FANS

di Massimiliano Foschi


Teheran
Palazzo della sede centrale del Vevak

Novembre 2017

 

I grandi corridoi sono deserti.

Il pulviscolo atmosferico è reso visibile dalla luce del crepuscolo che filtra attraverso gli alti finestroni.

Il rumore dei passi di Akmed rimbomba nel silenzio assoluto.

E’ stato convocato da Katthami con estrema urgenza.

Sa già di cosa si trattava.

E’ passato un mese dal l’operazione JoA.

Tutto era andato storto.

Il laboratorio era andato perduto con tutto il personale e le attrezzature. E, quel che è peggio, con tutti i campioni dell’ FDH 51, la nuova bio-arma che era costata tanto denaro e fatica.

Tutto perduto. Tutto finito.

Ma non è nemmeno questa la cosa peggiore.

Dopo la battaglia tra le forze speciali americane e i contractors russi, il laboratorio semidistrutto era stato abbandonato. Le porte spalancate durante una fuga precipitosa.

E loro erano usciti.

Outbreak lo chiamano gli americani.

Qui la chiamano Apocalisse.

Non importa il nome che gli volete dare.

I pazienti infetti superstiti, una volta fuori e senza controllo, hanno dilagato contagiando altri, che a loro volta hanno contagiato altri ancora in un crescendo esponenziale.

Sembra che nulla e nessuno riesca a fermarli.

Le poche notizie che giungono dalle zone centrali dell’Afghanistan e dal Waziristan in Pakistan parlano di orde di infetti che aggrediscono chiunque trovino sul loro cammino.

Le poche male addestrate ed equipaggiate forze regolari afgane e pakistane hanno abbandonato tutte le posizioni raggiunte dagli eserciti di zombie.

Ormai quelle zone sono totalmente fuori controllo.

Perdute.

E si teme che questo sia soltanto l’inizio.

Akmed bussa ad una pesante porta di ciliegio verde.

Entra nella grande sala. In fondo ad essa una scrivania.  Dietro la scrivania è seduto un uomo.

Quell’uomo è Katthami.

Akmed lo osserva per un attimo.  Sembra invecchiato di almeno dieci anni da quando è iniziato tutta questa storia.

Si ferma davanti a lui.

“Mi ha fatto chiamare signore?”

Katthami annuisce lentamente.

“Si mio fedele amico. Ci sono alcune importanti novità. Qualcuno è sopravvissuto”.

Lo sguardo di Akmed si fa improvvisamente più acuto. Più interessato.

“Lei si riferisce al laboratorio di Herat signore?”

“Esatto.  Pensavamo che fossero morti tutti e invece uno si è salvato”.

“Chi?”.

“Uno dei ricercatori.  Un tale Samir Bashad. Ma non solo lui. Anche un altra persona è riuscita a venirne fuori. Una persona che conosciamo molto bene”.

Pausa.

Per un istante i due uomini si guardano senza dire una parola. Poi è Akmed a parlare.

“Lei…”. La sua voce è un sibilo.  Quasi un sussurro.

Katthami annuisce.

“Si Akmed, proprio lei. Il sergente maggiore Wenona Borslav”.

“Maledetta puttana…”, sibila ancora Akmed.

Katthami continua.

“Pare che la Borslav abbia fatto il triplo gioco.  Ha tradito i suoi uomini e anche noi. Ha trafugato alcuni campioni dell’agente biologico FDH 51 per venderlo a una multinazionale cinese. O forse direttamente al governo cinese. Loro ovviamente negano tutto. Ma non è questo che conta. La cosa importante è che questo Samir Bashad l’ha seguita ed è riuscito ad avvertirci in tempo prima che lei attraversasse il confine. E tramite il nostro amico talebano, Omar Sha, siamo riusciti a bloccarla. E siamo riusciti anche a recuperare i campioni”.

Akmed sente un brivido che gli corre lungo tutta la spina dorsale.

“È fantastico signore.  Dove si trova adesso quella maledetta troia? Spero che Omar Sha non l’abbia già ammazzata perché avrei un immenso piacere ad occuparmene personalmente, Signore”.

Katthami sorride.  Per la prima volta dopo tanto tempo.

“È proprio per questo che ti ho mandato a chiamare Akmed. Non temere, la nostra amica è illesa. Viva e vegeta. Mi sono raccomandato con Omar Sha di trattarla bene fino al nostro arrivo. Valla a prendere, Akmed, valla a prendere e portamela qui. Viva. Sto preparando per lei qualcosa di speciale. La sua morte sarà uno spettacolo indimenticabile”.

