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L’ultimo di quattro racconti HORROR – FANTASY di Pergiorgio Melidori: LA BESTIA DI GATSTAF.
(nomi e luoghi del racconto sono stati ispirati al gioco Magic the Gathering).


L’Accademia Inquisitoria di Thraben è la più grande e più famosa di tutta Innistrad. Lungo i corridoi di marmo bianco si ergono impavide le statue di coloro che resero onore al suo nome fino all’estremo sacrificio, mentre sui muri delle ampie e luminose sale d’arme si stagliano meravigliosi affreschi di Santi immortalati nella loro sempiterna lotta alle forze demoniache.

Herbert Kolman si stava avviando lentamente verso la sua cella; con il solito sguardo torvo fissava dritto davanti a sé, incurante di chiunque incrociasse il suo passo. In cuor suo il giovane non riuscì mai a sentirsi a proprio agio fra quelle magnifiche aule, nonostante ormai da sette anni avesse passato ogni singolo giorno, dall’alba fino a notte inoltrata, studiando gli antichi tomi del Culto e tentando di impratichirsi nella raffinata arte inquisitoria. Aveva dedicato ore a memorizzare formule sacre e quando non era ricurvo sui libri, nelle biblioteche o nella sua cella rischiarata solo da una candela, era nella grande corte centrale o in una qualche campo d’addestramento a perfezionare la sua tecnica e a temprare il fisico. Gli Inquisitori erano l’elite, il braccio armato del Culto di Avacyn: la carezza e il pugno, guide caritatevoli e implacabili persecutori.

Herbert era discendente di una famiglia nobile minore della città di Innistrad. Ultimo di quattro figli, crebbe nell’ombra di un padre ambizioso per lui e per il nome della casata. Il vecchio Lord Kolman non amava sottostare alle regole ferree dei Markov, signori di Innistrad e fece di tutto per cercare di elevare il proprio casato al di sopra della mediocrità in cui era sprofondato. Non esitò quindi a combinare i matrimoni e a influenzare le carriere e le decisioni dei figli, sempre con l’unico scopo di riportare in alto il suo nome e non dover più abbassare la testa di fronte a nessuno.

Fu così che per cercare un appiglio alla sua scalata sociale, anche nel potente Clero di Avacyn, non esitò ad invitare, anzi ad obbligare, senza tanti complimenti il suo ultimogenito Herbert a frequentare l’Accademia di Thraben, per poter divenire un giorno un’importante e stimato Inquisitore. I risultati non furono subito eccellenti, era evidente che il giovane non aveva una così fulgida vocazione. Si vocifera che l’orgoglioso padre seppe comunque mettere a tacere quelle infamanti voci, dimostrandosi un quantomai accalorato fedele, tramite l’elargizione di cospicue donazioni alla Cattedrale e generosi regali ai Magistri dell’Accademia.

Per Herbert il tempo dei sacrifici era giunto quasi al termine: finalmente si stava avvicinando il giorno del Sacro Giuramento.

Per tutti quei lunghissimi sette anni il giovane aveva dovuto sopportare le astiose parole di rimprovero dei suoi mentori, subirne le dure punizioni e, a discapito di tutti i suoi sforzi, percepire continuamente la delusione nei loro occhi e nei loro cuori. Dal giorno dopo, però, sarebbe stato un Inquisitore di Thraben e tutti gli avrebbero portato il rispetto che sapeva bene di meritare nonostante il parere di quei vecchi ammuffiti dell’Accademia, nonostante quegli sbruffoni delle sale d’armi, nonostante tutti quegli stupidi che non avevano saputo riconoscerne le doti.

Venne così il giorno: il giovane Kolman se ne stava tutto impettito di fronte al Priore dell’Accademia e al Lunarca stesso, ma le loro parole di ammonimento sulla gravità e sull’importanza della vocazione e della missione di un Inquisitore suonarono alla sue orecchie come i soliti noiosissimi sermoni mal sopportati per anni. Persino le sacre parole del giuramento uscirono svogliatamente dalle sue labbra, fredde e prive di emozioni, vuote formule pronunciate senza cuore. In tutta la solenne ma sobria cerimonia lo sguardo annoiato e sufficiente di Herbert ebbe un solo avido sussulto, nel momento preciso in cui gli vennero consegnate le armi. Il lungo pugnale e la corda d’argento erano simboli terreni della forza e del legame diretto con Avacyn stessa, ma al suo sguardo apparivano solamente simboli del potere e dell’importanza che pensava di aver finalmente raggiunto.

La mattina seguente gli fu finalmente indicata la sua prima missione. Herbert aveva passato la notte insonne immaginandosi di camminare fiero per le vie di Innistrad ed aveva già pregustato il piacere che avrebbe provato finalmente nell’umiliare chiunque avesse osato contraddirlo.

