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Torna Michele Rubini con la prima parte di un racconto zombesco deliziosamente malinconico.


Bambini

Michele Rubini

 

 

«Paolo che cosa aspetti?»

«Francesca aspetto la morte»

«Allora non temere, stanne certo, arriverà»

«Siamo tutti malati terminali, sto solo ritardando».

Poco prima di conoscere Francesca vivevo in un monolocale a Firenze, lavoravo come infermiere di sala operatoria. A dir la verità prima di conoscere Francesca, avevo compreso il piacere del primo stipendio. I soldi mi servivano, dovevo pagare un oneroso affitto per un monolocale di merda, mangiare e cercare di tirare la cinghia fino al 27, fatidica eldorado per i dipendenti pubblici.

Con l’arrivo dei primi soldi, ero stato costretto ad accendere un conto corrente bancario ed ero felice per questo fuoco interiore della mia vita. Il primo stipendio dopo anni di studio ed inevitabile emigrazione. Dovevo aprire un conto in banca e sentirmi parte della società, incontrovertibile momento del cammino di ogni essere vivente. Dovevo unirmi in nozze con la finanza, quasi fosse un matrimonio obbligato, felice ed inconsapevole e questo forzato percorso mi era stata inculcato negli anni, in famiglia, nei luoghi di socializzazione, a scuola, tra gli amici. Ed io mi fidavo.

La banca per me rappresentava un luogo dove custodire i soldi.  Ero limitato, le “altre” domande non mi sfioravano, forse perché non ero capace di chiedermele. Legittimamente a 24 anni ti dici dopo il primo stipendio:

«Che culo, sto lavorando, quanto costa quella jeep che scorrazza in tv e nei miei sogni, posso comprarla!»

«Posso finalmente acquistare quei jeans che guardavo dietro una vetrina di un negozio col vetro antiproiettile»

«Posso strafogarmi di cibo in un ristorante e produrre la stessa cacca di un Signore».

Te ne freghi di “altre domande”, perché tutto ciò che è distante, non deve intaccare la mia serenità. Ciò che è fuori coscienza, ciò che è lontano, non può distruggere ciò che ho guadagnato col sudore e col sacrificio. Ciò che conta davvero, è avere, possedere e fregarsene dell’essere e degli altri.

Ero nudo quel giorno, completamente scioccato da quei due monconi tagliati come se lavorassi in una macelleria. Carne, muscoli, legamenti sfilacciati e ossa sbriciolate da una sega e due piccole gambe ancora sanguinanti, sigillate in un sacco, affidatemi da un “superiore” per lo smaltimento differenziato.

Ti inchini al più alto in grado ma non essendo un militare, gli chiedi senza timore:

«Perché?».

Il superiore mi spiegò frettolosamente che le gambe erano appartenute ad un bambino, spappolate da una mina in un luogo imprecisato dell’Africa.

La distanza è un concetto che è caduto davanti a miei occhi, la lontananza si è assottigliata, la diversità si è tramutata in vicinanza. Non puoi non chiederti:

«L’Africa, quale Africa?».

«Come possono esserci le mine sotto le gambe di un bambino che gioca?».

«Dove fabbricano le mine?».

«Chi finanzia questo orrore?».

Tornai a casa con lo stomaco pieno di vomito e iniziai a liberarmi con la ricerca: «Mina, fabbrica di armi, guerra, soldi, banche».

«Alcune banche contribuiscono a finanziare le industrie belliche, i miei risparmi possono spappolare le gambe. I miei soldi possono uccidere»

E mi sentivo un correntista della morte, un risparmiatore per l’aldilà, un assassino.

Oggi le banche sono inutili cattedrali di cemento, i soldi cartastraccia, non puoi neanche pulirti il culo.

Mentre le armi sono come il petrolio, neanche l’apocalisse ne ha distrutto il loro potenziale di scambio.