Akmed si inchina rispettosamente e se ne va.

La sua prossima missione sarà la più bella di tutta la sua vita.

Da qualche parte nel deserto iraniano

 

Da lontano è una striscia di polvere in movimento. Rapido movimento. Si sta avvicinando ad alta velocità.

Piano piano inizia a prendere forma.

È un suv. Un grosso suv nero con i vetri oscurati.

Jabril getta a terra il mozzicone di sigaretta. Guarda Akmed.

“È lui? Il colonnello?”

“In persona”, annuisce Akmed, “è da tanto che aspetta questo momento. Non sarebbe mancato per nulla al mondo”.

Il suv si ferma inchiodando le ruote a pochi metri da loro sollevando una nuvola di polvere. Lo sportello dal lato destro del passeggero si apre.

Katthami scende agilmente.

Niente convenevoli contrariamente alle sue abitudini.  Viene subito al sodo.

“Akmed? ”

“È tutto pronto colonnello. Possiamo cominciare quando volete”.

“Prima la voglio vedere”.

“Come desiderate signore. Jabril, accompagna il colonnello Katthami dalla nostra ospite”.

“Seguitemi signore”, indica Jabril con deferenza.

I due uomini si dirigono verso una costruzione bassa, prefabbricata. Non ve ne sono altre lì intorno.  Soltanto sabbia e rocce.

Jabril apre la porta metallica e si fa da parte invitando il colonnello ad entrare.

“È qui dentro signore”.

Una ampio stanzone.  Immerso nella semioscurità. L’unica luce proveniente da una finestra posta sul lato ovest della costruzione.

Lo stanzone è vuoto.

Salvo che per una cosa.

Al centro vi è una sedia metallica.

E seduta sulla sedia una figura.

La figura è una donna. Indossa una sporca tuta mimetica delle forze speciali americane. Ai piedi gli anfibi impolverati.

È ammanettata alla sedia.

Katthami avanza a passo lento verso di lei. Le si ferma di fronte. I due si guardano.

È lei a rompere il silenzio per prima.

“Chi non muore si rivede, colonnello”.

Un sorriso sarcastico sulla sua faccia.

Katthami resta impassibile invece.  Il suo volto è una maschera di pietra.

“Ho pregato tanto Allah che succedesse Wenona. E lui, nella sua infinita saggezza, ha fatto si che io ti ritrovassi. Non smetterò di ringraziarlo per questo”.

“Va bene colonnello e adesso che il tuo Dio ha realizzato il tuo desiderio che intenzioni hai?”.

Adesso l’espressione di Wenona è seria.

“La mia intenzione è una sola, sergente Borslav: avere la mia vendetta. Farti pagare per il tuo tradimento. La cosa divertente è che anche i tuoi compatrioti americani ti cercano per lo stesso motivo, ma per tua sfortuna sono stato io a trovarti per primo”.

Wenona inizia s sentirsi profondamente a disagio adesso.

Quest’uomo sembra deciso. Non è così che immaginava la cosa. Deve convincerlo alla trattativa a tutti i costi.

“Ascolta, colonnello, ok diciamo che hai vinto tu. Mi hai catturata e hai anche recuperato i campioni dell’agente biologico FDH 51. Però esiste una possibilità.

Ti posso proporre un accordo”.

“Ti ascolto, Borslav. Parla”.

“Io ho il compratore. E lui tratta solo con me. Possiamo ancora concludere l’affare e dividire a metà.  Pensaci colonnello. Possiamo diventare ricchi e sparire”.

Wenona ha usato il tono più convincente.

Katthami sorride.

Non gli interessa il denaro. Non gli interessa alcun accordo con questa donna.

“Tu ancora non capisci. Per voi americani è sempre tutto e soltanto una questione di soldi. Io non sono come te, sergente Wenona Borslav. La mia ricompensa è l’averti ritrovata e vederti morire. E non parlo di una morte qualsiasi. Oh no, Wenona, non sarai così fortunata da aspettarti una pallottola nella nuca. Morirai male e molto lentamente”.

La sua voce adesso è come il sibilo di un serpente.

“Griderai per il dolore. Urlerai. E io riderò”.

Il volto di Wenona cambia.

La sua espressione ora non è più di arroganza ma di paura.

Il sergente Wenona Borslav, la più dura della squadra beta adesso ha paura.

