FANS

di Massimo Miranda


DAL DIARIO DELL’EX AGENTE DI POLIZIA MICHELE DI ROCCO, LUGLIO 2014.

Sono sicuro che molti soldati in quel momento pensarono ai loro familiari. A quello che stava succedendo magari in altre parti d’Italia. Era iniziato tutto nella Terra dei fuochi o forse il contagio era generale, Italia, Europa, mondo? Molti sicuramente pensarono di scappare immediatamente, lontano da lì.

La prima ondata li spazzò via tutti.

Il sangue e le fiamme avvolsero l’aria e la terra. Dietro, ci fu il movimento di nuove truppe, arrivate velocissime con elicotteri e mezzi militari. Forse erano già in preallarme da parecchio.

Davanti, il massacro. Pezzi di braccia e gambe, parti di corpi oscenamente mutilati.

Il caos, il sangue.

Qualcuno riprese per un po’ quello scempio, poi prevalse il silenzio. I notiziari davano notizie in diretta di quel che stava succedendo, e le espressioni erano del tipo: “L’Apocalisse, è la fine della nostra civiltà?”

Spesso si sentivano urla disumane in diretta, durante i collegamenti, e spesso venivano morsi i giornalisti che si trasformavano in zombi dopo pochi minuti.

Alle sei e tre quarti arrivò il supporto straniero.

La gente era già completamente fuori di testa. Chi sbarrava le porte di casa, chi rubava cibo, si sentì parlare di legge marziale immediata, da applicare feroce, sul posto.

C’era chi aveva iniziato a sparare a qualsiasi cosa si muovesse in modo strano. Le armi le avevano prese dai cadaveri (che sarebbero poi tornati in vita come zombi) di chi doveva proteggere i cittadini, e probabilmente fecero più vittime loro, con spari a cazzo ed incidenti d’auto anziché la prima ondata di morti viventi.

Quelli che gestirono la situazione, dopo la morte dei vari questore, prefetto, eccetera, pensarono che una grande, dura offensiva fosse un’ottima, definitiva idea. La strada che portava alla stazione era stata bloccata con i carri armati disposti su tre file, certo, gli zombi potevano infilarsi scavalcando i mezzi per poi sfondare lateralmente, ma in quel momento erano tutti convinti che il loro pensiero sarebbe stato semplicissimo. Andare in linea retta, non appena avessero visto carne umana.

Così fu.

Le nuove forze armate, gli americani, si attestarono velocissimi duecento metri dietro, prima della strada principale di Caserta, il Corso. La piazza, piazza Dante, sembrava il set di un film di fantascienza.

Gli americani come al solito volevano una vittoria schiacciante per la loro propaganda mondiale, sui mille e più canali, più internet, più tutto. Era recentissima la scoperta di microspie in sedi governative italiane e quella era l’occasione per giocare d’anticipo e per far capire quanto fosse importante “aiutare” i Paesi in difficoltà, intervenendo tempestivamente.

Ma le cose andarono storte al cento per cento.

Non era quello l’unico modo per organizzare una difesa. Il flusso di zombi portava i morti proprio dritto verso i militari. Quella era una strettoia naturale, ed era una buona idea, posizionarsi così. Ma fu l’unica buona idea di quel giorno, anche se a parziale scusante occorre ricordare la velocità degli avvenimenti.

In due giorni, la catastrofe.

Gli zombi sfondarono ogni difesa e diventarono sempre più numerosi, da Castel Volturno a Caserta.

La domanda è: perché i militari non si posizionarono anche sui tetti? C’erano degli edifici nei punti giusti per colpirli e la stessa Reggia consentiva una visione ampia sulla strada. I cecchini sarebbero stati completamente al sicuro dagli attacchi. Ogni piano dei palazzi aveva una buona vista sulla strada. Perché non c’era una squadra di cecchini dietro ogni finestra?

Si misero tutti in strada, dietro dei sacchi di sabbia. Si sprecò tanto di quel tempo e tante di quelle energie per preparare le postazioni di fuoco a terra. I soldati li misero giù in strada. Se avessero avuto tempo, avrebbero scavato anche delle trincee, risalendo al 1915. Ripari e nascondigli, così dissero i graduati. “Riparo significa protezione fisica”.

