non solo Zombie

di Michele Borgogni


É  un altro giorno sconosciuto di questo autunno che pare infinito. Oggi finalmente mi sono deciso, sento il bisogno di raccontare la mia storia a questo silenzio che pare eterno, nella speranza che qualcuno, da qualche parte, sia in ascolto.

Forse sono passati dei secoli. Era il 13 Novembre quando alle ore 7.30, come ogni mattina, mi alzai dal letto per andare al lavoro in ufficio. Fin dalla prima volta che l’avevo visitata, quella cittadina non mi era piaciuta;

era antica, buia ed opprimente, ma la paga che mi avevano offerto era quasi doppia rispetto a quella del mio impiego precedente, il lavoro meno faticoso e più gratificante, quindi non ascoltai le mie emozioni e accettai di buon grado il trasferimento. Evidentemente mi ero sbagliato.

La casa che mi era stata messa a disposizione si trovava solo a pochi chilometri dal centro abitato, un po’ isolata, immersa nel verde di un boschetto di alberi altissimi che avevano qualcosa di lugubre, forse a causa delle lunghe ombre che formavano quando il sole si abbassava sull’orizzonte, o forse perché sembravano essere l’unico rifugio rimasto per i pochi lupi e cani selvatici sopravvissuti nella regione, che nelle notti di luna piena facevano sentire forte la loro voce.

Per raggiungere il paese dovevo imboccare una stretta stradina sterrata, che seguendo un percorso tortuoso, portava al limitare del centro abitato; a poche centinaia di metri dall’ingresso del paese si trovava uno strano, vecchio, lungo ponte, sospeso sopra un profondo baratro, nel fondo del quale scorreva impetuoso un fiumiciattolo che per la maggior parte del suo percorso era sotterraneo, e che lì arrivava a vedere la luce. La poca luce che filtrava dagli alberi di quella zona sempre buia, perlomeno.

Ero interessato a sapere qualcosa di più di questa antica vestigia del passato, apparentemente l’unica ad essere sopravvissuta ai secoli, ma in paese nessuno sapeva o voleva dirmi quando fosse stato costruito e in generale la gente appariva restia a parlarmene. Eppure pareva antico, in altri luoghi avrebbero potuto farne oggetto di studi e chissà, sarebbe potuto divenire un richiamo turistico. “Visitate il Ponte dei Diavoli!”, e la gente sarebbe accorsa a frotte. Perché nella sua lugubre stranezza, nonostante il passare dei secoli vi avesse lasciato molti segni, il ponte attraeva il mio sguardo e mi appariva bellissimo, anche se mi dava i brividi e, forse, era proprio per questo. Lo stile di costruzione poteva sembrare gotico, ma qualche particolare che non riuscivo bene ad afferrare mi faceva pensare che fosse molto, molto più antico.

Due strane statue raffiguranti misteriosi esseri alati dal ghigno demoniaco stavano a guardia del ponte dalla parte della mia casa, mentre quelle nell’altra estremità non avevano evidentemente resistito al passare dei secoli, e ora solo pochi resti semidistrutti stavano a testimoniare della loro antica presenza. Al di sotto, nello strapiombo, il fiumiciattolo continuava senza sosta la sua corsa impetuosa, ma la cosa che più mi aveva colpito era la nebbia.

Certo è normale che in luoghi umidi come quello di cui sto parlando sia spesso presente una certa foschia, ma sopra quel ponte la visibilità era scarsa sia di giorno che di notte, d’estate e d’inverno, qualunque fossero le condizioni del tempo nella regione; inoltre bastava percorrere poche centinaia di metri perché la nebbia sparisse del tutto. Quella nebbia veniva fuori direttamente dalle viscere della terra, mi faceva stare male. Probabilmente era per questo che in città non si era mai fatto niente per valorizzare quella costruzione: ci voleva un notevole sforzo di volontà per fermarsi ad ammirare le statue, i fregi pregiati, la perfetta armonia delle forme… persino io, che mi ero abituato in quei lunghi mesi di vita solitaria, certe volte facevo fatica a non schiacciare il pedale dell’acceleratore per lasciarmi alle spalle una volta per tutte la casa, il bosco, il ponte.

Quel giorno, comunque, mi feci una doccia, preparai una bella colazione e mi diressi fuori verso la mia vecchia auto, senza quasi notare che già intorno alla mia abitazione era presente una certa foschia. Sembrava una mattina come le altre, anche se dopo neanche un chilometro fui costretto ad accendere i fari antinebbia, e arrivato nei pressi del ponte la visibilità era ridotta a meno di una trentina di metri, tanto che pur conoscendo la strada a memoria procedevo a passo d’uomo, in attesa di sentire davanti a me il familiare rumore dell’acqua che scorreva.

