci sono ora, abbiamo avuto dimostrazione che non si spostano verso qualche luogo ma verso qualcuno non appena lo “sentono”.

Puoi disturbarli ma poi loro tornano al loro obiettivo principale: noi.

Oltretutto sembra che traggano giovamento dalla morte. A parte il primo momento in cui pare che la putrefazione prenda il sopravvento, come una sorta di accelerazione del decadimento corporeo soprattutto a livello esteriore.

Tuttavia, a distanza di una settimana abbondante dall’inizio dell’apocalisse, possiamo affermare che sembrano cristallizzati in quello stato. Il loro corpo in alcuni casi ne risulta addirittura rafforzato. Non tutti per fortuna, col cazzo che saremmo ancora in vita. È come se ci fossero dei gradi di una cosiddetta “contaminazione”.

Zombie più infetti degli altri come se fossero più maturi.

Su questo punto mi sto facendo un sacco di domande in effetti.

Da dove viene questo virus?

Innanzitutto è un virus? A prima vista direi di si!

Può essere stato prodotto dall’uomo? Chi sarebbe così pazzo?

Oppure può essere dovuto ad un’emissione di radiazioni? Boh. Tenderei ad escluderlo.

Perché noi non ne siamo stati irradiati?

Svilupperemmo la malattia a prescindere e non solo dopo morsi. Infatti per me non può essere, perché gli infetti TRASMETTONO il “virus”.

SE PER OGNI DOMANDA CHE MI SONO FATTO IN QUESTI ULTIMI GIORNI RICEVESSI UN DOLLARO SAREI L’UOMO VIVO PIU’ RICCO DI SEMPRE.

Purtroppo non saprei cosa farmene di tutti i soldi.

Domattina dovremo correre in fretta al pick-up. Saranno 200 metri. Dovremo avanzare formando un rombo stretto, a non più di un metro l’uno dall’altro.

Ognuno di noi dovrà controllare una parte del perimetro in modo da averlo sotto controllo a 360°.

Non so cosa troveremo.

Gli zaini sono sempre pronti, cibo ne abbiamo, le protezioni sono indossate (grazie muta che mi fai muovere leggero e protetto), le armi sono con il colpo in canna.

Speriamo che nel mezzo abbandonato ci siano le chiavi.

Sono un po’ perplesso. Certo in quattro non è semplice spostarsi; da solo sarebbe diverso ma impazzirei di certo. Vedremo.

John è più depresso di me e ha tirato fuori la bottiglia, me l’ha passata e mi sono riscaldato le budella, giusto per non fargliela bere tutta.

La radio è al solito.

Ho parlato con Sarah e si è lasciata andare ad uno sfogo liberatorio: ora, senza Amy, è sola al mondo. Mi ha spiegato che il giorno in cui tutto successe, suo padre era andato a prendere la sorella alla fermata dell’autobus. Tornava dall’università come tanti ragazzi a quell’ora. La fermata era ubicata davanti all’ospedale da dove partì il primo sciame. Erano riusciti a tornare a casa per un pelo ed erano sotto shock. Purtroppo il padre era stato ferito. Si erano chiesti cosa stesse succedendo e come tanti erano davanti alla TV. Il padre quella sera incominciò ad avvertire i primi sintomi, a barcollare, ad avere la nausea con forti tremori infine perse i sensi; tutto in una rapida e tremenda successione.

Quando morì non erano certo preparate al peggio e così successe che mentre Sarah era incollata davanti ai notiziari, quello che una volta era suo padre si ridestò avventandosi sulla prima persona che aveva trovato al suo fianco, sua madre.

Ormai non era più il buon padre di famiglia che le aveva cresciute, era un animale affamato.  La madre venne scaraventata giù per le scale rotolando ai piedi di Amy che era accorsa per vedere cosa stava succedendo. La faccia era un ammasso di membra dilaniate, il padre ai bordi del parapetto del piano superiore avanzava lento ed insanguinato.

Solo grazie alla prontezza di riflessi riuscì ad intercettare la sorella prima che cercasse di prestare dell’inutile aiuto e con l’orrore nel cuore scapparono in strada chiudendo a tripla mandata la porta di casa.

Alla fine si è lasciata andare ad un pianto dirotto. Ho visto angoscia infinita nei suoi occhi e ho capito che era anche la mia.

Usciremo tra qualche ora, con la luce del giorno, almeno saremo sicuri di vederli.

John si è svegliato ed è andato a controllare dall’alto del capannone. Mi ha detto che è ora di muoverci, la situazione fuori è calma.

Sono passate due ore, siamo in macchina.

Abbiamo fatto una corsa e siamo saliti a bordo, nel cassone dietro abbiamo scoperto dei mitragliatori e altri zaini. Si vede che erano troppo indaffarati a scappare.

John sta guidando, lentamente.

