Racconti brevi

di Igor Zanchelli


 

Ero in viaggio verso l’oasi di Bologna. I sopravvissuti erano riusciti a bonificare molte tra le più grandi città italiane e le principali vie di comunicazione tra di esse. Si tentava lentamente di ripulire tutto il territorio che tempo addietro era identificato, sulle carte geografiche, come la nazione chiamata Italia.

Lungo queste arterie, sullo schema delle vecchie case cantoniere, erano sorte  fortificazioni che da un lato permettevano di mantenere sgombri dai morti viventi i tratti di competenza, dall’altro offrivano rifugio ai viaggiatori che, per una ragione o un’altra, necessitassero di spostarsi tra le oasi. La difesa di queste fortezze era assegnata ai Capitani, veterani ormai in “pensione” che si erano distinti nelle battaglie con gli zombie.

Viaggiavo sull’autostrada buia e deserta con i finestrini aperti. Un’imprudenza, ma non avrei rinunciato per nulla al mondo al fresco vento che mi accarezzava i capelli. Sebbene l’attività di bonifica sulla vecchia Autostrada del Sole fosse praticamente quotidiana, non di rado qualche vagante si incontrava lungo la via. Chiunque avvistasse zombie era tenuto ad abbatterli.

Mentre scrutavo il buio, un odore mi pervase. Era una fragranza calda e familiare. Era odore di colitas, che nel nuovo slang dei ragazzi post apocalisse voleva dire marjuana. Inutile sottolineare che in questa nuova era, il consumo di droghe, in particolare quelle che si riuscivano a coltivare o quella merda chimica che si riusciva a produrre in laboratori di fortuna e con pochi mezzi, aveva subito un’impennata pazzesca. Stordire i sensi e farsi viaggi sballati aiutava a sopportare meglio questa nuova realtà. Il tutto era tollerato dalle autorità: più conveniente mandare al macello ragazzi strafatti piuttosto che soldati presenti a loro stessi. Si era estremizzato il concetto che in gergo militare si attribuisce alla fanteria, ovvero carne da cannone. Oggi, invece, si era cibo per zombie.

In lontananza scorgo le luci della fortezza che il Capitano locale aveva ribattezzato Hotel California, e nella quale, in perenne sottofondo, si poteva ascoltare la omonima canzone del famoso gruppo degli Eagles. Finalmente. Le ore di viaggio avevano reso la testa sempre più pesante e la vista sempre più sfocata: era giunto il momento di fermarmi per la notte.

Al cancello, posto subito dopo il ponte levatoio su di un profondo fossato, una figura ritta sulla soglia mi attendeva, allertata dalle campane anti-intrusione che continuavano a suonare incessantemente. Una donna. Era bella. I capelli corvini le ricadevano sulle spalle, e nonostante indossasse una brutta tuta da combattimento, le curve dei suoi seni erano ben visibili. Senza trucco e con un viso da sirena, mi guardava perplessa. Pensai tra me che questa fortezza poteva essere il paradiso, ma anche il peggiore degli inferni.

Entrai nel cortile. Le luci perimetrali vennero immediatamente spente e le maledette campane finalmente tacquero. Accese una candela e mi ordinò di seguirla. Una volta entrati nell’edificio principale, dai vari corridoi che partivano da quella specie di atrio giungevano impercettibili delle voci. Credo dicessero:

“Benvenuto all’Hotel California, un posto così accogliente, un’adorabile apparenza.

C’è abbondanza di spazio qui all’Hotel California, qui puoi trovare camere libere ogni giorno dell’anno”.

Mentre la ragazza mi accompagna alla mia stanza scambiamo due chiacchiere. Quando si passa troppo tempo da soli o sempre con le stesse persone, ogni qualvolta si vede un volto nuovo nasce dentro la prorompente ed incontenibile necessità di parlare, buttando fuori tutto quello che si ha dentro, gioie, dolori, desideri, aspettative, piaceri e rancori. Non ci si preoccupa di apparire, in base a ciò che dici, santa o zoccola, serio o libertino, buono o cattivo. Si ha la consapevolezza che molto probabilmente il tuo interlocutore non lo rivedrai più o che entrambi potreste morire domani. Sembra che ognuno voglia lasciare traccia e memoria di sé mediante i propri racconti, affidati a chiunque abbia la ventura di incontrare in questo nuovo mondo senza futuro.

