EditorialeRacconti brevi

La nostra Anna Liguori torna con un racconto dell’universo dei creepypasta.



 

Creepypasta – La Venere nera

Lo chiamano Jeff il Killer. Il ragazzo sfigurato dal ghigno prepotente.
Un adolescente psicopatico con una sola ragione di vita: l’omicidio.

 

Dalla finestra della cucina, vedo il giardino dei vicini addobbato in grande stile, richiamo alle imminenti feste natalizie. Il mese di dicembre vuol dire solo Natale, niente tasse, debiti e rate in scadenza. L’arroganza di questa festa mi disturba.  Dalla camera da letto il suono familiare di chi si rigira tra i cuscini. Sono le tre passate, ma all’insonnia non faccio ormai più caso.

C’è stato un tempo in cui dormivo profondamente, mi bastava sentire il respiro di mio marito. Dopo anni di solitudine la compagnia agisce come una droga, ti inebetisce e, a volte, ti dipinge la realtà come qualcosa di gradevole, senza problemi, ansie, paure. Ma non dura per sempre.

Fu proprio durante gli inizi di dicembre che scoprii che Daniel mi tradiva. A volte basta una sciocchezza, un cellulare lasciato incustodito, una password disattivata… e poi il precipizio da cui cadi dritta nell’inferno più cupo. Muta, senza alcun lamento, gettai la mia vita in valigia e me ne andai.

Era come se avessi messo il cervello in standby. Non ricordo cosa successe nei giorni successivi alla mia partenza, rinvenni solo qualche giorno dopo, quando la voce di un poliziotto mi informò che Daniel era morto, morto ammazzato.

Mi precipitai a casa, il luogo del delitto. Daniel giaceva supino sul letto, il ventre completamente aperto, le viscere facevano capolino vermiglie e luccicanti, mi vennero in mente le luci di Natale messe sul balcone qualche giorno prima.

Rimasi inspiegabilmente impassibile alla scena; qualcuno pensò ad un profondo stato di shock, in realtà trattenni un certo piacere agli occhi delle autorità. D’altro canto, non potevano sospettare di me, donna piuttosto gracile e con un alibi di ferro.

Conobbi proprio in quel giorno, Babette, l’altra donna, l’amante, la puttana. Seduta in fondo ad una stanza, di quello che qualche giorno prima era il mio soggiorno, singhiozzava e piangeva copiosamente. Era stata lei a trovarlo. Mi sorpresi a studiarla. Non molto lontana da me fisicamente, snella e dai seni minuti. Un viso scolpito in un’età indefinita, tra l’infanzia e la maturità, la pelle splendidamente nera fasciata dalla seta più vivida. La Venere nera, pensai.

Come rapita da una forza ancestrale, mi avvicinai e le presi il viso tra le mani. “Torna a dormire”, le dissi, parole che non erano mie.

Si fece strada l’ipotesi del pazzo assassino che ultimamente dominava su telegiornali e web, Jeff il Killer, si chiamava così.

Non ebbi più l’occasione di rivedere Babette, sebbene il suo ricordo continuava a tormentarmi. Non mi sentivo meno bella di lei e, probabilmente, l’avrei etichettata come una donnicciola scialba e superficiale. Continuavo ad immaginare il suo corpo di pietra nera stagliarsi su Daniel, rapito dal piacere, mentre io, ignara di tutto, preparavo i miei prossimi 40 anni. Una rabbia feroce imperversava nel mio animo, avrei voluto vederla soffocare in un lago di sangue bollente.

Non aspettai a lungo. Nella notte tra il 24 e il 25 dicembre di cinque anni fa, i giornali diedero la notizia dell’assassinio di Babette, donna di colore, originaria del Camerun, trovata morta nel suo appartamento. Nessuno parlò in maniera chiara di cosa accadde, tuttavia, la scena mi si presenta sempre più chiaramente nella testa.

Vedo Babette riversa sul tappetto a pancia in giù, gli occhi sbarrati dal terrore e la bocca semiaperta. Tra le dita stringe un festone natalizio. Dalla schiena zampilla ancora il suo sangue, come le fontane delle piazze. In piedi, col cappuccio bianco calato sulla testa, Jeff che brandisce il suo coltello. Così come è apparsa, la venera nera scompare nell’anonimato delle vittime di un pazzo.

Ancora una volta, cerco di scrollarmi di dosso questa storia, ma è come un aroma sensuale che torna a farmi compagnia, piacevolmente. Sorrido. Jeff mi guarda appoggiato alla porta della cucina, il suo perenne ghigno mi ricorda che è già l’alba. Gli occhi privi di palpebre anelano a un cenno. “Torna a dormire”, mi dice. “No”, ribatto io, “Siediti, la colazione è pronta”.

Fine.

 


 
 

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