Katthami si volta e se ne va. Si ferma un istante solo prima di uscire dallo stanzone spoglio.

“Un ultima cosa, Wenona. Urla pure quanto vuoi ma non chiedere pietà. Perchè non ne avrai”.

Fuori dal prefabbricato Jabril e Akmed stanno aspettando. Il colonnello li guarda.

“Procedete”.

La luce di un alba fredda illumina la scena.

Le rocce di un deserto di sassi sono lo sfondo naturale.

Una struttura metallica si erge verticale in controluce. C’è una specie di telaio.

All’interno del telaio vi è una persona.

Una donna.

Quella donna è il sergente maggiore Wenona Borslav.

E’ completamente nuda.

Il suo corpo forma una X.

E’ stata legata mani e piedi ai quattro angoli del telaio a pesanti bracciali di cuoio a loro volta collegati a un sistema di carrucole studiate apposta per mettere il corpo della malcapitata nella massima trazione possibile.

Katthami si avvicina a lei. La guarda. Osserva il suo splendido corpo tonico. La tensione mette in risalto le sue ossa. Tutte le costole sono così evidenti che le puoi contare. Così le ossa del bacino.

Le affonda un dito nel l’ombelico e lentamente risale lungo tutta la sua pancia dura e piatta come un tamburo.

“Potrei sventrarti come un maiale e vederti crepare con le budella di fuori. Ma sarebbe troppo poco per te. Quello avverrà alla fine. Prima di farlo voglio vederti soffrire”.

Wenona lo guarda terrorizzata.

“Katthami..ascolta…ti prego…”.

Il colonnello non le risponde nemmeno.

Si volta e si rivolge direttamente a Jabril, e a me.

I suoi occhi sono due fessure gelide.

“Scuoiatela viva”.

A quelle parole il sergente maggiore Wenona Borslav sembra perdere la ragione.

“No! Katthami questo no! Non puoi farlo! Non puoi farmi una cosa simile. Nooooo!!!”

Jabril annuisce con un cenno del capo e si avvicina alla donna, da dietro.

Si china in ginocchio.  Nella sua mano destra impugna un affilato coltello da filettatura.

Appoggia la punta della lama alla base della pianta del piede sinistro di Wenona ed inizia ad incidere.

“Uaaaaaaaaarrrrggggghhhh…!!!”

Un urlo disumano si perde nel deserto.

EPILOGO

Giustizia è stata fatta.

Il sergente maggiore Wenona Borslav è morta.

Ci sono volute più di due ore.

Jabril l’ha scuoiata viva.  Con sapienza e perizia le ha sfilato con il coltello e le mani tutta la pelle. Partendo dai piedi a risalire.

Wenona Borslav ha urlato.

Ha urlato come mai nessun altro in vita mia ho sentito urlare così in quel modo.  E, credetemi, in quindici anni di attività nei servizi segreti ne ho vista di gente che veniva torturata. Ma giuro non ho mai visto nulla di simile.

Due ore…quasi due ore, tanto ci ha impiegato Jabril a completare il lavoro.

Io e Katthami abbiamo guardato per tutto il tempo.

Lo ammetto, un paio di volte ho distolto lo sguardo.  Sebbene anche io odiassi quella donna con tutto me stesso è stato troppo anche per me.

Ma non per Katthami.

Lui è rimasto impassibile. Una sfinge.

Alla fine, quando l’americana era soltanto un ammasso sofferente di carne viva sanguinolenta ha ordinato a Jabril di aprirle la pancia.

Ho visto la matassa delle sue lunghissime budella srotolarsi fuori e cadere nella polvere sotto di lei.

Era ancora viva e cosciente. Anche con tutti gli intestini di fuori ha continuato a vivere per quasi venti minuti.

Poi, finalmente ha smesso di respirare.

Solo a quel punto Katthami si è girato e se ne andato soddisfatto.

Adesso, mentre scrivo queste memorie, anche lui è morto.

E’ stato morso da uno degli infetti.  Da uno zombie. Ora è diventato uno di loro.

Non ho potuto fare nulla per lui. Non ero lì quando è successo, quando l’orda dei morti è arrivata a Teheran.

No, io non c’ero. Ero a Londra in missione.

Ora devo andare.

Sono a Tel Aviv e collaboro con gli israeliani. Ormai non esistono più nemici. Ormai il nemico comune è uno solo: i morti viventi.

Dobbiamo organizzare l’ultima linea di difesa.

Loro stanno arrivando.

 

Akmed

Massimiliano Foschi


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