Racconti brevi

di Nicola Furia


Odio il Natale!

L’ho sempre odiato, anche da bambino. Mentre tutti i ragazzini della mia età aspettavano di scartare sotto un albero scintillante e luccicante magnifici regali infiocchettati e nuovi di zecca, io attendevo che mia madre mi restituisse i giocattoli che aveva fatto sparire due mesi prima.

“Se fai il bravo, Babbo Natale ti riporta i giocattoli che ti ha tolto” – mi diceva.

“Babbo Natale ladro e infame!” – pensavo, aprendo i pacchi confezionati rozzamente con la carta colorata del discount, ammucchiati disordinatamente sotto un alberello di plastica scolorito. Inevitabilmente trovavo all’interno gli stessi pupazzetti usurati e le stesse macchinine sgangherate con le quali giocavo da sempre.

“Vedi?” – mi diceva soddisfatta mia madre – “Le cose che hai, le apprezzi quando le perdi”.

La odiavo, ma, adesso che non è più in vita, lodo quell’escamotage inventato per farmi pesare meno l’indigenza nella quale trascorrevamo le nostre giornate in uno dei quartieri popolari di Roma.

Oggi, che vivo nel lusso, odio lo stesso il Natale, anzi lo odio più di prima.

Eccomi qui, come ogni anno, nel mio attico al centro della Capitale, circondato dagli affetti più cari. In realtà l’appartamento non è mio, nulla è mio in questa nuova vita, e gli “affetti più cari” sono un’orda di mostri odiosi, avidi, presuntuosi e irritanti.

Mia moglie è un mostro a tutti gli effetti. Non solo è grassa e flaccida, ma è anche brutta dentro. Un’isterica del cazzo che non perde occasione per urlarmi in faccia il suo disprezzo.

“Sei un buono a nulla, se non fosse per me dormiresti sotto i ponti, devi baciare dove cammino!”. Io non reagisco, anche perché ha pienamente ragione. L’ho sposata solo per i soldi. Ero un impiegatuccio precario e sfruttato come tutta la massa di morti viventi della mia generazione. Lei invece era la figlia del manager ultra stipendiato di uno dei tanti Enti inutili di Stato. Grazie alla mia bella presenza, l’unica cosa che Dio mi ha regalato, la feci innamorare riuscendo a portala all’altare. Che spettacolo il mio matrimonio! Una cerimonia sfarzosa alla quale quella povera donna di mia madre non poté partecipare.

“Ti rendi conto da solo che è impresentabile, vero?” – mi chiese mia suocera indaffarata nei preparativi delle nozze – “parteciperanno imprenditori, banchieri, alti ufficiali. Tutta la Roma bene sarà presente a questo evento” – continuò a dire distrattamente mentre sceglieva lussuose bomboniere – “diremo che è all’estero per un viaggio di affari, così non capiranno che nostra figlia sta sposando un pezzente” – concluse senza degnarmi di uno sguardo.

Io non reagii neanche quella volta. Volevo uscire a tutti i costi dalla povertà e per farlo avrei accettato qualsiasi umiliazione. Mia madre morì di crepacuore qualche mese dopo.

Eccola qui mia suocera, accomodata sulla poltrona come un regina impegnata a criticare gli addobbi natalizi e il servizio di porcellana che imbandisce la tavola. Ai suoi piedi c’è l’immancabile yorkshire, cotonato e antipatico come la sua padrona. Non mi fa mai mancare il suo ringhio stridente ogni volta che gli passo vicino.

Guardare mia suocera mentre sfoggia quell’insopportabile atteggiamento da radical chic, boriosa e snob, mi dà il tormento. Dice di essere di sinistra e vive nel lusso più sfrenato, sperperando soldi in acquisti inutili. Afferma di essere animalista e sfoggia pellicce di zibellini o ermellini scuoiati selvaggiamente dopo una vita trascorsa in lugubri gabbie esposte al vento e al gelo per stimolare la crescita del pelo. Dichiara di essere favorevole all’integrazione dei Rom, ma poi la sua guardia del corpo allontana malamente tutti gli zingari che le si avvicinano mendicando un elemosina. Dio quanto la odio!

