Racconti brevi

18di Luca Pennati


Per la mia attività di psicologo del CPNS oggi incontrerò un reduce che mi è stato assegnato dalla Fondazione per i Sopravvissuti. Il mio compito è la valutazione del lavoro svolto a distanza di due anni dal suo reinserimento sociale. La Fondazione sta facendo un lavoro egregio. Oltre al recupero delle informazioni su quanto successe durante la Guerra Mondiale agli Zombie, ritiene di estrema importanza anche l’attività di sostegno alle persone che sopravvissero a quell’immane tragedia. In modo particolare è rivolto un occhio privilegiato ai reduci proprio per il ruolo vitale che ebbero nel garantire un futuro al genere umano.

 

Questa è la sua scheda:

Roberto Liverani, 40 anni, nato a Milano

Reduce. 5 anni sul fronte est.

Sposato con Magda, insegnante, non combattente. Professione attuale: imprenditore.

Riconoscimenti: Croce di ferro dei sopravvissuti.

Reinserimento: effettuato con revisione periodica biennale.

La segretaria mi avvisa che è arrivato puntuale. Nel frattempo che lo osservo dal mio monitor di servizio, come da protocollo, lo lascio attendere una ventina di minuti giusto per essere sicuri che il soggetto sia tranquillo. Nell’attesa tra le riviste a disposizione ha scelto un vecchio numero di Focus. Di tanto in tanto alza gli occhi verso la mia assistente. Non ha mai guardato l’orologio. Buon segno, il livello di ansia è adeguato. Lo posso far entrare.

 

“Buongiorno Sig. Liverani, si accomodi pure sulla poltrona, vuole un bicchier d’acqua? Grazie di essersi presentato all’appuntamento. Questa è la sua prima intervista di revisione a cui si sottopone da quando è stato reinserito. Dico bene? Voglio sperare che sarà una mera formalità”.

“Beh, più che un appuntamento si tratta di una prescrizione obbligatoria. Mi trovo qua perché sono abituato ad assolvere i miei doveri. Comunque grazie a lei della disponibilità, mi chieda ciò che vuole, non ho niente da nascondere.”

“Come si sente?”

“Ora sto bene!”

“Si rilassi pure. Mi dica, prima come si sentiva? Lei è consapevole che quando tornò dal fronte aveva degli scompensi psicologici da curare?”

“All’epoca non fu facile tornare a casa. Non percepivamo più la sensazione di avere una casa. Quando ci dissero che ci avrebbero riportato in patria non capivamo. Pensammo che la guerra era arrivata anche lì. In fin dei conti avevamo passato 5 anni di non vita per combattere i non morti. Riderei se ci fosse da ridere. Quindi continuavamo a pensare di non avere un futuro normale. Vivevamo con una previsione del tempo di 5 minuti. Ci era impossibile immaginare che la guerra potesse finire. Sembrava eterna.

Sta di fatto che ad un certo punto gli zombie finirono e noi tornammo. Non eravamo più noi però. Ci portavamo addosso costantemente il tanfo della morte e la rabbia dei vivi.

Tutti quanti, dopo così tanto tempo, ci sentivamo traditi da quello Stato che avevamo difeso perché non riuscivamo a dimenticare i momenti terribili e di puro orrore che avevamo vissuto e nessuno ci aiutava.

Purtroppo all’inizio non sapevano come trattarci. Appena rientrati in patria ci tennero all’interno delle caserme  che erano delle vere e proprie aree di quarantena. Ci dissero che lo facevano per il nostro bene. In realtà si preoccupavano per chi stava fuori. Eravamo troppo pericolosi a causa delle esperienze che avevamo vissuto. Per sanare la nostra anima avremmo dovuto ripulire il nostro corpo di tutte quelle schifezze che ci avevano propinato quotidianamente. Ci imbottirono quindi di psicofarmaci. Quei maledetti erano convinti che fosse la soluzione migliore. Si sbagliavano. Avremmo dovuto intraprendere da subito un percorso di riabilitazione psicologica. Invece successe che i primi che vennero rilasciati alla vita normale non erano del tutto sani. Accaddero quelle tragedie. Ricorda? C’erano stati dei reduci fuori di testa che avevano compiuto delle stragi per motivazioni stupidissime: dei vicini troppo rumorosi, un prezzo sbagliato al supermercato. Cose così. Non riuscivano a controllarsi. Erano delle armi a piede libero.

Per quanto mi riguarda c’impiegai almeno sei mesi di trattamenti per riacquistare una certa lucidità. Ad un certo punto capii di essere fuori dal tunnel quando mi resi conto che non avevo ancora chiesto che fine avesse fatto la mia famiglia. Prima non me ne importava. Scoprii che mia moglie era sopravvissuta all’interno del posto sicuro metropolitano. Mi sentivo l’uomo più felice del mondo ma la mia riabilitazione non era ancora compiuta.

