Editoriale

Secondo appuntamento con Nicola Furia e le sue interviste a personaggi scampati all’apocalisse zombie in Italia. Ascoltiamo la terrificante storia del soldato Omar Faruk, cuoco e infermiere…


 

Mi chiamo Silvia Ferri (non è quello il mio vero cognome…ma questa è un’altra storia), sono una cronista di guerra e ho attraversato l’Italia, invasa dagli zombie, con una squadra operativa di Miliziani. Nel corso della missione, affidatami dall’Impero Italico Libero, costituitosi dopo dieci anni dall’apocalisse originata dal risveglio dei morti, ho conosciuto tante persone. Ognuna con la sua terrificante storia di sopravvivenza. Alcune sono riuscita ad intervistarle, altre sono morte prima che potessi farlo.

Questa è la trascrizione originale e senza censure di alcune interviste.

Oggi vi presento il soldato semplice Omar Faruk, un nigeriano arruolato nella squadra con mansioni di cuoco, meccanico e infermiere. Lo intervistai a Cassino, all’interno di una libreria religiosa dove avevamo trovato momentaneo rifugio dopo l’assalto degli zombie. Stavamo attendendo di visionare un filmato sconcertante (…ma anche questa è un’altra storia).

 

 

INTERVISTA AL SOLDATO SEMPLICE OMAR FARUK

 

 
Omar Faruk: … ti dispiace se mentre rispondo alle tue domande preparo la cena? Oramai passeremo la notte qua dentro.

Silvia Ferri: No, figurati, tanto dobbiamo aspettare che riescano a collegare il lettore dvd con l’alimentazione della batteria del blindato. Però, se qui non ti senti tranquillo, se questo posto ti infastidisce, possiamo farla in un’altra occasione.

Faruk: Per quale motivo? Perché è pieno di libri cristiani? Non me ne frega niente, stai tranquilla. C’è stato un tempo in cui ho creduto di essere mussulmano e, in nome di Allah, ho compiuto una carneficina. Ma ora non più. Mai più! Non prego nessun Dio, perché non c’è nessun Dio per cui valga la pena di uccidere. E se esistesse sarebbe lui l’unico meritevole di essere ammazzato.

Silvia Ferri: Hai compiuto una carneficina? Ti riferisci agli zombie?

Faruk: No. Mi riferisco agli uomini, ai cristiani. Per un periodo della mia vita ho fatto parte di quello che, all’epoca, era il vostro incubo peggiore: il terrorismo islamico. Ma, in realtà, il vero terrore che ho vissuto, l’incubo che mi ha perseguitato per tutta la vita, è stato un altro. La fame.

Silvia Ferri: È interessante. Mi vuoi raccontare la tua storia?

Faruk: Non l’ho mai detta a nessuno, ma se vuoi, te la racconto. Mi sembra strano che a qualcuno possa interessare la mia vita.

Silvia Ferri: Perché dici questo?

Faruk: Prima dell’apocalisse ero uno dei tanti clandestini invisibili di cui a nessuno fregava un cazzo. Eravamo noi gli zombie prima della fine del mondo, sai? Ai vostri occhi apparivamo come esseri senz’anima e senza storia che si aggiravano, fastidiosamente, nelle vostre strade, rubando, spacciando, vendendo il proprio corpo nero e selvaggio.

Silvia Ferri: Non per tutti era così. Da dove provieni?

Faruk: Io sono nato a Maiduguri, nella Nigeria nord-orientale, tra la miseria e la disperazione. I miei genitori morirono quando avevo appena dieci anni. Si ammalarono a causa degli stenti a cui si erano sottoposti per permettere a me e alla mia sorellina, Adesawa, di sopravvivere. La Nigeria era il paese dell’Africa Occidentale più popoloso del continente, lì ci abitava, e forse ci abita ancora, sotto forma di zombie, un quinto della popolazione dell’Africa intera. Con un sovraffollamento del genere non si sarà salvato nessuno.

Eravamo quasi cento milioni di abitanti che vivevano nella povertà assoluta. L’80% della popolazione! La ricchezza era concentrata nelle mani di pochi che, invece, vivevano nel lusso più sfrenato. In particolare i nostri governati, amici dei petrolieri americani.