Sul balcone, intento a guardare distrattamente il Colosseo e i fori imperiali, c’è mio suocero, il rampante manager di stato, oggi in pensione. Ovviamente parliamo di un vitalizio d’oro, che si va tra l’altro a sommare ad altre quattro pensioni privilegiate per altrettante poltrone inutili da lui ricoperte. “Lo Squalo” lo soprannominavano i suoi dipendenti quando era in servizio, non solo per i suoi occhietti di ghiaccio, ma soprattutto per il suo carattere insensibile, anaffettivo, freddo e cinico. Da quando ci conosciamo non mi ha mai rivolto la parola.

Oggi le redini dell’Azienda di Stato sono transitate nelle mani del figlio, anche lui immancabilmente presente qui oggi. E’ il classico figlio di papà, rozzo e ignorante come pochi. Per fare da contraltare alla madre, dichiara di essere fascista stigmatizzando ogni categoria di esseri viventi con l’appellativo “de merda”. Zingari de merda, negri de merda, froci de merda, centri sociali de merda …e così via.

– “Ah Ciccio!” – mi dice lanciandomi uno sguardo fugace – “sto liquore de merda ‘ndo cazzo l’hai rimediato alla Caritas?” – chiede tracannando il quinto bicchiere di whiskey.

– “Papà, voglio Babbo Natale! Sbrigati, vallo a chiamare!” – mi urla nelle orecchie mio figlio.

Mio figlio, l’ultimo componente della famiglia Adams. In realtà neanche lui è mio. Quando conobbi mia moglie era già in cinta di pochi mesi. Pare che sia stata brutalmente scopata da uno sconosciuto in uno dei locali notturni alla moda che all’epoca frequentava nella speranza di rimorchiare qualche vittima. Per scoparsi un cesso del genere doveva essere sicuramente ubriaco fino al midollo e strafatto di cocaina. Mio figlio, dicevo, è un ragazzino isterico e viziato. Anche lui, come tutto il resto del branco, mi comanda a bacchetta e, quando cerco di riprenderlo, mi chiude la bocca con la solita frase “zitto tu, che non conti un cazzo!”.

– “Non senti tuo figlio?” – mi riprende mia moglie con tono alterato – “Muovi quel culo e fai arrivare Babbo Natale!” – mi ordina perentoriamente.

So perfettamente cosa vogliono. Come ogni anno devo fare il pagliaccio mascherandomi da Babbo Natale, e potete capire che non c’è cosa peggiore per uno che odia il Natale come me. Ma non reagisco, non reagisco mai, adempiendo agli ordini come uno schiavo obbediente.

Prima di uscire di casa per recarmi sul pianerottolo dove ho riposto la barba finta e il costume in uno sgabuzzino, do un’occhiata veloce al telegiornale. Da stamattina stanno trasmettendo strane notizie riguardanti casi di aggressioni violente e, addirittura, di cannibalismo in tutta la Penisola. “L’invasione degli zombie è finalmente arrivata?” – mi ritrovo a pensare sorridendo.

– “Che cazzo te ridi? Stai a dà retta a sti giornalisti de merda? E daje che c’ho fame!” – afferma mio cognato buttando giù l’ennesimo bicchiere di liquore.

Rassegnato mi chiudo la porta di casa alle spalle e indosso il pacchiano costume rosso pronto per dare spettacolo. E’ a quel punto che l’ascensore che dà sul pianerottolo si spalanca all’improvviso. Faccio appena in tempo a riconoscere quel fricchettone del terzo piano che lui, con la bava alla bocca e gli occhi vitrei, mi si lancia addosso azzannandomi alla gola. Sento le carni lacerarsi e un fiotto di sangue caldo mi cola sul collo insinuandosi sotto ai vestiti. Con uno spintone lo lancio giù dalle scale vedendolo capitombolare rovinosamente nei gradini delle scale, fino a sparire nel pianerottolo sottostante.