Fui sollevato quando ricevetti la convocazione dal Centro Psicologico Nazionale per i Sopravvissuti. La somministrazione di psicofarmaci terminò e venni spedito a parlare col capo psicologo il Dott. Nardi il quale mi fece il test di Rorschach. Io vedevo solo ossa, cervelli e ossa. Quello mi metteva sotto il naso l’immagine di un orso sdraiato e io vedevo un teschio. Oppure femori. Erano immagini che non riuscivo a togliermi dalla testa.

Comunque li conosco quelli come lei, volete sentire delle risposte non LE risposte. Quindi anche lui ottenne quello che voleva: un reduce sulla via del recupero. Una pratica chiusa senza complicazioni.

Noi eravamo solo un numero da depennare su una lista”.

“Quindi mi sta dicendo che lei ha condizionato la valutazione obiettiva?”

“Le sto facendo capire che addomesticai da solo la bestia che era dentro di me. Tuttavia non scomparì e continuo a vederla, ogni mattina, nello specchio mentre si rade.

Ovviamente al termine dei colloqui il dott. Nardi mi confermò che soffrivo di stress post traumatico aggravato dallo shock da battaglia. I miei disturbi erano molteplici: flashback, evitamento e iperattivazione. Non è che avessi bisogno di sentirmelo dire. Me ne accorsi da solo. Speravo soltanto che riuscissero a darmi un po’ di sollievo per superare le mie ansie e paure. Non volevo essere un pericolo per la gente, anche perché se lo fossi stato non mi avrebbero fatto più uscire”.

 

“Mi parli della sua esperienza con il gruppo di parola”.

“Si, mi assegnarono ad un gruppo di auto-aiuto per reduci di guerra con difficoltà elaborative. In breve, mi ritrovai seduto in cerchio insieme ad altri 10 che avevano il mio stesso problema. Avevamo tutti uno sguardo spento. Difficilmente frequentavo i miei commilitoni durante la quarantena. Non volevo rivedermi in quegli occhi. Allora me ne stavo tutto il tempo in branda. Durante i gruppi invece dovevi per forza parlarci insieme. Fu tremendo. Non eravamo più abituati a socializzare in modo normale.

Ci guardavamo in faccia per delle mezz’ore intere e nessuno aveva voglia di parlare; allora interveniva il supervisore e sceglieva lui.

Ricordo la prima volta quando toccò a me: <Ciao, mi chiamo Roberto, ero Carabiniere della Terza compagnia meccanizzata del Battaglione Lombardia ho combattuto sul Fronte Est per 5 anni e non ho più ammazzato nessuno da quando sono tornato>.

In coro tutti riposero: <Ciao Roberto>.

Allora dissi: <in realtà avrei voluto ammazzare qualcuno ma ho preferito di no>. mi guardarono come se avessi detto una verità scomoda.

Il fatto era che provavo sensazioni strane; soffrivo certo, come tutti, però ero arrivato alla conclusione che il bisogno di dimenticare non fosse fondamentale. Ci avevo provato ma lo sforzo era nettamente maggiore alla gestione di una convivenza con certi pensieri.

Comunque il gruppo lo frequentai lo stesso per avere il certificato di riabilitazione e fu un’esperienza particolare. Alla fine non ero quello messo peggio infatti fui tra i  primi ad uscirne. C’erano certi che secondo me sono ancora lì”.

“Mi parli di loro. Di cosa parlavate nel gruppo?”

“Solitamente si parlava delle nostre emozioni, ma poi si cadeva inevitabilmente sui ricordi di guerra. Ci dissero che fosse un bene non tenersi dentro le cose, però i ricordi erano troppo vividi. Successe anche qualche fatto spiacevole. Una sera intervenne Toni, un ex Col Moschin, a cui mancava un braccio e fino ad allora non aveva mai parlato. Capimmo subito il motivo: balbettava. Emetteva un suono assurdo. Mentre parlava non poteva fare a meno di sbattere i denti. In un attimo gli saltarono addosso per farlo stare zitto. Piangeva perché sapeva a cosa somigliava quel rumore. Quasi lo ammazzarono. Erano tutti, ancora reattivi come in prima linea.

Purtroppo quel rumore era troppo un flashback emotivo. In guerra, sulla linea di tiro, i denti degli zombie sbattevano più forte dei colpi di fucile”.

“Cosa ricorda dei momenti di battaglia?”

“Tutto. Mi è impossibile dimenticare. Ricordo l’attesa, gli schieramenti sulla linea di fuoco, i tentativi d’incursione falliti. Le repentine fughe tra mille cadaveri ambulanti. Soprattutto i compagni morti e noi che ci sentivamo in colpa. Poi, l’odore della carne carbonizzata. A proposito sono diventato vegano nel frattempo. Odio la carne. Era uno dei sintomi da SPTG e me lo sono tenuto.

Ancora oggi, ogni volta che mi addormento sogno di ammazzare quei fottuti putrefatti. In guerra ne ho fatti fuori un botto. Ero bravo in quello. Infatti sono qui a rispondere alle sue domande.

Continuavamo a ripeterci: un uomo morto non ha paura della morte e ci stavamo avvicinando parecchio. La barriera che separava la vita e la morte era davvero sottilissima”.

