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Piombo, zombie e fiocchi di neve nel racconto natalizio di Michela Iucchi e Hans von Oberhausen. Leggilo cliccando qui


 

IL CECCHINO DI NATALE

di
Michela Iucchi e Joe Oberhausen-Valdez

 

 

Il cielo plumbeo lasciava presagire un temporale imminente e sferzate di vento gelido da est s’incanalavano per le vie deserte, tra gli scheletri di cemento di edifici abbandonati, fino a toccare il giardino comunale in cui, un tempo, risate di bimbi si intrecciavano con le musiche del luna-park.

Niente era più come prima, niente corrente elettrica, niente cibo, niente governo e niente esercito. Dove un tempo il caotico viavai riempiva le strade, ora la desolazione regnava sovrana.

Molti avevano abbandonato quel luogo, come tanti altri, e i sopravvissuti, quei pochi disperati rimasti, si erano rifugiati nel sottosuolo, unico luogo ancora sicuro dalle radiazioni, e al riparo da “Loro”.

Io sono nata qui, ventitré anni fa, quando la disperazione era all’ordine del giorno, ma il desiderio di vivere era più forte. E crebbi così, forte, testarda, determinata a cambiare il corso degli eventi.

Dicono che siamo legati al destino, un filo invisibile e resistente da cui siamo indissolubilmente avvolti e a cui non possiamo sfuggire; ma io credo, anzi sono fermamente convinta, che siamo noi i creatori del nostro avvenire e Hans ne è la prova vivente.

Fin da piccola ero a conoscenza della leggenda del “Cecchino di Natale”, e nel nostro rifugio angusto, attorno al chiarore del fuoco, i grandi raccontavano di quest’uomo arrivato non si sa da dove, che nella notte di Natale si appostava sui tetti degli edifici fatiscenti con il suo Dragunov, ripuliva le strade, ogni anfratto, le piazze, fin dove arrivava lo sguardo dai putridi che infestavano il nostro mondo.

Nel silenzio mortale che aleggiava, riecheggiavano gli spari cadenzati del suo potente fucile. I mostri cadevano qua e là come foglie secche, dando a noi sopravvissuti la speranza di prolungare ancora un po’ la nostra esistenza.

Col tempo imparammo ad accettarlo, aspettarlo con gioia e trepidazione, come un tributo.

La consapevolezza di essere protetti ci fece uscire dai nostri ripari sotterranei e cercare nuova dimora tra le pareti degli edifici, e alla vigilia di quel giorno accendevamo una candela sui davanzali delle finestre, per far capire al nostro “salvatore” che c’erano ancora dei sopravvissuti a cui dare speranza.

E lui tornava, sempre. Come un angelo sceso dal cielo spiegava le sue ali, avvolgendo la città sotto una coltre di beatitudine e puntando il suo dito inquisitore contro i peccatori, ci liberava dal male ancora una volta.

Ma si sa che la curiosità è femmina, e quando fui abbastanza grande e cosciente delle mie capacità, volli conoscerlo e dare un nome a quel mito.

Mio padre, a cui devo tutto il mio sapere militaresco, mi dissuase dall’incontrarlo, considerandomi una temeraria sprovveduta, ignara delle reali intenzioni di quell’uomo, che invece, ai miei occhi, appariva come il supereroe che infestava i miei sogni da bambina.

Lo aspettai tutta la notte, avvinghiata ad una coperta di lana, sopra il terrazzo della scuola, con le candele che ero riuscita a procurarmi, posizionate in bella mostra sul cornicione. Una lattina di carne come spuntino e un pensiero caldo nel cuore.

Mi svegliai intorpidita dal freddo e dalla posa scomoda del mio giaciglio di fortuna e lo vidi, davanti a me, chino sul mio infantile stupore in tutta la sua magnificenza.

La mia prima reazione fu di scattare all’indietro fino a che colpii con la testa il cordolo perimetrale che delimitava il tetto, per poi balbettare qualche frase biascicata e senza senso. E lui era lì, fermo, inginocchiato e appoggiato al suo fucile in una posa che ricordava quegli antichi cavalieri che avevo visto in un vecchio e logoro libro di racconti medievali.

Indossava un cappotto di lana cotta color muschio, usurato, guanti neri, folti, che lasciavano scoperte le dita, una sciarpa tirata su fino al naso e un berretto rosso, calato su di un fianco con uno stemma dorato sul davanti e una stella rossa nel mezzo. Solo gli occhi non erano celati a me, e quello sguardo era temibile, scaturiva dall’intensità di due iridi di un celeste glaciale, che infondevano sicurezza, calore, passioni ed emozioni che non avevo mai provato prima.

Mi porse la mano in segno di benvenuto o di aiuto, non saprei dire. So soltanto che da quel giorno non abbandonai più quella mano tanto agognata.