Mi ha morso! Le dita esplorano freneticamente la voragine sanguinolenta che si è formata all’altezza della faringe, sfiorando i brandelli di carne che la contornano. La vista si annebbia e la pressione sale alle stelle. Inizio a tremare convulsamente digrignando i denti. Percepisco inequivocabilmente la metamorfosi che sta alterando la mente e la fisionomia. E poi la fame! Una fame improvvisa, incontrollabile. Dalle viscere sento montare una rabbia feroce che sale fino ad esplodermi nel cervello.  L’apocalisse è iniziata e io sto diventando uno zombie!  Tra breve non sarò più in grado di connettere, di gestire il mio corpo, di regolare i miei pensieri. In pochi minuti diventerò una marionetta e la morte muoverà i miei fili. Ripenso alle parole della buonanima di mia madre “le cose che hai le apprezzi quando le perdi”. Sarà così, ma neanche ora che sto perdendo la mia vita riesco ad apprezzarla. Ho poco tempo, devo sbrigarmi, devo andare in scena per l’ultimo spettacolo. Suono al campanello di casa.

– “Ammazza che Babbo Natale de merda!” – esclama mio cognato dopo aver aperto la porta di ingresso. Mi stanno fissando tutti inorriditi. Osservano ammutoliti i miei occhi bianchi e lattiginosi, la barba finta intrisa di sangue, l’incedere lento e barcollante.

Il primo a reagire è il cane. Con un balzo si lancia sul mio polpaccio mordendolo furiosamente. I suoi dentini aguzzi penetrano la carne senza provocare alcun dolore. Lo afferro e lo lancio giù dal balcone. Sento i suoi guaiti sempre più distanti mentre precipita giù dal decimo piano. Nella mia mente esplode uno scrosciante applauso immaginario. Faccio un inchino scoordinato per ringraziare il pubblico pagante.

– “Disgraziato! Che hai fatto!” –urla mia suocera continuando a fissare il punto del cornicione dove il cane è volato via. La afferro per i capelli e spiaccico la sua faccia al muro. Sbatto la sua testa cotonata sulla parete finché la scatola cranica non si frantuma, mettendo in mostra il suo nobile cervello sui cui affondo i miei artigli.

– “Brutto fijo de na mignotta!” – sento strillare alle spalle da mio cognato mentre percepisco una pressione tra le scapole. Mi volto rendendomi conto che mi ha trapassato lo sterno con lo spiedo del tacchino al forno. “Coglione!” – penso – “Ma non lo sai che per fermare uno zombie devi colpirlo in testa? Ma tu non sai neanche chi sia Romero. La tua cultura cinematografica si ferma ai cinepanettoni di Boldi e De Sica” – concludo abbrancandolo e trascinandolo verso di me in modo che la punta dello spiedo, che mi esce dal petto, affondi nel suo corpo. Mentre urla per il dolore gli strappo il naso con un morso.

Abbandono il suo corpo che stramazza a terra e mi dirigo claudicante verso mio suocero che mi guarda con gli occhietti strabuzzati. Neanche ora che gli sto strappando l’esofago a morsi mi rivolge la parola. Coerente fino alla fine.

Poi è la volta di quella stronza cicciona di mia moglie. Dovrebbe ringraziarmi, le sto eseguendo una liposuzione perfetta con svisceramento annesso.

Dove si è nascosto quello stronzetto di mio figlio? Vieni qui, a papà! Non volevi Babbo Natale? Lo trovo accovacciato dietro l’albero addobbato, riparato dietro alla montagna degli infiniti pacchi regalo a lui destinati. Solo quando gli addento le corde vocali termina finalmente di urlare.

Mentre ascolto la musica sempre più ovattata di Jingle Bells che proviene dal televisore, osservo estasiato il massacro compiuto. Tra le labbra impastate di sangue si forma un sorriso liberatorio.

Odio il Natale e sarò condannato a vagare per l’eternità con questo ridicolo costume addosso.

Odio il Natale, ma devo ammettere che quest’anno è stata una festa veramente spettacolare!

 

 

 

 

 Nicola Furia


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