Silvia Ferri: Immagino che la tua infanzia non sia stata serena.

Faruk: Non ho mai avuto un’infanzia. Alla morte di mio padre presi il suo posto di lavoro nel giacimento dove veniva estratto il petrolio. Ero un bambino, costretto a sgobbare dalla mattina alla sera per riuscire a portare a casa un tozzo di pane che dividevo con mia sorella. Vivevamo con l’equivalente di un euro al giorno.

Silvia Ferri: Un euro! Come si fa sfamare una famiglia con un euro?

Faruk: Tu sai cos’è la fame, la vera fame? L’hai mai provata? Un dolore lancinante, fisso, che ti impedisce di pensare, di dormire, di respirare. Un mostro che vive nel tuo stomaco lacerandolo senza tregua e pietà. Io soffrivo non solo per me ma, soprattutto, per la mia sorellina, di sei anni più piccola. Un passerotto di quattro anni che vedevo deperire ogni giorno di più. Fu così che, all’età di quindici anni, entrai in contatto con le milizie di Boko Haram.

Silvia Ferri: Erano terroristi islamici?

Faruk: Sì. I componenti di quella cellula terrorista rovistavano tra la miseria e la disperazione, arruolando nelle loro fila ragazzini come me. In realtà, più che terroristi, gli adepti di Boko Haram erano una setta religiosa. Sostenevano che non era vero che la Terra fosse rotonda e che la pioggia cadesse in seguito all’evaporazione dell’acqua. Ma a parte queste stronzate, dicevano anche cose giuste, soprattutto quando affermavano che la colpa della nostra povertà era delle democrazie occidentali.

Silvia Ferri: In che senso?

Faruk: Tu lo sai che la Nigeria era l’ottavo produttore mondiale di petrolio? Eppure non esisteva neanche una raffineria. Tutto il petrolio, estratto da noi, veniva importato nei vostri continenti. I petrolieri occidentali avevano corrotto i nostri governanti. Ed era contro l’Occidente, mi dicevano, che bisognava condurre la guerra santa. Questo era il volere di Allah! Quegli uomini non mi offrivano solo un valido motivo per impugnare le armi ma, soprattutto, un pasto abbondante ogni giorno per me e per mia sorella. Come avrei potuto rifiutare? Se Allah mi dava da mangiare, io avrei ucciso per Allah.

Silvia Ferri: E lo hai fatto? Hai ucciso delle persone?

Faruk: In realtà non ero capace di uccidere a sangue freddo e l’imam, che comandava il gruppo, se ne accorse subito. Mi affiancò al dottore che dirigeva l’ospedale da campo dove venivano curati i compagni feriti nei quotidiani scontri a fuoco con i governativi. È lì che ho imparato i rudimenti della medicina. E ti assicuro che pochi anni di esperienza su un campo di battaglia del genere, tra amputazioni, estrazioni di pallottole e ricuciture, valgono più di una specializzazione in chirurgia presa in qualunque ospedale del mondo civile.

Silvia Ferri: Ora capisco le ragioni di una della tue specializzazioni.

Faruk: Già. Poi, un giorno maledetto, arrivò l’ordine anche per me di colpire il nemico di Allah. Sarei dovuto andare a Damaturu, la capitale dello Stato di Yobe, nel nord-est della Nigeria, e piazzare una bomba in un covo di infedeli.

Silvia Ferri: Avresti dovuto fare una strage? E non potevi rifiutarti?

Faruk: Non potevo rifiutarmi e, comunque sia, ritenevo giusto colpire i responsabili della morte dei miei genitori e del dolore nel quale, io e mia sorella, eravamo stati costretti a vivere. Poiché ero un ragazzino, con la faccia innocente, non avrei dato nell’occhio, per cui, dopo essere entrato nell’edificio che mi sarebbe stato indicato, avrei dovuto depositarvi una borsa piena di tritolo. I miei compagni avrebbero successivamente innescato il detonatore a distanza, giustiziando così i nemici dell’Islam.

Silvia Ferri: Di quale edificio si trattava?