Uscito da una curva stretta quasi mi spaventai nel trovarmi di fronte due volti diabolici che mi guardavano e mi ghignavano contro, e se possibile rallentai ulteriormente; poi mi ricordai delle due statue: avevo già notato che lo strano materiale con il quale erano state costruite sembrava emergere in mezzo alla nebbia, ma quella mattina il ghigno sembrava più vero, più rivolto verso di me, e la visibilità come se non bastasse si era ancor più ridotta. Mi feci coraggio pensando che da lì fino all’incrocio la strada sarebbe stata completamente diritta, così ingranai la seconda. Ma perché c’era tanto silenzio?

Passai di fianco alle due statue cercando di non guardarle direttamente, ma mi sembrò che queste mi seguissero con lo sguardo; non ci feci comunque quasi caso, perché il mondo sembrò sparire, come inghiottito dalla nebbia, e ora riuscivo a malapena a vedere il cofano della mia macchina. Spensi il motore e mi voltai indietro: anche le statue sembravano essere scomparse, e tutto sembrava, se possibile, divenire ancora più bianco. Cercai di tranquillizzarmi pensando che fosse solo un’illusione, ma sentii arrivarmi il cuore in gola quando mi accorsi che la nebbia pareva entrare dentro l’auto.

Non respiravo più, mi feci cogliere dal panico e scesi dalla macchina. Chiusi la portiera e iniziai a seguire l’auto a tastoni: non riuscivo a vederla, ma avere il conforto di almeno un senso mi dava sicurezza in mezzo a quel silenzio e quel biancore innaturali. Poi feci un gesto che mi fece perdere definitivamente ogni contatto con la realtà: sapevo che ai lati del ponte c’erano due alti parapetti, ricoperti di quei fregi inquietanti che potevano essere simboli magici, geroglifici o semplici decorazioni, e che in larghezza non permetteva il passaggio di due auto. Pensai che avrei potuto seguire il ponte) fino al suo termine, e che poi probabilmente la nebbia sarebbe diminuita, permettendomi di arrivare fino in paese a piedi. Pensai che sarebbe stato più sicuro così. Avrei abbandonato lì la macchina, ma comunque raramente auto che non erano la mia transitavano per quella strada, e avrei potuto chiedere a qualcuno in paese di segnalare il pericolo, o magari chiamare un carro attrezzi per farmela portare via. Così feci due passi verso sinistra, perdendo quindi il contatto con l’auto, senza però trovare quello con il ponte. Ne feci altri due, e altri due, e altri due ancora, ma il parapetto non si trovava. Cercai di mantenere la calma e tornai indietro, feci una ventina di passi senza tuttavia riuscire a toccare la macchina o null’altro.

Credo fu in quel momento che impazzii, che iniziai a gridare cose senza senso e a correre all’impazzata, prima in una direzione e poi nell’altra. Non so quanto tempo ho trascorso in questo modo, ma col passare dei minuti, molto lentamente, mi sembrò che i miei sensi iniziassero a intorpidirsi: il mio cervello mi diceva che continuavo a correre e ad urlare, ma non avvertivo più nelle gambe il contatto con il terreno, e nelle orecchie avevo solo l’orribile frastuono del silenzio. Alzai una mano davanti al viso, cercando di interrompere per un istante l’incessante monotonia del bianco, ma non riuscivo a vedere neanche quella, neanche ad un centimetro dai miei occhi. Provai a toccarmi gli occhi, non capivo se le mie palpebre erano alzate o abbassate, non riuscivo a fare neanche questo. La mia mano passava attraverso il mio volto, e io non sentivo nulla, oppure… che fine aveva fatto il mio corpo? Allora, solo allora ho iniziato a capire, e mi sono rassegnato.

Non so quanto tempo sia passato da quel momento. Secoli, forse. Passo lunghe giornate a riflettere sulla mia condizione e ad ascoltare la mia mente, a sforzare l’involucro vuoto dei miei sensi nella speranza di scoprire qualcosa di nuovo. Ma il mondo è sempre bianco, e c’è sempre e solo silenzio. Ho pensato di essere  impazzito, o in coma, forse sono solo nel mio letto e sto sognando, ma dentro di me so che la verità è un’altra. Sono diventato nebbia, non c’è altra spiegazione. Sono nebbia, solo nebbia, e con altri come me aleggio sopra il ponte, in attesa di una salvezza o della fine dei tempi. E da qui, da questo mio invisibile palcoscenico, continuo a urlare in silenzio la mia storia, sperando che là fuori, dove esistono i colori, ci sia qualcuno capace di interpretare la voce della nebbia.

 

Michele Borgogni


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