Abbiamo dovuto fare delle deviazioni perché la strada era ingombra di rottami. Dentro c’erano dei corpi carbonizzati. Si sente puzza di benzina, forse è stato usato un lanciafiamme? Abbiamo notato anche delle barricate, purtroppo deserte.

La guerra cittadina è il peggior scenario dove un soldato può essere spedito a combattere.

Tengo d’occhio la strada col mitragliatore pronto.  Questo dannato pick-up fa troppo casino. L’ideale sarebbe stata una macchina elettrica o almeno ibrida tipo una pryus, fino a 30 all’ora non fa neanche un rumorino.

Comunque abbiamo pensato che forse addentrandoci nella zona boscosa fuori città forse riusciremo ad avvicinarci abbastanza e almeno prima che capiscano che all’interno dell’auto non ci sono i loro uomini… ma dei sopravvissuti derelitti.

Siamo passati vicino al carcere, dalle grate, sporgevano in modo inquietante le mani pronte ad afferrare qualunque cosa. Era uno dei posti sicuri della mappa, ancora evidenziati in verde.

Ora non più.

Mi ero fatto la fantasia che una fortezza del genere sarebbe potuta essere perfetta per ripararsi. A patto che il virus non si fosse intrufolato tra le sue mura.

È più difficile uscire che entrare da certi posti.

Questo è quello che vedo:  morte e distruzione…

Due anni dopo.

Quello che è successo dopo che partimmo con l’auto lo posso riassumere ora. 

Ora che la pestilenza viene tenuta a bada. Ora che sappiamo di essere stati tutti contagiati dal virus trasportato dal vento. Ora che viviamo in standby aspettando il giorno della nostra morte, sperando di non ritornare perché qualcuno avrà fatto in tempo a neutralizzarci per sempre.

 

Riuscimmo di allontanarci dalla città senza particolari intoppi, eravamo ancora vivi per intenderci. Quindi ci inoltrammo lungo il sentiero seminascosto nel bosco. Evidentemente c’erano delle sentinelle di guardia perché trascorsi solo 500 metri di strada sterrata ci vennero incontro armati per bloccarci.

Ci fecero scendere, prelevarono i nostri effetti personali e le armi e ci fecero salire sui loro mezzi.

Il convoglio ci condusse a quella che sembrava il corpo centrale di un gruppo di case. In effetti sembrava un classico ranch. Da vicino si poteva capire che sotto la scorza anticata si celava una struttura molto moderna autosufficiente e dotata di tutti confort.

Ci passarono per la mente mille pensieri e soprattutto il dubbio se avessimo fatto bene a recarci in quel posto.

Fu allestito un comitato di accoglienza e vennero fatte le presentazioni.

Il Professor Ramsey che  era a capo dell’Organizzazione,  si definì specialista di progetto e ci accompagnò in una sala medica dove sostenemmo delle visite. Utilizzarono strumenti che allora non avevo mai visto e non ne immaginavo neanche l’uso. Non ci dissero mai i risultati ma comunque superammo i Test visto che siamo qui ora.

Ci spiegarono che eravamo i benvenuti considerato che delle braccia sane in più non avrebbero di certo dato fastidio. Ognuno di noi ebbe una stanza.

 

La prima cosa che pensai fu che erano troppo cordiali.

Velatamente tuttavia si capiva che non avremmo potuto lasciare quel luogo ma in quel momento l’alternativa ce lo faceva sembrare come la terra promessa quindi eravamo ben felici di essere lì.

Il giorno seguente il Prof. Ramsey invitò me e John al “campo”.

Il campo non era altro che un appezzamento di terreno sul quale erano adagiate in fila, uno a fianco all’altro, dei cadaveri.

Tanti cadaveri che facevano l’ultima cosa che avrei voluto vedergli fare: MUOVERSI. 

 

Ad un rapido calcolo potemmo contare almeno 10 file per 100 corpi ciascuna. 1000 fottuti non-morti.  Ai bordi c’era del personale in tuta NBC armato con pungoli elettrici. Anche se notammo che ogni non-morto era incatenato a terra, lo shock fu comunque totale. 

Guardammo il professore inorriditi. Non credevamo ai nostri occhi, lo ricordo ancora come se fosse ieri. Eravamo finiti dalla padella alla brace. 

“Ora stiamo cercando la cura” disse con occhi rassicuranti.  Poi continuò: “il nostro progetto iniziale era lo sviluppo di quello che si potrebbe definire “supersoldato” purtroppo una decina di giorni fa c’è stato un contrattempo…”.

I nostri sguardi parlavano per noi “ma in che luogo siamo?”

Ci accontentò con queste semplici parole:” Vi trovate nel luogo da dove tutto è partito: BENVENUTI ALLA FATTORIA DEI CORPI.”

 

Ricordo solo che dissi: OH MERDA…

 

THE END

Luca Pennati


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