non solo Zombie

di Anna Liguori


Dario aveva 25 anni. Aveva l’età d’intermezzo, l’età in cui sei ancora troppo giovane per le preoccupazioni, ma abbastanza grande per bere, drogarti, scopare.

Dario non era un eroe, pensava, arrancando nel buio del deposito abbandonato con la sua inseparabile accetta tra le mani. Il rivolo di sangue gli scorreva dalla fronte al naso, aveva sbattuto la testa contro un gancio che pendeva dalla parete.

Soprattutto, Dario non era un nome da eroe. Josh poteva essere un nome da eroe, Joy, Sam, Rick. Dario, un nome che non cresce mai, un nome da bambino ancora con le gote rossicce e la pastina che esce dal naso. “Fottuto nome del cazzo”, rise Dario, trattenendo un conato di vomito.

Quella mattina Dario si era svegliato con un saporaccio in bocca, del genere che non va via prima di sera, un misto tra vodka, gin, red bull che si era impadronito delle sue viscere e della sua memoria. Dario si era addormentato vestito, rincasato alle luci dell’alba, la macchina sfasciata. Suo padre, il saggio, colui che rispetta tutto e tutti, era uscito prima che si svegliasse per sbollire la potente e devastante arrabbiatura. Sua madre, la martire, un elettrodomestico umano, lo attendeva in cucina con mezzo litro di caffè.

Dario uscì dal retro e imboccò il viale a piedi. Non sapeva che non avrebbe più rivisto i suoi genitori, vivi. Per colazione caffè e nicotina al Bar del Centro. Al primo tiro di sigaretta, Dario sentì un dolore acuto al ventre, tossì. Non voleva tornare a casa, non aveva paura, ma qualcosa lo trattenne, si convinse solo dopo un’ora, quando ormai neppure le vecchie si mostravano con i loro fazzoletti da chiesa sulla testa.

Nel paese, paradiso della Brianza, nemmeno un’anima. Un giorno di primavera, afoso, pesante, dall’aria umida, come di morte. Dario sentì una lieve vertigine, qualcosa tornò su accompagnato dal caffè. “Che schifo”.

Davanti casa, distolse l’attenzione dal suo stomaco. La porta aperta, spalancata, inusuale. Sua madre si chiudeva a chiave, sempre, anche quando non era da sola. Qualcosa pietrificò i suoi arti, Dario sentì la spina dorsale bloccata, come se qualcuno l’avesse afferrata e non gli permettesse più di muoversi.

Due dei carabinieri di turno quella domenica, diedero di stomaco, uno diede le dimissioni. Il Maresciallo si ritrovò un ragazzo pallido, con gli occhi rossi e la testa bassa davanti la sua scrivania. Dario aveva 25 anni, ma piangeva come se ne avesse 5.

Le indagini non ebbero nessun risultato, l’assassino non aveva lasciato nessuna traccia, nessuna impronta, nulla. Solo corpi che non sembravano più persone, membra lacerate da colpi di mannaia, sangue che ricopriva le pareti della cucina, della camera, del corridoio.

“Non lasci la città”.

Dario non rientrò più in quella casa, riuscì a ricavare un buco abitabile nel garage, dormiva nella Station Wagon quando non aveva incubi, poi si rintanava in un angolo, con l’accetta in mano. Sentiva passi, respiri, presenze che lo facevano impazzire.

“Massacro in Brianza” si ricordò di aver letto da qualche parte, forse un giornale lasciato davanti casa. Non usciva ormai da settimane e le sigarette scarseggiavano, e il cibo, e la birra. Uscì una mattina di maggio, si era fatto la barba nel lavabo del giardino. Uscì senza guardarsi indietro. Si accorse di essere stato fuori dal mondo per troppo tempo, neanche il Maresciallo gli aveva fatto più visita. Un’atmosfera strana e lugubre investiva il paese. Non sentiva più nulla. Né parole, né vento, nessuna forma di vita. Dario sentì di essere solo. Una luce a neon illuminava il minimarket, ma dentro nessuno. Entrò, prese del latte, surgelati, sigarette e birra. Alla cassa, nessuno. In un’altra occasione, sarebbe scappato con la merce, ma in quel momento, un macabro pensiero gli balenò nella testa. La luce al Neon cominciò a contorcersi e a bisbigliare, Dario si girò di scatto verso il bagno, sotto la porta una luce filtrava dalla fessura, l’acqua scorreva forse da ore.

E Dario fuggì, con quel nome da bambino, terrorizzato, con le ali ai piedi. A scatti nella mente tuonavano le immagini, una testa spuntava dal lavandino, con l’acqua che scorreva, il sangue che divorava il pavimento del minimarket, delle pareti, della camera dei suoi, della cucina…

Dario non era al sicuro, qualcuno o qualcosa aspettava solo lui, tornò a casa e prese l’accetta.

Come finì in quel deposito non ricorda, come non ricordava di aver sbattuto la testa contro quel gancio. Si ricordò del caffè di sua madre, della vodka e della red bull che quella mattina gli galleggiavano nello stomaco, si ricordò del caffè preso al bar, si ricordò che non ricordava nulla. Di cosa avesse fatto nelle settimane successive all’omicidio dei suoi, non ne aveva alcuna idea. Camminò lungo il corridoio buio, pensando alla sua vita, pensando e ripensando a tutto ciò che aveva fatto, distrutto e creato per 25 anni. Pensò che non sarebbe più servito a nulla, pensò, pensò…Dario guardò l’accetta, si specchiò nella lama un attimo prima di essere fatto a pezzi.

Il maresciallo telefonò a casa di Dario una mattina di primavera, afosa, pesante, dall’aria umida. “Un brutto incidente, signora, mi spiace” Sua madre piangeva al suo capezzale. “Guida in stato di ebbrezza, lo abbiamo trovato schiantato contro il vecchio deposito abbandonato, una strage, insieme a lui altri 3 ragazzi”. Lesioni alla spina dorsale, commozione celebrale, una costola fratturata gli ha perforato un polmone. “Massacro in Brianza” sul giornale del giorno dopo. Suo padre, il saggio, sua madre, la martire, decisero di staccare la spina dopo tre settimane di stato vegetale.

 

Anna Liguori


 

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