Il giovane Inquisitore non credette a se stesso quando gli fu ordinato invece di andare a Gatstaf, cittadina rurale del Kessig,  per risolvere dei casi di efferati omicidi.

”Herbert Kolman, affronta questa missione con molta attenzione: il Kessig è un luogo pericoloso persino per chi lo conosce da anni, così come lo conosce il Pastore Jacobsen. É una persona buona, amata e rispettata a Gatstaf persino dai vecchi sciamani del luogo. É successo qualcosa laggiù, qualcosa di terribile ed è tuo… nostro compito snidare e stroncare l’oscurità che sta dilagando in quei luoghi remoti. Delle anime smarrite e in difficoltà hanno bisogno del nostro aiuto e non c’è compito più nobile e alto del portare nuovamente la giustizia e la luce di Avacyn nei loro cuori…”

 Quelle parole rimbombarono nella testa di Herbert, offensive e irriverenti nei confronti di chi si aspettava compiti ben più appaganti.

Lo avevano fatto apposta; Herbert aveva compreso perfettamente cosa stava dietro a quelle magniloquenti parole. Una missione da principianti in un posto sperduto… per umiliarlo. No, non l’avrebbero passata liscia.

Non aveva certo passato tutti quegli anni di sacrifici per finire a fare il gendarme di paese. Lungo tutto il viaggio attraverso le varie parrocchie di Gavony, il giovane inquisitore iniziò subito a godere di uno dei ‘’benefici’’ che il suo nuovo status gli offriva: il consueto rito dell’arruolamento.

Era prassi che ogni qualvolta un Inquisitore attraversasse un paese o una cittadina, un nutrito gruppo di poveracci e di malati si radunasse nelle piazze implorando di essere arruolati come soldati di Avacyn e di poterlo seguire nella sua lotta contro il male… destino probabilmente meno infame rispetto alla loro vita da reietti ai margini della società.

Gli Inquisitori esperti, alla luce di tutto questo, preferivano lavorare con discrezione e maniera, ma ogni qualvolta  si riteneva necessario onoravano questa vecchia usanza spendendo qualche parola per i più derelitti, ringraziando ed elargendo benedizioni per i più ardimentosi.

Normalmente il tutto finiva licenziando i primi con una manciata di monete ed investendo i più fanatici del sacro incarico di difensori del villaggio con l’aiuto di un paio di formule facili da ricordare e di un piccolo amuleto brillante come l’argento.

Herbert Kolman viaggiava con lo sguardo alto e fiero, avvolto nel suo mantello bianco cerimoniale, i sigilli ben in vista così come la corda d’argento assicurata al fianco del cavallo. In ogni villaggio non mancava di annunciarsi al Pastore locale pretendendo il trattamento che a suo dire gli era dovuto. Non era ancora entrato nella foresta di Ulvenwald al limitare dei territori del Kessig che al suo seguito aveva già involontariamente arruolato almeno una ventina fra forconi e zappe, altrettanti anziani armati di simboli ed icone sacre e un imprecisato numero di storpi e folli.

Il giovane Inquisitore, rosso dalla collera, inveiva contro i membri del suo raffazzonato esercito, ordinando loro di lasciarlo in pace e di tornare ai loro villaggi.

Non sapendo più come fare per sbarazzarsi dei suoi ardimentosi soldati arrivò al punto di minacciarli con le armi o addirittura di condannarli per eresia, fino a che non fu costretto a mettere in atto l’unica soluzione che gli venne ancora in mente: fuggire col favore delle tenebre travestito da straccione. Come era possibile, continuava a chiedersi, che proprio a lui fosse toccata una così infima missione? Cosa gli importava di quei bifolchi contadini e di quei rozzi boscaioli del Kessig?

Decise quindi che quella farsa doveva finire il più presto possibile e una volta tornato a Thraben, con un fulmineo e brillante successo avrebbe preteso ciò che meritava. A un paio di giorni di cavallo dal luogo dove aveva ingloriosamente congedato il suo esercito, il giovane iniziò a scorgere l’enorme foresta del Kessig, fitta e impenetrabile proprio come nei racconti che aveva sentito da ragazzo.

Si avventurò non senza remore al suo interno, nella speranza di raggiungere Fossocavo prima della sera; non aveva certo intenzione di passare la notte fra quelle ombre minacciose.

Arrivò giusto col calare delle tenebre alla taverna del Lupo Grigio, ultimo ricovero per la gente civile prima di avventurarsi in quel mondo di rozzi pastori. Il Sole già faceva capolino dalle fronde più alte delle possenti querce quando la guida, stanca di attendere, iniziò a lanciare sassi contro le imposte ancora serrate del nobile Inquisitore. Lo invitò con i consueti modi gentili del Kessig a darsi una mossa, altrimenti avrebbe preteso la paga per la giornata perduta pur senza aver mosso un passo.