“Di cosa si occupava sotto le armi?”

“Inizialmente ognuno aveva il proprio compito. Gli elicotteri ci portavano sul posto dove erano stati individuati dei focolai e noi facevamo piazza pulita. Utilizzavamo la classica strategia cerca e distruggi. Io ero esperto con il lanciafiamme, nella squadra ero quello che preparava il BBQ. Capisce perché non mi piace la carne adesso? Poi era il turno dei fucilieri che liquidavano la faccenda.

Purtroppo i focolai ben presto divennero orde e dopo maree mortali inarrestabili. I ruoli a quel punto non ebbero più senso. L’importante fu concentrarsi e sparare. Non dovevamo solo bloccare l’orda asiatica, dovevamo annientarla. Il Fronte Est fu il principale scenario apocalittico. Noi venimmo posizionati a 10 km di distanza, in attesa della testa dell’orda. Preparammo un restringimento di campo costruendo un imbuto con cordoni composti da container impilati come una muraglia. Tutt’intorno scavammo profonde trincee dove avevamo riversato le ultime provviste di gasolio. Eravamo pronti. Vorrei dirle che eravamo nati pronti ma non sarebbe vero. Nessuno può sentirsi a suo agio con un’emergenza di tali proporzioni. In realtà ce la stavamo facendo sotto.

Ho ancora davanti agli occhi quella scena. Li vedemmo arrivare a centinaia di migliaia. Per fortuna che il supporto aereo con i napalm ci diede una mano. Facevamo turni di quattro ore ciascuno. un colpo un centro questo era il motto. Eravamo addestrati a farlo e la concentrazione era alle stelle. Però … Cristo ci imbottivano di anfetamine, extasy e altra merda sintetica per mantenere la mente sveglia e adrenalinica.

Intanto intorno all’area del fronte erano posizionati gli allarmi perimetrali. Ogni tanto qualcuno scattava cosicché esplodevano i colpi delle guardie. Si trattava di non-morti sparsi. Quelli non rappresentavano un problema. Solo una volta un putrefatto riuscì chissà come ad aggirare la linea di sbarramento e s’introdusse fino alla mensa indisturbato. Il mio compagno di squadra Beppe venne morso mentre stava prendendo il rancio. Gli saltarono al collo in cinque. Due minuti dopo il problema fu risolto. Non scorderò mai gli occhi di Beppe mentre mi chiedeva di piantargli un proiettile in fronte. Sapeva di non avere scampo. Gli altri ci lasciarono soli e feci come mi aveva chiesto. L’umanità era l’unica cosa che contava. Ognuno di noi era perfettamente cosciente che se si voleva sopravvivere in mezzo a quello schifo morto bisognava intervenire subito”.

È ora di interrompere i ricordi. Ho sentito abbastanza

“Sig. Liverani, la devo interrompere. Senta, di cosa si occupa da quando è tornato alla vita civile?”

“Sono tornato a fare il bravo marito di Magda, viviamo appena fuori quella che all’epoca era la zona sicura ma lontano dalla caserma. Lavoro nella prevenzione. Insieme a degli ex commilitoni abbiamo fondato un’azienda. Ci occupiamo di mettere in sicurezza le camere mortuarie e i cimiteri. Predisponiamo tutto l’occorrente per evitare che qualcuno possa uscire. Un lavoro socialmente utile.

Abbiamo vinto diversi appalti con i Comuni della zona e le varie aziende ospedaliere. Sa come si dice: dopo le tasse l’unica cosa certa è la morte. E’ il ritorno dall’oltretomba, invece, che possiamo evitare e per il momento non ci sono state lamentele”.

“Grazie per il colloquio. Riceverà presto il responso. Purtroppo nel suo dossier dovrò scrivere che da come ne parla, lo shock da battaglia è ancora ben presente nella sua testa”.

“Senta, mi creda, vogliono farci dimenticare ciò che successe. Eppure, secondo me, credo che sia un bene se qualcuno si ricordi come abbiamo combattuto. Se dovesse succedere di nuovo almeno ci sarebbero delle fonti di esperienza a cui attingere.

Mi scusi se glielo chiedo, ma ho l’impressione di averle raccontato di più di quello che avessi intenzione di fare. Mi sembra di essere stato indotto a farlo”.

“Sig. Liverani, quando è entrato nel mio studio le ho offerto un bicchiere d’acqua. Dentro c’era il siero della verità. Quindi quello che mi ha raccontato corrisponde esattamente a ciò che pensa. Ora l’effetto sta svanendo. L’appuntamento si conclude qui”.

Bene il Liverani se n’è andato. Era un po’ stordito all’uscita ma credo che si riprenderà entro sera.

Il risultato della valutazione non potrebbe essere diverso: si consiglia una rivalutazione tra 2 anni. Data la reattività e la coscienza delle proprie attitudini, il soggetto entra a far parte della lista dei richiamabili in servizio attivo.

Avanti il prossimo.

Luca Pennati


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