Era un soldato, Hans, uno di quelli che all’epoca delle guerre fra uomini era nei posti più reconditi e pericolosi, a rischiare la vita per una bandiera, per un’ideale, per un mondo migliore o forse per la gloria. O forse soltanto per placare una rabbia covata nel più profondo, mai acquietata. E tornava qui, dove tutto era iniziato, per onorare i perduti e sperare di ritrovare quella pace dimenticata.

Hans mi prese con sé, fu il mio mentore e il mio confessore; fu colui che mi iniziò all’arte della guerra; perfezionò le mie rudimentali nozioni di strategie, di tattiche di sopravvivenza, e, cosa che più di tutto adoravo, come rendersi invisibili e operare nell’ombra.

Ero diventata abilissima con il coltello, un piccolo gioiello italiano regalatogli da un sergente di stanza a Gibuti nel lontano 1989 e perfettamente conservato, ventidue centimetri di lama in acciaio brunito per un peso complessivo di 550 grammi ben distribuiti.

Ero diventata agile nel saltare da un tetto all’altro, veloce nello scatto e resistente alla fatica. Avevo affinato l’udito e l’olfatto e la mia mira aveva ormai una precisione inusitata.

Quell’anno la “festa di Natale” durò fin oltre l’apparire dei primi boccioli sui rami ed io ero felice che lui avesse deciso di rimanere.

Ma non avevo capito, finché non ne ebbi la certezza, che tutta questa preparazione aveva uno scopo ben preciso.

Fu un bel giorno di sole, in cui l’aria era fresca e il cielo terso, quando finalmente avevamo preso tutti coscienza della nostra superiorità sui non-morti, che lo notai; appoggiato alla ringhiera del terrazzo della sua casa, a cui era tornato, guardava il giardino sottostante dove stavamo notti intere ad ammirare le stelle, a parlare e lo vidi farsi cupo e triste, finché un attacco di tosse improvviso lo fece accasciare svenuto.

Era sofferente, assediato e invaso da uno di quei mali incurabili che nemmeno la scienza avrebbe potuto curare, nemmeno se avessimo avuto le attrezzature giuste e tutte le medicine del mondo.

Volle farsi artefice della mia crescita, della mia rinascita e avere un emulo. Mi lasciò il suo fucile, come un testimone da consegnare al traguardo, come un fardello da portare addosso per espiare le mie colpe o le sue…

“Io, vittima e carnefice, giudice e giustiziere, complice in una vita voluta e dovuta forse per amore o forse no”.

 

Lui, come arrivò così se ne andò, nell’indifferenza di un mondo silenzioso, alle prime luci dell’alba, al chiarore flebile dell’ultima candela ancora accesa.

 

Sono passati anni da quell’addio, il mondo è un po’ meno ostile e i vaganti sempre più rari. Le città hanno ripreso a rianimarsi e la gente a tornare a vivere.

Le mie incursioni notturne divennero via via sempre meno frequenti e i sopravvissuti non accendevano più le candele sui davanzali in mio onore.

Il mio compito era concluso, le mie colpe espiate e lasciai che il mondo si arrangiasse.

Solo in seguito seppi che Lui tornò in quel luogo tanto caro, dove tutto ebbe inizio e dove finì. Ma non tornai. Mai più.

Lo trovarono mummificato dal tempo e dal sole. Un colpo solo, un unico colpo in fronte pose termine alle sofferenze di quel gracile corpo ormai corroso dal cancro, disseminato in ogni anfratto. Sempre più spesso abbandonava la sedia a rotelle e riusciva a forza di braccia ad arrivare in terrazza e come tutte quelle ultime settimane, di sera, si affacciava a guardare lontano, verso il golfo, ogni tanto sbirciando la luna e quelle poche stelle che riusciva a vedere senza sollevare la testa.

Immobile e perduto, cercava invano con un affanno indimostrabile quell’ogiva del Dragunov che aveva regalato a Michelle.

La cercava sui piccoli colli che circondavano la sua casa, appartata e silenziosa, spronando più i pensieri che gli occhi nel desiderio di quest’attesa.

Voleva essere “concluso” lì sulla sua terrazza, dove un tempo correva come un essere umano. E magari seppellito sotto il pino, vicino al vecchio cane di sua sorella.

Quel logoro fucile era ancora agile ed efficiente, consumato in qualche punto, ma ben oliato e funzionante, come si dimostrò tutte quelle volte che insegnò a Michelle a “tirare” da sopra i tetti o dai boschi verso le radure sottostanti.

Lei era innamorata di quell’arnese e lui glielo regalò quando la consapevolezza del degenerare del suo male lo spinse alla ricerca di un boia. Da solo non sarebbe mai riuscito ad abbandonare quest’esistenza. O forse sì. Ma era un romantico. E anche quella sera attendeva di spegnersi in dolce compagnia, per mano di Michelle e del Dragunov.

Era la notte di San Silvestro, e improvviso, sulla collina di fronte, brillò per l’ultima volta il luccichio sbiadito dell’amato Dragunov. E fu il buio.

Finalmente.  

 


 


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