EditorialeRacconti brevi

IL MONDO VA AVANTI, un adrenalinico racconto di Michela IUCCHI!


 

Isaia; un nome, un uomo e le sue ultime parole che ancora mi rimbombano nella testa: -Ormai è troppo tardi….ho fatto il possibile ma non è bastato.-

Ripensando alle sue parole, mi rendo conto ogni giorno di più, che la vita è labile e sempre più menefreghista; cerchiamo di rincorrere un sogno e il destino ci riserva tutt’altro. Facciamo di tutto per ritagliarci il nostro pezzetto di spazio vitale ed ora preghiamo per incontrare un’anima perduta.

Il soffitto di questa catapecchia sembra stare in piedi per miracolo;  osservo le nervature del legno delle travi, i suoi nodi, le mille ragnatele che, con i loro ghirigori,  hanno creato infinite opere d’arte.

Guardandomi attorno osservo il lascito del vecchio proprietario, sicuramente un cacciatore, viste le innumerevoli foto di trofei in bella mostra in vecchie credenze polverose, come sulle pareti insieme alle pelli conciate e teste imbalsamate.Segni indelebili sui muri di carabine e balestre, un tempo amiche fidate di un uomo che ha scelto di vivere una vita fuori dagli standard del mondo moderno. Ma pur sempre una vita.

Abbasso lo sguardo su ciò che mi ha dato conforto nelle ultime ore.

*Accidenti, sono arrivato all’ultimo goccio… e con questa, ho fatto fuori la vecchia riserva di scotch, che il vecchio conservava con tanta cura!*

Lancio la bottiglia vuota contro la parete di fronte a me, mandandola in frantumi.

Lucky si desta dal suo sonno consolatore, mi guarda e mi lancia un mugugno carico di compassione.

– Vieni qua bestiaccia, tu sì che mi capisci!-

Lui si alza dal suo giaciglio improvvisato e si accoccola vicino a me, posando il muso sulla mia coscia.

Credo di non essere nelle condizioni più adatte per formulare un discorso sensato ma so per certo che, comunque vada, devo andare avanti e non arrendermi, non mollare il colpo e che vadano pure a fanculo questi piccoli bastardi maleodoranti!

La luce della candela si sta pian piano affievolendo… gli occhi bruciano, le palpebre si fanno sempre più pesanti… la testa gira vorticosamente al dolce suono di un tintinnio e, inebriato dal potere dissuasivo dello scotch e dal torpore generale, cado tra le braccia di Morfeo.

Un abbaiare in lontananza mi fa tornare lentamente alla ragione, rendendomi conto, ben presto, che in realtà era Lucky, che cercava in tutte le maniere di svegliarmi.

Preso coscienza di cosa stava accadendo, mi alzo di scatto e corro verso la finestra di fronte. Scosto il plexiglass quel tanto per scoprire che i vaganti avevano distrutto le mie difese, che circondavano la casa e si stavano scagliando ripetutamente contro la porta; devono aver sentito il tonfo della bottiglia infrangersi sul muro e hanno seguito il rumore.

*Ecco cos’era  quel dolce tintinnio udito nel mio stato comatoso, altro che campanelle!*

La testa pulsa ancora e mi manca la stabilità, ma devo studiare in fretta un piano d’evacuazione.

La porta principale non resisterà a lungo, quindi opto per quella sul retro, sperando non sia anch’essa invasa.

Getto uno sguardo veloce oltre il vetro, apro la porta e mi fiondo all’esterno imbracciando il fucile. Alcuni vaganti sono rimasti impigliati nella mia trappola, consentendo ad altri di scavalcarla facilmente, mentre un gruppo poco numeroso sta strisciando nella mia direzione.

Tre o quattro hanno girato l’angolo ad est e si stanno avvicinando.

Sono accerchiato!

Esplodo un colpo nel cranio del putrido ai miei piedi ma, constatando l’inutilità del gesto, mi limito a rientrare e rivalutare il mio piano.

Mi sento un animale in gabbia e presto si trasformerà nella mia tomba.

Ricontrollo la porta principale e, per mia fortuna, la trovo libera. Probabilmente lo sparo li ha indirizzati sul retro, consentendomi di uscire e richiudere la porta, nella ferma convinzione di poterci tornare… un giorno.

