FANS

di Piergiorgio Melidori


 

Un pallido sole autunnale accompagnava il mio viaggio ormai da parecchio tempo. Il suo tenue calore era per me un temporaneo ristoro dalle lunghe e fredde notti, troppo spesso visitate da sogni spaventosi e dal lontano ululare dei lupi. Arrivai al villaggio con il rosso della sera e con l’aria pungente che iniziava a sferzarmi il volto.  La luce, di passo in passo più avara, mi concedeva sempre meno il lusso della sua benedizione, così decisi di avvicinarmi in cerca di asilo a quella che pareva una locanda.

Non appena varcai la soglia della bassa costruzione ed attraversai i suoi spessi muri, venni subito avvolto da un invitante profumo di arrosto speziato tipico di quei luoghi isolati, dove la caccia rimane ancora una delle risorse principali. Il locale era affollato senza essere però eccessivamente caotico. Mi avvicinai al rubicondo locandiere il quale, con un caldo sorriso, mi fece cenno di accomodarmi su una panca vuota vicino ad una vecchia  stufa, sulla quale era posta in bella vista una pignatta borbottante ricolma con minestra di farro e legumi. Ad un tavolo erano accomodati alcuni signori impegnati  in un fitto chiacchericcio, mentre una prosperosa cameriera dai capelli rossi si affrettava avanti e indietro dal bancone per servire traboccanti boccali di birra. Più in là,  ad un altro tavolo, un gruppetto di avventori erano intenti a festeggiare intonando canzoni oscene su quello che presupponevo essere il buon esito di una battuta di caccia. Venne anche il mio turno e per una sera finalmente potei desinare come si conviene rimpinzandomi di quel delizioso arrosto e dissetandomi con un paio di boccali. A dir del vero, grazie alla forte birra scura dopo ogni sorso la cameriera pareva sempre più avvenente e il locandiere sempre più rosso in viso e ridanciano.

Era quasi giunta l’ora di andarmi a ritirare, ma se non ci fosse stato un giaciglio libero ben mi sarei accontentato di un letto di morbida paglia nelle stalle con i cavalli; certo sempre meglio che le notti là fuori…

Mentre facevo su i miei modesti averi un sibilo lontano attirò la mia attenzione. Il suono si fece man mano più forte, fino a che altri oltre a me ne presero coscienza: per quale motivo un corno risuonava così potente nella notte?  Nel frattempo tutti gli avventori si erano alzati dalle loro panche, le chiacchiere bruscamente interrotte, così come i canti e i bagordi. Stavo per chiedere spiegazioni di quell’ allarme, ma non feci tempo a pronunziar parola che un pesante rintocco di campana fece vibrare persino le bottiglie sui tavoli. Scattai in piedi anche io. La tensione era palpabile nell’aria pesante della taverna così iniziai a guardarmi intorno, cercando di cogliere nei volti divenuti pallidi e severi degli avventori una qualsivoglia spiegazione di quanto stesse accadendo. Il locandiere e un paio di giovani cacciatori corsero verso l’ingresso ed uno di loro mi urtò e mi scaraventò seduto a terra stordito quasi neanche accorgendosene, tanto pareva importante la sua missione. I tre uomini spostarono un tendone, dietro il quale si celava una grossa ruota simile ad un argano e iniziarono vigorosamente a manovrarla; contemporaneamente, sferragliando con enorme fragore di catene, iniziò a scendere sull’ uscio una pesante porta scura spessa almeno un braccio. Appena chiuso l’ ultimo spiraglio pesanti barre di ferro andarono ad inchiavardarsi nelle pareti, trasformando così quello che doveva essere il normale ingresso di una locanda in una impenetrabile parete di una segreta.

Incrociai ancora una volta il viso della cameriera, ma al posto del suo malizioso sorriso due occhi sbarrati dal terrore mi fecero capire che il tempo delle parole era finito. Mi unii così agli altri, che nel frattempo si erano tutti radunati intorno alla grande stufa, stavolta senza più calore o profumi. Nessun rumore, solo il battito irrequieto del mio cuore rimbombava nella stanza. Fuori la luna piena color argento filtrava dai vetri e dalle pesanti sbarre, che nel frattempo si erano interposte azionando l’argano, illuminando fiocamente la sala dove le lanterne ad olio erano state frettolosamente spente.