Apprendo che lei è fissata per i gioielli e che adora quelli di Tiffany. Ha una Mercedes. Immagino abbia scelto un SLK, con linee aggraziate e le curve al posto giusto, proprio come lei. Mi dice che ha avuto molti amici, ma il movimento delle labbra a disegnare un accenno di sorriso mi fa pensare che intendesse amanti. Sono certo che fossero tutti carini, per poter essere degnati di un suo sguardo. Passando vicino ad una portafinestra, vedo alcuni ragazzi che ballano in cortile passandosi spinelli di bocca in bocca come se non ci fosse un domani. Chiedo cosa fosse quella specie di rave party. La ragazza mi dice che i più giovani militari di questa fortezza sono soliti ballare e fumare, chi per dimenticare chi per ricordare. Gli chiedo se tra loro ci sia qualche persona che prima mi ha detto essere stato un suo amico.

“Non saprei, forse si”, mi risponde maliziosa.

Entriamo nell’ufficio del Capitano, un ufficio spoglio: solo una scrivania e due sedie. Questi mi spiega sommariamente le regole della fortezza e le zone ad uso esclusivo dei residenti a cui è vietato l’accesso ai soggiornanti. Chiedo se posso avere un bicchiere di vino. Lui prima ridendo e poi facendosi improvvisamente serio dice che non vede quella bevanda dal lontano 1969.

Finalmente entro nella mia stanza e mi butto sulla branda da campo che la ragazza mi ha detto essere il mio letto. Noto che al soffitto sono appesi degli specchi; sorrido e penso, con un misto di eccitazione, che la ragazza possa divertirsi qui con l’amico di turno. Più immagino le scene, più l’eccitazione sale. Così tanto che, come cantava il grande Lucio Dalla, “ho chiuso un poco gli occhi e con dolcezza è partita la mia mano…”.

Le voci. Ancora le voci che avevo sentito appena arrivato. Mi svegliano nel bel mezzo della notte facendosi sentire in lontananza:

“Benvenuto all’Hotel California, un posto accogliente, un’adorabile apparenza. Si godono la vita all’Hotel California. Che bella sorpresa, procurati il tuo alibi”.

Frasi oscure e senza senso che moltiplicavano in me ansia ed agitazione. Vado nella hall in cerca di qualcosa da bere e mi ritrovo lei, seduta su una poltrona con un paio di bicchieri e dello champagne in ghiaccio. Sembrava aspettarmi. Mi porge il bicchiere ed io bevo avidamente, ma non da quella coppa avrei voluto abbeverarmi.

Quasi a leggermi nel pensiero, dice che tutti quelli che si fermano in questo luogo si svegliano assetati nel bel mezzo della notte, e non solo di acqua o champagne.

“Tutti qui siamo prigionieri del nostro capriccio”, alzandosi mi disse di seguirla. Ero invitato nella camera del padrone.

Improvvisamente, girandosi di scatto e buttandomi le braccia al collo, disse:

“Si sono radunati tutti lì per far festa! L’hanno pugnalato con i loro pugnali d’acciaio, ma non sono riusciti ad uccidere la bestia”.

Di colpo intorno a me tutto si fece buio. L’ultima cosa che ricordo è che stavo correndo verso  l’uscita; volevo tornare in strada da dove ero venuto. Vicino alla meta, il portiere di notte mi disse:

“Rilassati! Noi siamo qui per accogliere. Tu puoi uscire quando vuoi da quella porta, ma non potrai mai varcare il cancello e ripartire”.

Ora sono qui nel cortile a far festa con i giovani e carini amici della ragazza. Mi accorgo di una ferita sul braccio, sembra un morso. Ora capisco!

Di bocca in bocca non si passano spinelli… ma dita.

Ora è tutto chiaro!

Mi tuffo nella festa, in attesa che arrivi anche sulla mia bocca il tanto desiderato spinello.

 

Igor Zanchelli


 

Lascia un commento