Racconti brevi

di Nicola Furia


 

Sono un cazzo di asociale. Lo sono sempre stato, non è certo l’apocalisse che mi ha trasformato.
Sin da quando ho cognizione, ho manifestato un intenso fastidio per i miei simili. Non è solo la petulanza e imbecillità che mi nausea, ma la loro semplice presenza, l’odore, il calore, il volume che mi priva di spazi vitali e libertà.
No, non sono depresso, né soffro di agorafobia. Odio il genere umano, tutto qui.
Il mio libro preferito è Robinson Crusoe di Daniel Defoe. Lo lessi da adolescente andando in estasi per quei capitoli in cui il protagonista si ritrovava solo in un’isola deserta. Lo invidiavo non condividendone la sofferenza per la solitudine, disprezzavo l’incapacità di comprendere che quello era il paradiso e non l’inferno.
Non mi piacciono gli uomini, le donne e neanche i bambini…soprattutto i bambini. Non ho mai allacciato né amicizie, né tantomeno relazioni sentimentali. Ho sfogato i miei istinti sessuali quasi sempre in beata solitudine. Ho provato ad andare con prostitute, ma il fastidio di intrattenere con loro quella minima interazione operativa (quanto vuoi? dove andiamo? devo riaccompagnarti?) era negativamente superiore al piacere dell’orgasmo.
Sto bene con me stesso e non ho bisogno di alcuno. L’unica compagnia che sopporto è quella discreta e silenziosa dei cani. Non ho mai amato neanche i miei genitori, forse sono stati proprio loro a ingenerami il disgusto per la sporca umanità chiassosa.
Sono un un cazzo di asociale, ma sono anche un uomo fortunato. Al compimento dei miei diciotto anni, madre e padre mi hanno liberato della loro ingombrante presenza, finendo entrambi con la macchina in fondo a un dirupo. Oltre a spazi sconfinati di libertà, mi hanno anche lasciato in eredità un conto in banca che mi ha garantito l’autosufficienza economica e, soprattutto, una villa in campagna, isolata dal resto del mondo. Cosa potevo sperare di più? Avevo la mia isola deserta, ero diventato Robinson Crusoe.
Non ho certo aspettato la resurrezione dei morti per rendere quella villa una fortezza inaccessibile. Prima del loro apparire mi ero già chiuso all’interno dei possedimenti erigendo cancelli, recinzioni e barricate varie, per tenere lontano gli umani. Ho arato il terreno e l’ho coltivato, ho costruito capienti stalle e ho allevato animali. Insomma, quando scoppiò la fine del mondo ero già isolato, protetto e autarchico. Ve l’ho detto, sono un asociale fortunato.
E fortunato lo fui anche quando il virus si diffuse e i morti camminarono. Era uno di quei rari giorni i cui sortivo fuori dal mio bucolico bunker per recarmi in paese a fare rifornimenti. Vidi la pazzia esplodere tra le strade del borgo e subii anche un‘aggressione da uno di questi mostri. Riuscii a divincolarmi e tornai di corsa a casa ferito. Per un attimo credetti di essere stato morso, invece si trattava di una ferita accidentale.
La fortuna mi aveva assistito ancora una volta.
La mia vita non è cambiata di molto da quel giorno. Come ogni mattina mi sveglio, lavo le mie membra, le vesto e calzo il mio cappello di paglia, esco di casa e controllo l’orto. Gli ortaggi crescono rigogliosi. Devo decidermi a estirpare le erbacce che stanno invadendo i solchi. Poi mi reco nelle stalle sempre seguito dai miei cani. Da un po’ di tempo sono irrequieti, mi abbaiano contro come a volermi segnalare un pericolo imminente. Qualunque sia non mi spaventa, nessun essere vivente, vivo o morto che sia, può entrare indisturbato. I maiali appena mi vedono lanciano grugniti penetranti, le oche starnazzano isteriche e le galline sbattono le ali freneticamente. Hanno ragione, devo dargli da mangiare. Lo farò nel pomeriggio. Non ho fretta. La mia vita scorre lenta e silenziosa. Il mondo può anche estinguersi, non mi interessa. Io sono Robinson che non teme la solitudine.
Ogni tanto, però, vengo assalito da un’ansia confusa che mi induce a uscire. Mi ritrovo immobile e perplesso davanti al cancello di ingresso e vorrei varcarlo, recarmi di nuovo in paese, cercare qualche sopravvissuto. Non capisco perché mi accada. Non voglio compagnia, non sento la necessità di parlare con qualcuno. Forse è solo la voglia di osservare il mondo distrutto, finalmente spazzato via per sempre con tutta la feccia della razza umana…

 

 


 

 

«Eccolo, lo vedi?», chiese Luca puntando il fucile di precisione e cercando di inquadrare nel mirino del cannocchiale la testa dell’essere che osservava.
«Sì, puntuale come al solito», rispose Luca sottovoce, sdraiato accanto al tiratore.
Entrambi si erano acquattati tra la vegetazione che ricopriva l’altura dalla quale osservavano le campagne circostanti.
«Oramai sono giorni che lo teniamo sotto controllo», continuò Luca, «possiamo essere sicuri che oltre a lui non c’è nessuno».
«Certo che è impressionante», commentò l’uomo con il fucile.
«Cosa?», chiese Luca controllando per l’ennesima volta che l’area circostante fosse deserta e nessun morto vivente si avvicinasse di soppiatto alle spalle.
«La ripetitività dei comportamenti degli zombie», rispose il cecchino. «Guarda quello per esempio. Ogni mattina alla stessa ora esce di casa con quel ridicolo cappello di paglia in testa, controlla l’orto pur sapendo che non potrà mai cibarsi di ortaggi, va nelle stalle, dove quei poveri animali stanno morendo di fame, e poi torna a casa. Ogni giorno gli stessi movimenti. L’ho già visto fare ad altri morti viventi, ripetono all’infinito le stesse cose che facevano da vivi, come se ricordassero la vita precedente».
«Non mi interessa la fisiologia dei risorti», disse bruscamente Luca, «mi interessa solo che abbiamo trovato un ottimo rifugio. Il migliore nel quale potevamo imbatterci. E’ difeso da mura e solide recinzioni e gli alimenti non mancano. Una bella botta di culo! Spara a quella testa marcia e facciamola finita».
«Ecco, devo solo aspettare che, come ogni volta, si porti al cancello di ingresso. Lì la visuale è ottima e non posso sbagliare, anche perché rimane fermo per ore».
«Visto che sei esperto di zombie, come mai, secondo te, si comporta così?»
«Ma è chiaro! Sente il bisogno di cibarsi di carne umana, ma non può uscire dal cancello chiuso. Deve essere morto da solo lì dentro e poi risorto, rimanendo così prigioniero in casa sua».
«Ecco, ci siamo, spara!», ordinò Luca.
Dopo pochi secondi una secca deflagrazione rimbombò tra le valli. La testa dello zombie si aprì come un melone e quel ridicolo cappello di paglia svolazzò per qualche attimo nell’aria prima di planare a poca distanza dal corpo inerme.
«Dai, sbrighiamoci prima che lo sparo attiri altri morti», fece Luca alzandosi repentinamente e avviandosi verso la recinzione.
«Deve essere triste morire da soli, ma gli zombie non hanno sentimenti», commentò il tiratore seguendolo.
«Neanche certi uomini», rispose Luca.

 

 

Nicola Furia


 

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