FANS

di Massimo Miranda


DAL DIARIO DELL’EX AGENTE DI POLIZIA MICHELE DI ROCCO.

LUGLIO 2014, ORE 12.

“La fila si allungava dritta, fino all’orizzonte: auto, camion, autobus, veicoli d’ogni tipo. Sul serio, vidi anche dei trattori, una betoniera. Dei cavalli. C’era persino un autocarro che si ricordava della seconda guerra mondiale con persone in piedi sul pianale.”

Il tratto dell’Appia di circa sei chilometri che collegava Caserta a Santa Maria Capua Vetere era impazzito. Il traffico era stato deviato dal casello autostradale Caserta Nord sulla destra, in direzione Capua, era quasi mezzogiorno e la temperatura segnava 40 gradi all’ombra. Sarebbe salita ancora, di lì a poco.

Informazioni non ne arrivavano.  Era tutto top-secret.  Sembrava fosse successo qualcosa sull’Asse mediano, ma altri parlavano di Castel Volturno, o forse Giugliano. Insomma, tutto risultava vago ed impreciso.

Si parlava dell’intervento in forze massicce dei militari, ma nessuno sapeva fornire informazioni più dettagliate. Le radio e i telegiornali non accennavano minimamente a quanto stava capitando in quella, questa zona. E i segnali radio cominciavano ad arrivare disturbati. Internet, zero.

Tra i servizi che ancora si ascoltavano, qualcuno parlò di un isolamento dovuto ad una imponente operazione antidroga, altri dello sversamento di materiale tossico e radioattivo dalle parti di Caivano, vicinissima al casello autostradale Caserta sud. Quel che era certo, è che tutto era diverso dal semplice schiattare quotidiano di quei luoghi. Qualcosa era successo durante la notte, e la gente viaggiava ora a strappi su qualsiasi cosa, a due e a quattro ruote.

“Mostri, morti…pezzi di carne, mostri affamati”.

Frammenti di frasi che facevano sorridere, sembrava un carnevale, uno scherzo. Poi però a guardar meglio quella gente vedevi la PAURA. Sembrava una di quelle vecchie foto in bianco e nero, e tutti erano simili ai deportati allo sbando pieni di traumi e risucchiati di vita.

Ai lati della strada, era straordinario quanta immondizia si era accumulata – in così breve tempo? c’era ogni tipo di porcheria – sacchi d’immondizia, scatole, borse, mobili? Di tutto. C’erano anche molte macchine vuote con le portiere aperte, abbandonate, così.

In una notte era successo tutto questo. Alcune vetture addirittura erano state ribaltate, su due ruote, altre erano senza gomme, sfasciate.

Io mi ero alzato tardi, quella mattina, era il mio giorno libero, e del giorno “prima” non sapevo niente, avevo spento tutto, avevo chiuso tutto, avevo “solo” paura per i cazzi miei, e m’ero preso una sbronza colossale per festeggiare l’ennesimo sollecito di non so che cazzo cosa, cosa chi, una multa, un debito, la morte, chissà.

Comunque. Dovevo cercare di risolvere entro quarantotto ore, la grande crisi mi aveva incasinato la vita e non avevo neanche più i soldi per la benzina in macchina, la macchina segnava rosso, assicurazioni, pagamenti, niente. Temporeggiare, procrastinare, affogare: del bonifico atteso, nessuna traccia.

Bloccate le carte, bloccata la vita, tutto bloccato. Anche la strada era bloccata. Ed io dovevo parlare con quello dei debiti assolutamente, prima che mi fucilassero.

Fu così che cominciò.

Vidi molte persone a piedi, camminavano in gruppi storti oppure isolati lungo i marciapiedi. Alcuni si muovevano tra le macchine, alcuni bussavano ai finestrini, erano gli extracomunitari dei semafori, magari poche ore prima offrivano cose, ventagli, accendini, merda eccetera. Ma tutto sembrava diverso, quegli occhi avevano visto qualcosa.

La mia nausea aumentava di minuto in minuto, la sera prima c’avevo dato dentro di brutto, i miei pensieri fluivano lenti. Ad un certo punto vidi alcune donne che si spogliavano. A mezzogiorno. Sull’Appia.

Sembrava che proponessero uno scambio, con ogni probabilità, per un passaggio.  O forse per avere della benzina. Molte piangevano. Alcune si strappavano feroci magliette e gonne e qualcuno disse: “Ma che cazzo sta succedendo?”

Le pompe di benzina erano chiuse, e presidiate da auto della polizia e dei carabinieri. C’erano anche veicoli dell’esercito agli incroci, più avanti.

“Che cazzo sta succedendo.”, ripetei meccanicamente. Non era possibile che le donne cercassero un passaggio, per andare dove, poi? A piedi erano tutti più veloci delle auto.

Più avanti, sembrava che qualcosa si muovesse. Sei chilometri, quattro paesi, migliaia di persone. Il sole continuò a picchiare forte, qualcuno tamponò la macchina che lo precedeva, qualcun altro uscì dalla sua e diede di stomaco.

