Racconti brevi

di Anna Liguori


 

Avevamo lasciato la città da un pezzo e Isabella frignava da altrettanto tempo. All’inizio mi faceva quasi tenerezza, ma dopo un’ora avrei voluto farla a pezzi con il machete.

“Sta’ zitta, la finisci di piagnucolare? Siamo vive.”

“Ma ma ma…”

“Ma ma cosa??? Per Dio!”

Stavamo finalmente percorrendo l’autostrada, nessuna destinazione precisa. Non sapevamo cosa avremmo trovato, ma la cosa importante era allontanarsi il più possibile dai centri cittadini. Orde di cadaveri ambulanti padroneggiavano le strade, masse troppo imponenti da poter evitare. Probabilmente nelle campagne saremmo state più al sicuro.

Isabella era la mia migliore amica. Avevamo trascorso assieme tutta l’adolescenza e gran parte dell’età matura, la mia almeno. Isabella non era mai cresciuta, non si era mai evoluta. La ragazza con cui disegnavo cuori sul diario era ancora attaccata a valori della primordiale massa femminile. Da tempo, ormai, avevo smesso di considerarla; non perché mi sentissi superiore, ma percepivo una distanza incolmabile che lei proprio non afferrava.

Era sempre lei a cercarmi, a chiamarmi per fare quattro chiacchiere o semplicemente per dare sfogo alla sua vita sentimentale tanto infelice. Ed io ascoltavo, tanto non sarei mai riuscita a parlare, un fiume di parole investiva la mia proverbiale pazienza. Lei era così, non si accorgeva di quanto fosse egoista, in ogni frase c’erano una decina di “io” e “mio”.

“Non capisco, perché chi è povero è così grasso?”

“Chi ha fame e non ha soldi mangia solo pasta e pane, costano meno.”

“Ah…”

Insomma, non era proprio un mostro di intelligenza nonostante laurea e master in sociologia. Di buona famiglia, non aveva mai lottato per ottenere qualcosa. Aveva tutto, non possedeva nulla. Una donna priva di valori, ideali, passioni. Forse quello che ci ha divise è stato proprio l’aver avuto delle vite troppo diverse. Mi sono sempre guadagnata tutto con le mie forze, senza l’aiuto di nessuno. Non ho mai preteso più di quanto potessi permettermi.

“Quella giacca non l’avevi già l’anno scorso?”

“…e allora?”

Isabella, incredula, mi guardava dall’alto verso il basso, come se la vita dipendesse dalla moda e le scarpe costose.

Quella sera stavo finalmente per vomitarle addosso tutta la mia intolleranza nei suoi confronti. Volevo chiudere con quella persona tanto vuota e insulsa. Me ne sarei liberata volentieri, ma un gruppo di zombie era entrato in quel momento nel locale, mordendo giugulari a destra e a manca.

Avevo afferrato Isabella dall’alto dei suoi tacchi a spillo e l’avevo spinta nel sedile posteriore della macchina.

“Ahi, ma sei impazzita?”

“Ma non vedi che sta succedendo? Ma allora sei davvero deficiente!”

In tutta risposta, aveva messo il broncio per un quarto d’ora e avevo ringraziato il cielo per questo.

Per un po’ ci rifugiammo in casa mia,  riuscendo a sopravvivere per qualche giorno. Le provviste scarseggiavano, masse di zombie si riversavano sulla strada con il solo obiettivo di divorare i pochi rifugiati come noi.

Trascorsi i giorni successivi a preparare un piano di fuga. Isabella, intanto, si lamentava dei miei smalti fuori moda e dello shampoo dozzinale del supermercato. Riempii lo zaino con scorte di cibo. Per fortuna, avevo la passione per le armi da taglio. Mi attrezzai con più coltelli possibili, un’ascia ed un machete. Ad Isabella diedi un piede di porco e le affidai le provviste. Cautamente,  scendemmo in garage. Le ultime notizie al telegiornale dicevano di fare meno rumore possibile e di colpire i morti alla testa. Le spiegai queste cose per una buona mezz’ora, sperando di non dovermi più ripetere. Isabella tremava, i barattoli di cibo nello zaino facevano troppo rumore.

“Fai silenzio porca miseria!” le intimai.

Il momento peggiore sarebbe stato tirare su la lentissima porta automatica del garage: orde di zombie sarebbero entrate in men che non si dica, attirati dal fracasso e dal nostro odore. Per evitare che Isabella facesse troppi danni, le ordinai di mettersi in macchina e di chiudere gli occhi, qualsiasi cosa fosse successa.

Come prevedevo, la porta si aprì emettendo un terribile cigolio che attirò gli zombie; bisognava essere rapidi, erano più di quanti me ne aspettassi. Spinsi l’acceleratore a tavoletta e ne travolsi un paio, ma dovetti sterzare a destra e a sinistra per evitare che nell’impatto mi distruggessero il vetro. Un lavoro da certosino, e dire che avevo sempre odiato guidare. Isabella si copriva gli occhi con le mani e intanto singhiozzava. Finalmente riuscimmo ad uscire in strada.

“Puoi aprire gli occhi.”

“Oddio quanto sangue!”

“Almeno non è il nostro.”

Viaggiammo finché il carburante ce lo concesse. Avevamo percorso almeno 300 km, ero stanca, la schiena a pezzi e soprattutto affamata.

Svegliai Isabella.

“Per il momento ci fermiamo qui. Tu stai di guardia mentre cerco di accendere un fuoco”

“E se arriva un coso di quelli?”

Abbraccialo, pensai, ma non dissi nulla. “Colpiscilo in testa più forte che puoi con il piede di porco.”

“Ok, oh Dio, che fortuna per me essere capitata con la mia migliore amica in questo guaio, con te sì che mi sento più sicura.”

Quando le sentii dire queste parole, le budella cominciarono a danzarmi nello stomaco. In piena apocalisse zombie con la persona più inutile del mondo, evviva.

Finalmente riuscii ad accendere il fuoco ed Isabella, compiaciuta mi diede una pacca sulla spalla.

“Bene, ora mangiamo, prendi lo zaino con le provviste.”

Silenzio. “Isabella, lo zaino l’avevi tu, ricordi?”

“Mi avevi detto di non fare rumore, allora ho posato lo zaino per terra.”

“Per terra, dove? Isabella!!! Dove cazzo hai lasciato lo zaino?”

Mi disse di averlo lasciato in garage, che era troppo spaventata per ragionare, che le dispiaceva.

“Puttana!”

Isabella è l’ultimo ricordo di come fosse il mondo prima dei morti viventi, un mondo di merda. L’apocalisse ha paradossalmente portato un certo miglioramento alla specie, una sorta di diluvio universale senza pioggia. Qualcuno la chiamerebbe pulizia etnica, selezione naturale, raccolta differenziata. Penso a tutto questo, mentre rosicchio quello che doveva essere il suo polpaccio destro. Addio Isabella, non avrei mai pensato di chiudere con te in questo modo, ma tutto sommato ti rendo onore, persino una persona come te ha avuto un’utilità nell’apocalisse. Sollevo il pezzo di carne come se fosse un calice.

“A te, Isabella, amica del cuore!” dico addentandolo. Non sa di niente, come immaginavo.

 

 

Anna Liguori