Un piccolo manipolo si è bloccato ad un paio di metri dal portico, Lucky li intercetta e si scaglia furiosamente all’attacco.

Temendo per l’incolumità del mio piccolo amico, mi getto anch’io su di loro e, forse ancora preso dai fumi dell’alcol, li faccio fuori uno dopo l’altro, senza rendermi conto della pericolosità del gesto.

Recupero Lucky e ci allontaniamo in fretta, nel silenzio del crepuscolo e nella piena consapevolezza che quel piccolo angolo di paradiso, almeno per un po’, non sarà più la nostra casa.

 

 

Il crepuscolo ha lasciato posto ad una notte stellata e fredda.

Non ho idea di quanta strada abbiamo percorso ma lo deduco dai muscoli indolenziti. In più ho la testa che urla e lo stomaco che reclama del cibo solido.

*Giuro che non toccherò mai  più una bottiglia di whisky, nemmeno se fosse l’ultima cosa commestibile sulla faccia della terra!*

Faccio una breve ispezione delle cose che sono riuscito a racimolare nella fretta della fuga: il fucile, con mezzo caricatore, il piede di porco e il coltello, la sacca con una borraccia… vuota e una manciata di noccioline in tasca, residuo dell’aperitivo in solitaria.

-Lucky, siamo messi piuttosto maluccio, a quanto pare. O trovi qualche scoiattolo, o la vedo dura!-

Lui mi guarda e scodinzola, ignaro di quanto sia bastarda la vita; lui si accontenta di una carezza e il sapermi accanto a sé basta a compensare tutto.

Invidio la sua innocenza e vorrei trovarmi nella sua beatitudine di affidarsi ad un essere che, invece, ha l’onere di trovare cibo ed un rifugio dove ripararsi da un possibile attacco.

Stiamo attraversando un bosco infinito, potenzialmente un attira-vaganti; le foglie secche fanno troppo rumore e troppo rumore li attira come le api al miele. Per di più si odono grilli, gufi, battiti di ali, qualcosa che graffia sui tronchi e calpestii strozzati…

*Silenzio notturno un paio di palle! C’è più casino qua che in centro all’ora di punta!*

I miei sensi si acuiscono per captare ogni minimo rumore e movimento.

Finalmente raggiungiamo i confini della foresta e, grazie al chiarore della luna, riesco a fare un punto della situazione: a sinistra, il bosco prosegue scendendo lungo il  pendio di una collina, ma per stanotte é sufficiente; a destra gli alberi si diradano, lasciando il posto a piccoli arbusti di bosso e cespugli di more. In lontananza intravedo delle cime montuose ma non capisco quanto siano distanti.

Davanti a me un’immensa distesa erbosa si estende per centinaia di metri, terminando con una recinzione.

*Se c’è uno steccato, ci saranno anche abitazioni.*

Il vento scivola dolcemente tra i fili d’erba,  disegnando figure spettrali e il cielo si sta lentamente oscurando di nuvole minacciose.

Opto per il prato, sperando nella buona sorte.

Percorro la radura, con passo incerto ma spedito, confidando in Lucky e nei suoi sensi sviluppati.

Eravamo quasi a metà strada, quando ad un tratto si blocca nella posizione di punta; ha notato qualcosa laggiù in fondo, oltre la staccionata, labili movimenti e rumori indistinti nell’erba alta.

Inizia a ringhiare sempre più forte e, onde evitare di portare qualunque cosa fosse nella nostra direzione, mi dirigo verso destra costeggiando i cespugli.

Un rumore improvviso ci fa sobbalzare e girare di 180°; davanti a noi,  dal fitto della vegetazione, sono usciti dei vaganti, notandoci.

Il più grosso del gruppo e il più veloce mi raggiunge e mi afferra per un braccio e, nel momento in cui sta per avvicinare la bocca, gli sferro un colpo col  piede di porco così forte che il cranio si spacca in due e la bocca si piega in una smorfia raccapricciante. Lui molla la presa e mi scosto per lasciarlo cadere ai miei piedi.

Nel frattempo, un piccoletto con una salopette di un rosso sbiadito sta lottando contro Lucky, che l’ha afferrato per un lembo dei pantaloni, strattonandolo.

