FANSnon solo Zombie

di Joe Vanni


 
E un’altra cazzo d’estate stava passando. Vagoni di turisti, parenti, bambini, stancanti in ordine decrescente, si erano riversati nel mese di agosto nelle località balneari, montane, fluviali. Come ogni estate. E questo era il mese peggiore.

Almeno per me, che ero costretto a vederli dappertutto, persino a casa, cosa che non sopportavo al massimo grado. Parenti che venivano a mangiare senza invito: “stiamo arrivando, calaci la pasta”, e con mia madre che, presa dalla confusione, la frenesia, e la gioia di costoro che arrivavano da ogni dove, faceva la spola dall’altro frigorifero con la salsiccia, gli involtini, le cipolle rosse, cercando posto nel freezer della mia cucina, avanti e indietro, avanti e indietro, con me che la guardavo seduto al computer, rispondendo alle sue tantissime domande, inutili e tediose,  con grugniti. Ma la cosa che più non sopportavo era il dopopranzo, con quella gente che si stabiliva per ore sul mio divano cercando di interloquire con me, che non amavo conversare, socializzare, emettere persino suoni.

Il caldo asfissiante di quell’anno non limitava i vacanzieri: si muovevano. I bambini correvano, saltavano, gridavano a tutte le ore. Erano macchine da tortura. E cercavano tutti me, adulti e bambini, e in fin dei conti erano a casa mia per la mia felicità. Contavo i giorni che mi avrebbero portato a fine estate come fa un carcerato nella sua cella aspettando la libertà, ma a me ogni giorno sembrava un ergastolo. E la sera, come supplizio aggiuntivo, occorreva recarsi in paese a prendere il gelato, oppure cenare in pizzeria, guardare la fiera artigiana, girando in mezzo a una calca di mandrie riunite col solo scopo di passare il tempo. E il tempo andava passato tra fetori di ascelle di donne obese e ciccioni che mangiavano lo zucchero filato, energumeni, campagnoli con i piedi neri che uscivano dalle ciabatte; o peggio ancora tra signori e signore borghesi, in tenute estive quasi eleganti, a mostrare braccialetti e collanazze d’oro, con crocefissi pesanti quanto quello vero, da villici arricchiti. La luce fioca delle lampadine delle bancarelle invase da fumi di carne alla brace che si levava dai tanti bracieri e il circostante buio della notte mi ipnotizzavano e mi proiettavano in un’atmosfera surreale e nauseante. Non potevo credere di trovarmi veramente lì. E infatti non ci andai.

Finalmente potevo restare solo a casa, sulla collina, ogni tanto ascoltando il rumore costoso e incessante dei fuochi d’artificio. E fra non molto avrei buttato in padella due hamburger da mangiare con peperoni e patate e qualche bicchierazzo di vino rosso. Ecco, iniziavo ad essere di buon umore. Ma tanto nessuno se ne sarebbe accorto e probabilmente di lì a poco, al ritorno dei parenti, nemmeno io. Ma tanto, poco importava: dopo cena andavo a letto. E non rivedevo più nessuno, non ascoltavo più voci stridule e veloci, fino all’indomani.

Era l’alba, il sole cominciava a entrare nella mia stanza per svegliarmi, con me che lo attendevo già sveglio. Un buon caffè mi destò del tutto, tanto da accorgermi che a casa non c’era anima viva. Mi precipitai fuori per controllare se nel viale ci fossero le macchine dei parenti che sarebbero dovuti ritornare a notte fonda. Ma il mio stupore non fu dettato dalla loro assenza, ma da un enorme pinnacolo di fumo che scorgevo lontano, di fronte a me, verso il paese. Non so se per disperazione o per gioia, presi l’auto e mi recai laggiù. Un enorme cratere, forse una bocca secondaria del vulcano in cui vivevo, si era aperto nel paese. Un via vai di ambulanze, vigili del fuoco, macchine con gente che piangeva, teste e mani mozzate sparse ovunque. Il terremoto, o quel cataclisma, dilaniò la gente che festeggiava ingurgitandola in un baleno e ruttandola a pezzi sparsi per un raggio di vari chilometri. Ovunque borse insanguinate e piedi ancora nelle ciabatte sparsi sui tetti delle case, sugli alberi, sui cofani di macchine scassate. Nessuno era sopravvissuto.

 

Padre Joe finì di leggere il racconto che aveva scritto quella notte e i bambini della sua parrocchia lo abbracciarono, gridando e strillando “padre Joe, padre Joe, raccontaci un’altra storia”, saltando e rincorrendosi per tutta la stanza. Allora padre Joe, con le palle girate, prese un altro manoscritto e raccontò “U cuntu di la Biddrina”. Ma questa è un’altra storia

 

 

Joe Vanni


 

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