 Herbert, stizzito, si alzò in tutta fretta con la testa che ancora doleva per colpa di quei maledetti distillati di radici. Il resto del viaggio fu scomodo, lungo e silenzioso: lo scout segnava il passo e i sentieri senza battere ciglio, incurante delle domande o delle lamentele del giovane Inquisitore. Fu così fino alle pesanti porte di legno della cittadina di Gatstaf, dopo di che Herbert fu congedato dalla sua guida in maniera sbrigativa e senza tante cerimonie.

Nella piazza principale, fra le pozzanghere e il fango dovuto alla pioggia dell’ultima notte, si animava un mercato: “merci semplici per gente semplice”, pensò l’Inquisitore mentre cercava di non sporcarsi il mantello più di quanto non fosse strettamente necessario.

Si presentò e chiese del sindaco. Fra sguardi meravigliati, incredulità e assoluta indifferenza, gli fu indicata una robusta casa in pietra con il piano alto rifinito in legno, nessun segno particolare, nessuno stendardo o cancello forgiato. Una casa dozzinale per gente dozzinale.

Herbert entrò scostando un paio di pelli d’orso appena appese ad asciugare e su un tavolaccio notò quello che pareva esserne il vecchio proprietario o almeno un suo quarto. Proprio in fondo alla stanza vide la figura di un omone con un grembiule di cuoio intento al suo lavoro:

‘’Sono l’Inquisitore Herbert Kolman da Thraben…’’ disse il giovane con il suo solito tono supponente, ‘’...e secondo le leggi della Pace di Avacyn, come scritto su questa lettera, sono stato convocato in questa città per…’’ continuò, ma fu interrotto bruscamente prima di poter finire.

Il Sindaco Goran Edlund aveva le braccia infilate fino all’altezza del gomito nel torace squarciato di quello che sembrava un altro enorme orso scuoiato. Le estrasse grondanti di sangue e, dopo aver conficcato in un ceppo lì di fianco il coltellaccio che teneva in mano, prese la lettera e senza dedicarle un attimo di attenzione la gettò sull’altro tavolo dove giaceva la carcassa già sezionata.

‘’Conosco le leggi di Avacyn e il più delle volte le rispetto anche…Non vi ho convocato io, Inquisitore, nessuno vi ha convocato. Sicuramente siete nel posto sbagliato e sicuramente non siete il benvenuto. Qua non siamo nella contea di Gavony, non abbiamo tempo da perdere con le vostre prediche e i vostri sermoni. Passate dalla cattedrale se volete… là potrete intrattenere le vostre pecorelle, dopo potrete riprendere la via per casa.

Ora lasciatemi, ho da fare come potete vedere.’’

Detto questo riprese in mano il coltellaccio, squadrò il giovane con occhi torvi e tornò alle sue faccende evidentemente infastidito.

Herbert lasciò la stanza rosso in viso dalla collera: un altro nome da ricordare, un’altra faccia da schiacciare nel fango.

La ”cattedrale” di Gatstaf era una vecchia stalla riconvertita al culto, quanto di più lontano si possa immaginare dalle splendenti guglie di Thraben. La gente le passava indaffarata vicino senza prestarle troppa importanza o rispetto.

Il giovane Kolman si avvicinò all’ingresso e subito gli si fece incontro un esile ometto con la pelle raggrinzita, parecchie primavere alle spalle e una vistosa andatura zoppicante. Per un attimo il vecchio lo fissò con fare quasi stupito, dopodiché abbozzò un sorriso con la sua boccaccia sdentata

‘’Che il cielo vi benedica Vostra Eccellenza! La grande Chiesa di Avacyn ha udito le mie preghiere! Prego, prego, da questa parte… ah, ma che sbadato, permettetemi di presentarmi: il mio nome è Oratius Ward, sono il diacono’’.

I minuti si susseguirono in una lunga serie di sentiti ringraziamenti e lusinghe.

‘’Finalmente una persona civile’’ pensò Herbert e oltretutto, avendo anche riconosciuto il caratteristico accento di Innistrad, non poté non sentirsi un po’ più a casa, nonostante fosse sperduto in una terra selvaggia e infida. Il diacono, dopo averlo invitato nei suoi poveri alloggi e avergli offerto una zuppa calda, iniziò ad esporre i fatti.