Protezione convenzionale da armi e artiglieria leggera e da ordigni sganciati dal cielo, però. E questo doveva far pensare al nemico che si stava per affrontare.

Ma gli zombi (potenza dei film americani, dopo un paio d’ore tutti cominciarono a chiamarli così, ma nessuno disse a chiare lettere che bisognava sparare loro in testa) non si erano mica dati agli attacchi aerei e ai conflitti a fuoco.

Sono sicuro che chiunque fosse al comando dovesse essere uno degli ultimi ritardati del cazzo rimasto chiuso in una stanzetta anonima a leggere le condizioni del tempo, bollettini meteo e traffico in autostrada.

In due ore nei pressi dei campetti adiacenti la Reggia, cercarono addirittura di scavare delle postazioni interrate per alcuni carri armati. I genieri le ricavarono direttamente con la dinamite, e questo non fece altro che terrorizzare ulteriormente i sopravvissuti di Caserta.

C’era di tutto, in quella piazza: carri armati e humvee con ogni tipo di armamento, dai calibro 50 ai nuovi mortai americani. Addirittura intravidi e chiesi se quelli fossero gli stinger terra aria montati sugli humvee: affermativo.

E per aria volteggiavano allegri anche i droni, per una buona morte invisibile. Peccato che dietro i droni vi fossero umani destinati ad essere morsi e contagiati in uno sputo di secondi.

C’erano anche degli XM5, veicoli per la guerra elettronica stracolmi di radar e di strumenti di disturbo del segnale.

Addirittura montarono le latrine in strada, quando l’acqua corrente e i bagni funzionavano ancora in tutti i palazzi e le case della zona.

Tante di quelle cose, inutili. Tanta di quella merda bloccava solo il traffico e faceva scena, ma forse il tutto serviva proprio soltanto a questo, a fare scena per i media.

Addirittura arrivarono giornalisti e telecamere per le riprese. Di solito per queste operazioni occorreva riserbo e risolutezza e invece, in quel giorno, in quel triste giorno, tutto divenne media, e quasi talk show. Ad ogni modo, gli zombi non avevano bisogno né di telecamere, né di microfoni e nemmeno di cipria sul naso.

Era solo FAME. Atavica, primordiale.

Il suono che veniva fuori da quelle gole, molte squarciate, era quanto meno terrorizzante.

I soldati ebbero l’ordine di aprire il fuoco, e una tempesta di missili e piombo di mitragliatrici si riversò sulla marea di morti viventi che avanzavano. Fuoco, fiamme, crateri. Il tutto, disordinatamente.

Gli zombi, a quel punto, erano migliaia e migliaia, e continuarono ad avanzare.

Gli uomini nelle postazioni, sudati, e coi nervi a pezzi, nonostante tutta la bella tecnologia inutile, in tenuta antisommossa, caschi e tute pesanti, cercarono di arginare la marea, ma non avevano le armi adatte. E per armi adatte intendo fucili di precisione, e chi li ricaricasse.

Furono travolti a morsi, sventrati, divorati.

Poi avvenne una cosa apparentemente assurda: il contagiò velocizzò sé stesso.

Il sangue sprizzò a fiotti. E in pochi secondi, come se il virus avesse capito che occorreva riprodursi velocemente per sopravvivere, i soldati rinacquero a loro volta. Chi veniva morso, investito da fluidi corporei, dal sangue al vomito, in pochi secondi si trasformò.

A quel punto fu chiaro che ognuno avrebbe pensato soltanto a sé stesso. Le cosiddette teste d’uovo, i cervelli pensanti dell’operazione, si ritirarono nella caserma in via Laviano, due chilometri dietro. Terrorizzati.

Qualcuno ipotizzò che il virus si adattasse alle situazioni. Era veloce, oppure più lento a seconda delle circostanze. Come se seguisse un pensiero logico, un’unica monade.

La città divenne il teatro di feroci scontri corpo a corpo con i morti, ed altri tornarono in …” vita”.  Molti, fra quelli che si divorarono, erano sangue del proprio sangue.

Non so in quanti si suicidarono, quel giorno.

Ancora non sapevo cosa fare. Ero stravolto.

Massimo Miranda


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