Faruk: Solo quando giunsi sul posto, con la borsa a tracolla e il cuore colmo di paura e di voglia di vendetta, mi resi conto che l’obiettivo era una chiesa cristiana. Non ci trovai dentro ricchi petrolieri americani e neanche grassi politici corrotti. La chiesa era gremita da famiglie povere come me. Nei loro volti leggevo la stessa disperazione e la stessa fame che avevo provato io. L’unica cosa che mi differenziava da loro era il diverso indirizzo celeste a cui spedivamo le nostre preghiere per non patire più quelle sofferenze. Che senso aveva ammazzare quelle persone? Perché Allah voleva annientarle? Che colpe avevano?

Silvia Ferri; E a quel punto non potevi tirarti indietro?

Faruk: Oramai ero lì e, se mi fossi rifiutato, non sarei stato solo io a subirne le conseguenze, ma anche mia sorella. Come l’imam aveva previsto, nessuno fece caso alla mia presenza. Lasciai la borsa sotto la statua di una Madonna, posta vicino all’altare, e uscii rapidamente con il cuore in gola. Non mi diedero neanche il tempo di allontanarmi del tutto che fecero esplodere la bomba. La deflagrazione mi investì mentre stavo ancora a pochi metri dalla chiesa, sbalzandomi violentemente in avanti e facendomi finire, faccia terra, sulla strada. Quando mi alzai vidi l’orrore di cui ero stato artefice. Corpi insanguinati e smembrati uscivano barcollanti dalla chiesa distrutta avvolti dal fumo e dalle fiamme. Ragazzini della mia età e bambini dell’età di mia sorella che urlavano disperati, cercando tra le macerie dove fossero finiti i loro arti o i loro genitori. Che cazzo avevo fatto! Non mi sarei mai perdonato. Che Dio era quello che pretendeva un così alto e ingiustificato tributo di sangue? Era questo il prezzo da pagare per continuare a sfamarmi?

Silvia Ferri: Oddio! Ma che gente è quella che usa un ragazzino per compiere un’azione del genere?

Faruk: «Bravo Omar», mi disse l’imam quando tornammo al covo. «Ora anche tua sorella sarà una guerriera di Dio. La prossima missione la porterà a segno lei.» Questo non lo avrei mai permesso! Vaffanculo all’imam e vaffanculo ad Allah! Mia sorella non avrebbe vissuto la mia stessa esperienza, non si sarebbe resa responsabile di un eccidio. Non era giusto. Quella notte stessa riuscii a entrare di nascosto nell’ufficio dell’imam e gli rubai i soldi che servivano per comprare altro tritolo. L’imam aveva ragione, ero un ragazzino che passava inosservato e nessuno fece caso a me. Svegliai mia sorella e fuggimmo da quel campo di addestramento dove si uccideva l’infanzia, dove i bambini venivano trasformati in feroci assassini. Durante gli anni trascorsi con i terroristi avevo conosciuto un gruppo di persone che, dietro esosi compensi, organizzavano viaggi per clandestini a Lampedusa. Li contattai quella notte stessa e mi trasportarono, insieme a un’altra decina di disperati, in Libia. Qui, dopo essersi presi fino all’ultima moneta del mio bottino, mi ordinarono di salire a bordo di un barcone stipato da centinaia di fuggitivi, diretto verso le coste di Agrigento. E così arrivammo nel tuo Paese, stanchi e affamati, e iniziò la mia vita da clandestino.

Silvia Ferri: Immagino quanto sarà stato difficile per te e tua sorella integrarvi in Italia. Riuscisti a trovare un lavoro?

Faruk: Sì, ovviamente al nero, in un ristorante. Ero appena maggiorenne e mia sorella aveva dodici anni. Entrambi eravamo impiegati come lavapiatti e come addetti alle pulizie. Sfruttati e mal pagati, ma almeno avevamo da mangiare. Lì imparai anche a cucinare, e così fui promosso aiuto-cuoco, con lo stesso stipendio da inserviente. Poi avvenne quello che non sarebbe mai dovuto accadere. Quel porco del proprietario del locale, un anziano e grasso bastardo, tentò di violentare mia sorella. Appena lo seppi gli urlai tutto il mio disprezzo e minacciai di denunciarlo alla Polizia. «E fallo, se ne sei capace!», mi rispose lui, ridendomi in faccia.