‘’Io e il pastore Jacobsen da anni portavamo aiuto ai bisognosi predicando la parola di Avacyn fra queste genti. Abbiamo convertito questa vecchia stalla in chiesa più di trent’anni or sono, abbiamo vinto le diffidenze e le superstizioni tipiche di questi luoghi portando pace e armonia. É sempre stato un posto abbastanza tranquillo, ma improvvisamente iniziarono a scomparire delle persone, gente per bene, e i loro corpi vennero trovati nella foresta dilaniati come da un branco di lupi. Lo stesso destino toccò anche al vecchio sacerdote: il cadavere, o quello che ne restava, bontà sua, fu ritrovato non molto lontano dalla collina di Krallenhorde, al limitare della contea di Gatstaf.

É stato un gesto terribile e disumano, povero Jacobsen…’’

Il diacono aveva gli occhi lucidi nel raccontare gli eventi, era evidentemente scosso, ma volle proseguire.

‘’Una mattina, all’alba, poco prima che arrivaste, partì assieme a due guide dicendomi che andavano nella foresta per seguire le tracce del colpevole di quei mostruosi crimini… ebbene, non fecero mai più ritorno. Da quel giorno, per non lasciare questa povera gente priva di una guida spirituale, mi sono fermato in questa chiesa continuando a predicare. Ho immediatamente mandato missive alla Cattedrale di Thraben per informare il Lunarca di quanto fosse accaduto e, siano benedetti gli Angeli… siete finalmente qui.’’

Herbert passò la serata ad udire i racconti del diacono su quella e le altre misteriose sparizioni, tutte culminanti con altrettanti ritrovamenti di cadaveri orribilmente straziati.

Gli indizi e le supposizioni che il vecchio diacono aveva raccolto udendo i discorsi del defunto pastore erano comunque interessanti. Pare che nella fitta foresta della collina di Krallenhorde vivesse un reietto, un tal Geoff VanBergen , una persona dedita al bracconaggio, schiva e dai modi violenti e scontrosi.

Una volta alla settimana pareva scendesse in città per vendere le sue pelli e per ubriacarsi alla locanda. Il Kessig non è certo una zona dove ferve la fede in Avacyn, anzi, sono ancora molto radicate certe credenze animiste legate al culto della terra e sciocchezze simili. Quell’eremita oltretutto, sempre stando ai meticolosi racconti del vecchio diacono, era ultimo di una discendenza di cosiddetti ‘’guaritori’’ a metà fra stregoni e santoni e più di una volta era stato visto discutere animatamente con il pastore. Era facile intuire che mal gradisse il ruolo centrale che la chiesa di Gatstaf stava prendendo rispetto alle sue sciocche superstizioni da eremita e più di un nuovo accolito sarebbe stato disposto a giurare di aver sentito uscire dalle sue labbra qualcosa di peggio che velate minacce.

Per quanto riguardava le altre vittime che avevano subito il medesimo destino del prelato si trattava di gente per bene: buoni credenti figli e figlie delle casate nobili del Kessig, persone rispettose delle leggi e dei Sacri Testi e, guarda caso, erano state tutte ritrovate nelle stesse zone fra Gatstaf e Krallenhorde.

Il brillante inquisitore capì immediatamente che quella era la pista giusta da seguire: non ci sarebbe voluto molto a catturare quel bifolco e costringerlo a confessare i suoi crimini… Herbert sorrideva assorto nei suoi pensieri mentre carezzava la sua corda d’argento.

Non attese oltre: la mattina successiva, senza tanti complimenti, assoldò una guida che lo portasse alla baracca di quel tale, di quello sciamano.

Il diacono Oratius insistette con veemenza affinché l’inquisitore lo portasse appresso e finalmente si misero in marcia. La foresta era molto fitta e persino nelle ore centrali del giorno aveva un aspetto cupo e pericoloso. Herbert rimase indietro più di una volta, rischiando di perdere la via e persino il vecchio Oratius dovette tornare indietro ad aspettarlo.

”Tranquillo, ovviamente dovete solo abituarvi alla rudezza dei luoghi, ma state già facendo grandi progressi, Vostra Eccellenza… avreste dovuto vedere me agli inizi…”

Il diacono sorrise con la sua boccaccia sdentata, ma nonostante tutti i suoi sforzi non migliorò l’umore né, tantomeno, l’andatura dell’Inquisitore.

Arrivati in una piccolissima radura dove la vegetazione era un po’ meno fitta la guida si fermò.

”Da qua in poi è zona di VanBergen, io vi aspetterò fino all’inizio del calar del Sole, non di più: dopodichè, saranno gli spiriti della foresta a prendersi cura di voi.”

Kolman stava per replicare a quel villano insolente, ma il vecchio Oratius lo spronò a non perdere tempo con gli ignoranti e proseguirono per quella parvenza di sentiero che si stendeva dinanzi a loro.

… continua …

Piergiorgio Melidori


(nomi e luoghi del racconto sono stati ispirati al gioco Magic the Gathering)


 

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