L’apocalisse era scoppiata davvero, fragorosa e senza preavviso.

Oggi sono semplicemente Paolo, un ex infermiere, assoldato dalla comunità che mi ha adottato, obbligandomi ad espletare le mie mansioni, assistere i malati, quelli acuti per intenderci.

Ho visto migliaia di esseri umani trasformarsi dopo aver esalato l’ultimo respiro. Anche Francesca era rinata putrefatta tra le mie braccia. Francesca tormenta i miei sogni sin dall’inizio di questa cazzo di apocalisse, in verità era la fine.

«Paolo Sotgiù, ti forniremo un furgonato per il trasporto di eventuali sopravvissuti. Quest’arma con silenziatore ti servirà. Acqua, cibo in scatola, tre lanciarazzi, benzina, coltello, fune, fucile per le bestie e tutto l’occorrente per il tuo viaggio sono stati collocati nel cassone del furgonato».

«Aggiungeteci un biglietto di ritorno e un orologio da polso, almeno potrò timbrare, guardando in orario il mio trapasso».

«Porta con te questa bibbia. Buon viaggio Paolo e ci riporti speranza»

«Una Gertrude andrebbe bene? La bibbia la metta da parte per il mio ultimo viaggio»

«Paolo Sotgiù questo è il tuo compito: cercare sopravvissuti, antibiotici, antipiretici, siringhe, flebo, deflussori, garze, aghi canula, tutto ciò che possa servire a fornire un’adeguata assistenza ai malati, feriti, anziani»

«Ok, grazie Francesca, che compito di merda»

«Non mi chiami Francesca! I farmaci salvavita aiuteranno la nostra comunità a ripopolarsi, creando speranza, forza lavoro e futuro»

«Questo parla come un fottuto imprenditore».

I ricordi di questi mesi di primo soccorso me li porterò con me, negli intestini. Vi immaginate mentre rianimo un ex rugbysta che inseguito da un fottuto zombie, ha avuto un arresto cardiaco?

Tutti quei sopravvissuti alle febbri, crampi della fame, fratture, ferite da taglio, sparo, botto, infarti, polmoniti, coliche renali. Cazzo quanto fanno male le coliche renali.

Mi contorcevo nell’improvvisato giaciglio notturno come una mosca che tenta di liberare le ali da una merda. Sudici sedili di un furgonato.

Dovevo riprendere il cammino per un rifugio sicuro e compiere il mio destino, lavarmi.

Oltre il parabrezza l’aria era come cenere, una falsa Luna non aiutava a scrutare, intorpidiva.

«Coraggio, metti in moto e fatti ammazzare», avrei ripreso il viaggio alle prime luci dell’alba.

«Francesca, ti prego, lasciami riposare e non per sempre»

«Paolo, lasciami qui e va via, devi compiere il tuo destino» e Francesca troncò la frase, esalando l’ultimo respiro, trasformandosi in un mostro. Da allora tormenta i miei sogni.

Ripopolamento della comunità, ora è questo il mio compito.

Francesca ne sarebbe certa, i ripopolanti mi avrebbero accompagnato sulle loro spalle nel mio ultimo viaggio, su una bara di legno e frattaglie, lanciato come un putrido cocomero in una fossa cimiteriale della comunità a fare da concime alla terra, la terra unica vera sopravvissuta al virus che ha distrutto gran parte della popolazione mondiale, almeno così raccontano i social network e le televisioni, prima di spegnersi, definitivamente.

Dovessi morire da vecchio, bruciatemi e versate i resti in un cesso affinché le polveri del mio corpo possano ricongiungersi con la fogna.

Dovessi morire da giovane, lanciatemi in orbita in una capsula interstellare per inquinare l’universo intero.

Eccomi qui alla ricerca del futuro e perché no di una famiglia. Ora ho 35 anni e potrei innamorarmi di una quindicenne tra dieci anni sempre che Francesca non mi tormenti al doppio. Non staremo a badare alle sottigliezze durante l’apocalisse.