Silvia Ferri: E perché non l’hai fatto?

Faruk: Come avrei potuto farlo? Non solo non mi avrebbero creduto ma, scoprendo che ero un clandestino, sarei stato rispedito in Nigeria con il primo aereo, e lì avrei trovato gli uomini di Boko Haram pronti ad appendermi per le budella. Fu un mio connazionale a indirizzarmi a Roma, nel quartiere di Centocelle, dove contattai un altro nigeriano che gestiva lo spaccio di eroina. Iniziò così la mia nuova professione di venditore di morte. Non mi piaceva farlo, ma nella vita, come sai, avevo fatto di peggio. Mi vergogno a dirlo ma usavo anche mia sorella in questa attività. Era lei che custodiva le bustine di brown sugar consegnandole ai tossici dopo il pagamento. Quella droga trasformava gli uomini in morti viventi ma, alla fine, i morti viventi arrivarono davvero in cerca di vendetta.

Silvia Ferri: Avevi venti anni quando scoppiò l’apocalisse, giusto?

Faruk: Sì e Adesawa ne aveva quattordici. Era bellissima. Le sofferenze e le traversie patite non l’avevano minimante intaccata. Era un fiore che stava sbocciando e…

Silvia Ferri: Se vuoi interrompiamo. Mi rendo conto del dolore che hai vissuto.

Faruk: No. Non ti rendi conto di niente. Non puoi. E tutto quello che fino ad allora avevo sofferto, non era nulla rispetto a quello che avvenne con la fine del mondo.

Slivia Ferri: Me ne vuoi parlare?

Faruk: No. Non vorrei farlo, ma oramai convivo con i rimorsi da tanti anni e non è tacendo che allontanerò i ricordi.

Silvia Ferri: Fu così terribile?

Faruk: L’imam avrebbe detto che era il castigo di Allah per averlo rinnegato. Forse, invece, era la vendetta di Cristo per la strage dei suoi seguaci. Io, però, ritengo che fu la maledizione della fame. Fu per fame che uccisi, fu per fame che spacciai eroina e fu la fame a presentarmi il conto quando il mondo finì.

I morti viventi dilagavano nelle strade impazzite alla ricerca frenetica di nuove vittime. Io afferrai mia sorella e fuggimmo rifugiandoci in una baracca di lamiera, la stessa che usavamo come deposito della droga. Fu una cazzata! Un’enorme cazzata!

La baracca venne circondata da decine di zombie. In breve divennero centinaia e noi rimanemmo imprigionati lì dentro, senza alcuna possibilità di fuga. Sì, le lamiere erano spesse e resistenti, la porta era blindata e non c’erano finestre. I morti non potevano entrare, ma noi non potevamo uscire.

Dopo un paio di giorni arrivò il vero mostro, il più crudele, il più spietato: la fame! Quella fame maledetta che mi aveva perseguitato per tutta la vita. Dentro quel rifugio c’era un lavandino e potevamo placare la sete. Ma non c’era nulla da mangiare. Vedevo mia sorella spegnersi ogni giorno di più. Un fiore che stava appassendo, arido e pallido. E io non potevo fare nulla. Provai anche a tentare una sortita. Volevo farmi inseguire per permettere a mia sorella di sgattaiolare via. Ma fu impossibile. Non riuscivo neanche ad aprire la porta. Gli zombie erano ammassati su tutte le pareti formando una barriera invalicabile.

Fu allora che decisi di non prolungare l’agonia di Adesawa, oramai in un costante stato di incoscienza. Riempii un bicchiere d’acqua e ci sciolsi dentro cinque bustine di eroina. Lei bevve senza neanche chiedersi cos’era. Si fidava di me. L’avevo protetta per tutta la vita e rimase convinta, fino all’ultimo, che in qualche modo l’avrei salvata. Fu colta da due brevi convulsioni, girò gli occhi all’indietro e morì stringendomi forte la mano…

Silvia Ferri: È terribile, mi dispiace.