Poi li vidi.

C’era una manciata di persone sdraiate su un lato della strada che si muovevano appena o erano del tutto immobili.

Ad un certo punto la gente cominciò a muoversi frenetica portandosi dietro la propria roba, in borsoni e buste di plastica, i bambini, semplicemente correndo, in direzione contraria al traffico verso Santa Maria.

Se c’erano stati degli ordini, qualcuno li stava interpretando male. Sembrava che quella gente stesse raggiungendo un punto di raccolta, ma forse qualcosa non aveva funzionato, altrimenti non si spiegava il perché di quei movimenti in direzioni opposte.

Ancora pochi metri e persi qualsiasi coordinata.

Quelle “creature” che vidi stavano sciamando tra le macchine. Sentii colpi d’arma da fuoco. Erano i militari a sparare? Qualcosa prese fuoco. Il cielo divenne carico di rosso e di fumo. Gli autisti sulle corsie esterne cercarono di sterzare fuori strada e si impantanarono bloccando quelli all’interno. Ormai le macchine andavano a zig zag. Molti non riuscirono ad aprire le portiere. Le auto si erano ammucchiate e incastrate, in un momento, di traverso, l’una contro l’altra.

E poi li vidi.

Quegli esseri infilavano le braccia nei finestrini aperti e tiravano fuori le persone o si infilavano loro stessi nell’abitacolo. Molti autisti erano intrappolati in macchina. Tenevano le portiere chiuse e con la sicura inserita, i finestrini sollevati avrebbero garantito la sicurezza del vetro?

Le creature non potevano entrare, i vivi non potevano uscire.

Le creature, i morti ritornati in vita, come seppi poi, cominciarono a tirare testate e pugni alle portiere ed ai vetri. Il sangue era ovunque.

Qualcuno si fece prendere dal panico e cominciò a sparare attraverso il parabrezza, doveva essere qualche agente di vigilanza privata, assolutamente non pratico nel maneggio delle armi.

Così facendo distrussero la loro unica protezione. Restando in macchina avrebbero potuto guadagnare un po’ di tempo, magari sarebbero anche riusciti a fuggire. Ma forse non c’era nessuna via di fuga, forse ci meritavamo solo una fine più rapida, così.

Vidi un rimorchio per cavalli attaccato ad un fuoristrada nella stretta corsia centrale. Oscillava all’impazzata, perché i cavalli erano ancora dentro. L’autista era morto o forse si stava trasformando in qualcosa d’altro.

Lo sciame di non-morti, quanti erano quando cominciai a vederli? 100, 200?, continuò a avanzare velocissimo, frenetico, le creature sembravano animali ferocissimi, tra le macchine, si aprirono letteralmente la strada a morsi lungo le file bloccate, con tutti quei poveri cristi che cercavano solo di scappare.

Erano creature orrende, stravolte, la pelle grigia, gli occhi bianchi con strisce di sangue a colare, la bava scivolava collosa dalle loro bocche.

Alcuni avevano a loro volta segni evidenti di morsi un po’ ovunque. Gole, petti lacerati, cosce, braccia, il sangue rappreso, e gli abiti simili a quelli dei reduci da un bombardamento al napalm. Polvere e odore di feci dappertutto.

Quel che più mi ossessiona del ricordo è che nessuno degli automobilisti poteva andare da nessuna parte. Eravamo in trappola.

Ad un certo punto i morti sbucarono anche alle nostre spalle, in quei sei paesi da 100.000 abitanti l’epidemia si era diffusa in un baleno. Probabilmente, ripeto, si stava organizzando una sorta di esodo ma chi era stato il genio a proporlo così, a cazzo di cane? L’altra ipotesi è che la gente volesse uscire da quel caos e si fosse infilata in un caos ancora più grande.

Cercai di visualizzare il tutto ancora una volta nitidamente, il sudore mi colava lungo la schiena e sulla fronte, cercai di immaginare come doveva essere, per i bambini, appiccicati paraurti contro paraurti, Dio, i cani che abbaiavano, ferocissimi e impauriti, sapendo ormai quel che stava per succedere e sperando che qualcuno riuscisse a trovare una via di fuga per tutti.

Non si salvò quasi nessuno.

I morti trasformarono i vivi mordendoli, azzannandoli, deturpandoli. La trasformazione dei vivi fu rapidissima. Il morso contagiava. Negli abitacoli i padri azzannarono i figli e i figli, viceversa.

“Padre, perdonaci.  E chiedi perdono. Dio”.

Io riuscii ad aprire lo sportello e cominciai a correre, inciampai, corsi ancora.

Uno di loro mi prese la caviglia da terra, scalciai, ed ebbi giusto il tempo, per un momento, di guardare in volto quell’essere che non aveva più nulla di umano. Né fuori, né dentro.

Mi chiamo MICHELE DI ROCCO, ho scritto queste pagine e siamo morti, nella migliore delle ipotesi, a meno che non succeda un miracolo, di quelli veri.

Non voglio diventare come loro.

Massimo Miranda


 

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