Ed ecco la sveglia, graffi sulla portiera. Non erano proteste per il parcheggio in doppia fila, non erano le corna di un muflone e ne dispettosi bambini. Due enormi tette come due scamorzoni stagionati racchiusi dai bottoni metallici di una logora camicia di jeans, strisciavano sul furgonato.

Doveva essere stata una bella ragazza, conservava quella detestabile bellezza della morte appena sopraggiunta.

«Buongiorno signorina, me ne dia mezzo chilo»

«Ahr, ahr, ahr, grr, grr…».

Queste bestie non dormono mai, chissà se sognano.

Le disegno in silenzio un terzo occhio, proprio sul centro della fronte affinché possa vedere il paradiso. Un leggero rinculo, nessun grugnito, ne urla. Si è accasciata al suolo come una ballerina colta da un malore, la leggerezza della morte liberatrice.

«Buon viaggio bellezza, salutami Francesca e dille di finirmi… la frase».

Quella villetta fa al caso mio, vorrei potermi lavare, sedere su un cesso e godermi il panorama.

Il piano d’azione è sempre uguale. Occupo abusivamente una villetta, la metto in funzione in modo da attirare zombie, esseri umani, animali, predatori insomma. La villetta di fronte è la mia torre d’avvistamento.

Sono fuori nel giardino, l’adrenalina scorre nelle vene e il mio sguardo è attratto da un ulivo, immenso, il tronco imbalsamato da una sciarpa di plastica. Dicono che serve per non farlo morire, lo protegge dal freddo. E mi penso qui e non vorrei mai esserci. Gli occhi si posano sulla base di questa quercia violentata e vedo il destino che avrei voluto con Francesca: un portacandele quadrato in vetro, su cui è scritto HOME. Non so se è un augurio o l’oblio.

Casa dolce casa, Francesca, la nostra casa, almeno quella che avremmo voluto. Avrei potuto immaginare tutto ma proprio tutto, una casetta in campagna, sai benissimo che adoro la tranquillità che può offrire una semplice folata di vento che smuove le foglie degli alberi come piccoli strumenti musicali che suonano le stagioni. E magari avrei voluto un figlio, una piccola peste da crescere, educare ed amare. Invece la peste è qui attorno a noi, dappertutto e sono qui alla ricerca di figli non miei, di farmaci per gli infermi, di frattaglie per la sopravvivenza. Difficile Francesca, difficile. Difficile ce lo ripeteva sempre George, arrivato dal Sud Sudan, dove l’apocalisse in effetti c’era già nella normale quotidianità.

«La vita difficile Paolo, pochi soldi, lavoro pagato poco, difficile Paolo».

George si è fatto spolpare per difendere la comunità che lo aveva accolto. L’ho visto divincolarsi, lottare, ferocemente e poi quando è crollato, la scena più raccapricciante vedere il suo cazzo strappato a morsi, penzolante dalle fauci di uno zombie che magari era anche vegetariano. Aveva tante doti George.

E ci ripetevamo sempre, Francesca, nostro figlio lo chiameremo George, ma avevo sempre quell’immagine del cazzo dondolante in bocca allo zombie, si, ricordo, cambiammo idea.

Per quanto tempo durerà ancora questa immensa ed opprimente cappa di disperazione? Come morirò, in che modo lascerò questa vita? Sbranato da un bambino zombie? Oppure un infarto fulminante, ma non vorrei lasciare la mia carne in pasto a nessuno. Magari un ab ingestis con soffocamento o addirittura un meteorite che mi sfonda il cranio. La morte che desidero? Vorrei non potermene accorgere.

Finalmente è arrivato il primo cliente, un bambino, un maschietto, sembra in buona salute. Devo essere cauto, fidarsi è bene, non fidarsi è meglio.

 

 

Michele Rubini

 


 

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