Mi ha preso una stretta allo stomaco; era un ragazzino di all’incirca 12 anni, con un paio di Nike ai piedi ed un sogno nel cassetto.

E non è giusto tutto questo… Non lo è affatto.

Ma non c’è tempo per maledire il destino e finisco la sua inutile esistenza, conficcandogli il coltello nella tempia.

Altri stanno sopraggiungendo, ma non aspetto che si avvicinino e mi lancio verso il fondo della radura.

Ho il fiato corto e tutto il tempo per valutare la strada migliore. Oltre lo steccato, intravedo una strada di campagna che si biforca dopo una decina di metri e sul suo selciato ci sono corpi martoriati, dilaniati e abbandonati al loro destino.

Mi si strozza un lamento in gola e il respiro si blocca.

Percorro con lo sguardo ogni corpo, nella vana ricerca di un movimento impercettibile; fermi immobili, nelle loro pose eterne ne conto a decine, distesi e impassibili in un mare di sangue.

Mi domando chi possa aver generato questa mattanza; donne, uomini e persino bambini, nessuno è stato risparmiato e, in cuor mio, mi auguro che tutto ciò sia avvenuto dopo.

Il cielo si è oscurato completamente da nuvole nere e ha iniziato a scendere una pioggia leggera ma fitta che, in parte, sta lavando via l’orrore di quella strage.

Mi lascio alle spalle quella carneficina e raggiungo il bivio. Decido di imboccare la strada di destra, dopo aver notato in lontananza una struttura che pare un piccolo capanno o un container.

Giunto sul posto scopro che è un vecchio vagone dismesso , abbandonato sulle rotaie di una linea raggiunta da una fitta vegetazione e un ottimo rifugio per due anime stanche e fradice.

Faccio scorrere la porta cigolante e mi investe una ventata di muffa mista a paglia rinsecchita.

Ci accampiamo al suo interno, tra barili vuoti e un cumulo di fieno.

Rovisto nelle tasche in cerca delle noccioline e le condivido col mio amico; ci dovranno bastare fino all’indomani. Per stanotte andrà bene e domani decideremo cosa fare ma un pensiero mi riecheggia nella mente: esistono ancora sopravvissuti che possano aver causato quel massacro?

 

 

Cala la notte e la pioggia smette di scrosciare, lasciando posto ad un silenzio quasi assordante.

Rinchiuso in questo vagone presto attenzione al minimo rumore o fruscio e alito di vento. Lucky dorme al mio fianco, stremato quanto me e nella sua beatitudine  mi consolo, promettendomi che le cose sarebbero cambiate e in meglio.

Un tonfo sordo mi desta da un sonno agitato e resto in ascolto; piccoli passi strascicati e labili lamenti percorrono tutto il vagone in ogni direzione. Scorro lentamente la porta e, nel buio della notte, scorgo decine e decine di figure scheletriche che vagano come ipnotizzate, seguendo chissà quale percorso. L’aria è pesante e odora di sangue e questo fiume di morte scorre incessante.

Ogni tanto qualche anima sbatte sulle pareti del vagone e, ciondolando, continua il suo vagare.

*Morti che camminano*

Quanti ne ho visti e quanti ne ho uccisi, ma stanotte no.

Lucky nel frattempo si è svegliato e sta diventando sempre più irrequieto, ma lo blocco subito prima che faccia un guaito, nella piena consapevolezza che, se solo si accorgessero di noi, sarebbe la fine e il nostro piccolo rifugio di fortuna si trasformerebbe in una trappola mortale.

Richiudo la porta e mi accovaccio sulla paglia in attesa del mio destino; i miei sensi sono all’erta, il sudore mi riga le tempie, il cuore batte all’impazzata e il respiro si fa pesante.

Urla e lamenti si susseguono a ritmo incalzante e poi… più nulla.

Di nuovo il silenzio, ma la paura è ancora tanta e il mio sesto senso mi chiede di aspettare ancora. La stanchezza si fa man mano più pesante e sto per desistere al torpore soporifero,  quando la porta si spalanca di colpo e la luce esterna innonda l’abitacolo, accecandomi.

Una figura enorme e scura si staglia davanti all’entrata.

-Ehi ragazzi,  qua ce n’è uno!-

Uno sparo riecheggiò tra le pareti del vagone.

 

 

Michela Iucchi

 


 

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