Faruk: Non fu questa la cosa più terribile, Silvia. Non fu questa! Sai cosa succede in un uomo che combatte tutta la vita per sopravvivere? Quell’uomo sviluppa un istinto di sopravvivenza superiore alla media. Più la vita ti rifiuta e tu più ti ci attacchi. Invece di vedere la morte come una liberazione, tu la combatti con i denti e con le unghie.

Silvia Ferri: Cosa intendi dire?

Faruk: Intendo dire che la morte di Adesawa non placò la fame che mi stava divorando l’anima. E fu la disperazione a farmi balenare nel cervello impazzito quell’idea assurda, malata. Mia sorella era lì, il suo corpo era lì… la sua carne era lì!

Silvia Ferri: Oddio!

Faruk: Dio è un bastardo! E noi siamo fatti a sua immagine e somiglianza. Dio prese una costola di Adamo e creò la donna. Perché io non potevo prendere una costola di Adesawa? Un brandello della sua carne per rimanere in vita. Cazzo, avevo lottato tutta la vita per lei, mi ero sacrificato rinunciando a tutto per proteggerla. Non era giusto che adesso lei si sacrificasse per me? Era morta. Non avrebbe sentito nessun dolore. Un morso, solo un morso, per ripagarmi di tutti i sacrifici.

Silvia Ferri: L’hai fatto?

Faruk: Si! Cazzo sì! Ho addentato il suo dito mignolo e, come uno zombie, l’ho staccato a morsi, l’ho masticato e ingurgitato avidamente… Ti faccio schifo, vero?

Silvia Ferri: No, Omar, non mi fai schifo. Mi fa schifo quello che abbiamo dovuto sopportare tutti noi. Perché è successo tutto questo?

Faruk: Perché Dio è un bastardo figlio di puttana! Uno stronzo che si diverte vedendoci correre disperati in questa palla di fango e di merda che lui stesso ha creato. E con me non si era ancora divertito abbastanza! Vuoi sapere cosa successe subito dopo? Non feci in tempo a inghiottire il dito di mia sorella che sentii una scarica di colpi di arma da fuoco attorno alla baracca. Mi gettai a terra per evitare di essere colpito. Quando la sparatoria finì bussarono alla porta. «C’è qualcuno vivo qui dentro?» Senza riuscire a capire se ero sveglio, se stavo sognando o se ero impazzito del tutto, aprii la porta e vidi le milizie di Proietti che avevano sbaragliato l’assedio degli zombie. «Vedendoli concentrati tutti attorno a questa baracca abbiamo pensato che dentro ci fosse qualche sfigato ancora vivo», mi disse il tipo che comandava la squadra. E così fui tratto in salvo. Ti rendi conto? Sarebbe bastato aspettare un’altra ora e mia sorella sarebbe ancora viva!

Silvia Ferri: Ma non potevi saperlo, non devi fartene una colpa.

Faruk: Bastava che resistessi per un’altra mezzora e non avrei vilipeso il suo corpo, non avrei mangiato la sua carne, non avrei portato, per il resto dei miei giorni, quel sapore dolce e selvaggio nella bocca!

Ecco la mia storia, Silvia. Una storia di disperazione, di dolore… di fame.

Silvia Ferri: È una storia terribile, Omar. Ma tu sei una vittima, non un carnefice. Mi dispiace tantissimo. E devi perdonarti. Ti prego, vieni qui, fatti abbracciare…

Faruk: Grazie… grazie…

Il Cinico: Ma che bella scena romantica! Mi dispiace interrompere i preliminari di un’imminente scena di sesso sfrenato, ma volevo informarvi che siamo riusciti a collegare il lettore dvd. Vi interessa la visione del filmato? Ehi, che sono quelle facce? Perché state piangendo?

Silvia Ferri: Felix! Vaffanculo!

 
 

 


Nota: il capitolo è tratto dal romanzo APOCALISSE ANNO 10 – VIAGGIO NELL’ITALIA DEGLI ZOMBIE di Nicola Furia (Arkadia editore), disponibile in ebook e cartaceo in tutte le librerie on line.


 

 

Lascia un commento