Tutto ad un tratto il respiro mi sì fermò in gola: qualcuno o qualcosa era passato davanti alla finestra, proiettando una sinistra ombra. Non feci in tempo a capire se fosse realtà o solo uno scherzo della mia fantasia sovreccitata che successe di nuovo: ancora e ancora ombre deformi sfilavano sulla parete come in un’infernale processione. Nessun rumore, solo il battito frenetico del mio cuore rimbombava nella stanza . Cosa c’era oltre quelle sbarre? Per gli dèi, cosa terrorizzava così quelle persone? I volti erano di un pallore mortale, i respiri corti e affannati, i più giovani si stringevano ai più anziani tremando come in preda a chissà quali febbri. Tutto ad un tratto la mostruosa processione di ombre si fermò. Un boato squarciò il silenzio:  le schegge dei vetri frantumati volarono ovunque riflettendo mille e mille volte l’ argentea luce della luna, mani immonde si agitarono tentando di oltrepassare le sbarre, urla gutturali, ruggiti e blasfemie provenienti dall’esterno si miscelarono alle urla di terrore di chi era all’interno, creando un’insostenibile cacofonia . La porta principale ebbe un sussulto ed un mostruoso colpo fece vibrare persino il soffitto e oscillare le lanterne come fossero spinte dal vento; ne seguì un secondo e poi un terzo… non avrebbe retto…non avrebbe retto ad un quarto assalto, pensai in preda al panico. Un attimo e il locandiere si parò davanti ad essa, alzò le mani al cielo come in un’invocazione e iniziò a salmodiare una cantilena a me ignota. A fianco a lui si pararono alcuni avventori. Forse erano quelli seduti al tavolo che discutevano animatamente, forse il gruppetto di cacciatori o forse altri che non avevo notato… il terrore mi aveva sopraffatto e non posso affermare con lucidità quanto ricordo.

Vidi l’argento riflettersi alla luce della luna: parti di armatura, asce, pugnali e amuleti fecero improvvisamente capolino dai mantelli, dai farsetti o dai loro comunissimi abiti… con che forza pensavano di opporsi? Chi erano quegli uomini che affrontavano l’ignoto abominio così fermamente? Mi sentii venire meno: nei barlumi di coscienza che mi rimangono ricordo l’intelaiatura della porta formare un simbolo di una luminosità quasi accecante e le grate alle finestre divenire di un colore bruno rossastro, quasi fossero state sottoposte al calore di una forgia. Il legno iniziò a sfrigolare, mentre continuava a vibrare sotto i poderosi attacchi del demonio, braccia putrefatte, artigli, unghie e pallide ossa parvero per un attimo riuscire a farsi strada fra le pesanti sbarre ma tutto ad un tratto, man mano che esse diventavano quasi incandescenti, si ritirarono con grida e maledizioni in misteriosi idiomi provenienti da chissà quale fetido inferno…tornò il silenzio e, com’era arrivata, l’immonda processione passò oltre. Nessun rumore, solo il regolare battito del mio cuore e una voce lontana che mi richiamava alla coscienza.

La luce di un pallido sole filtrava dai vetri di una modesta locanda, sulla stufa in fondo alla stanza bolliva una pignatta e un balsamico odore di unguenti permeava la stanza. Di fronte a me i visi preoccupati del rubicondo locandiere e dalla simpatica cameriera dai capelli rossi

“Tutto bene, signore?”

No, la testa pulsava e a stento mi misi seduto sulla panca di legno. La locanda era vuota, su entrambi i lati dell’uscio erano legate due tende di lino in modo da lasciar entrare un po’ di quella benefica luce. Cercai di mettermi in piedi.

“Per gli dèi, ma dove sono?”

Il rubicondo locandere sospirò sotto quegli imponenti baffoni.

“Non ci sono più deè qua… siamo ad Innistrad.”

 

Piergiorgio Melidori


(nomi e luoghi del racconto sono stati ispirati al gioco Magic the Gathering)


 

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