ArticoliEditoriale

Leggendo l’introduzione di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco all’opera omnia di Lovecraft sono rimasto colpito da un punto in particolare. Parlando delle radici dell’orrore lovecraftiano, viene fuori che la nuova concezione dell’horror nasce con Arthur Machen, un autore gallese sconosciuto ai più. Egli avrebbe influenzato diversi autori, come Stoker – autore di Dracula, ma nello specifico per il romanzo La Tana del Verme Bianco – e Shiel, Hodgson e Blackwood.

Nell’introduzione si può leggere: il terrore, secondo Machen, non nasce da una violazione inattesa delle leggi naturali, ma è insito nelle leggi naturali stesse, di cui conosciamo solamente l’aspetto terreno, sensibile e vicino alla nostra esperienza, ma ignoriamo gli infiniti sviluppi occulti. Lovecraft ammise più volte il suo debito concettuale nei confronti dell’autore gallese e costoro, nei primi decenni del ventesimo secolo, riscrissero la storia della letteratura dell’orrore, che sino a quel momento si era basata sulle figure trite e ritrite di morti viventi, vampiri, spettri, infestazioni e così via, temi anche oggi ripresi sia nel cinema che nella narrativa ma che, obbiettivamente, sono usurati, obsoleti.

Cosa significa questo? Che l’horror, come qualsiasi altro genere, ha bisogno di evolversi, di svecchiarsi. Al giorno d’oggi l’uomo del ventunesimo secolo è abituato a tutto: ai suoni forti, all’oscurità, al sangue… i cadaveri, la violenza, il genocidio, la tortura, la schiavitù in ogni sua forma, la guerra… ogni cosa è passata attraverso tubi catodici e cavi di rete, bombardandoci per decenni in maniera sempre più insistente, sino a renderci insensibili. Il successo del genere splatter è una dimostrazione di questo, dato che il suo unico scopo è quello di creare raccapriccio nello spettatore. Gli horror stessi, ormai tutti uguali tra loro, cercano di impressionare il proprio pubblico prima della loro uscita, attraverso trailer in cui più che il contenuto viene vantato il malessere causato da esso sugli spettatori. C’è la ricerca di emozioni così forti da squassare non tanto la nostra mente, quanto il nostro fisico, perché la prima è ormai vaccinata contro orrore e violenza.

Gli zombie sono il perfetto esempio di questa nuova tendenza. Alzi la mano chi va a vedere un film di zombie per esserne spaventato! La mia è ancora abbassata. I morti viventi sono commerciali, oramai, un intrattenimento come un altro, e molti di coloro che seguono serie televisive a tema jumbee si sentono diversi dagli altri quando, in realtà, sono appartenenti ad un’ampia fetta di pubblico accuratamente individuato dalle ricerche di mercato dei colossi cinematografici.

L’horror che conosciamo è vecchio. Deve rinnovarsi, così com’è sempre stato. Vi immaginate come sarebbe il mondo se ancora tutti scrivessero come Dante o Manzoni? Ovviamente il solo pensiero è ridicolo. Perché, allora, l’horror non riesce a staccarsi dalle proprie radici? Perché la sua natura stessa è legata a terrori ancestrali, vecchi come l’umanità: l’oscurità, l’ignoto, la morte, la mostrificazione dell’umano in disumano. Un autore come Lovecraft è apprezzato ancor oggi perché punta sull’imponderabile, sui demoni della mente, sul terrore di un piano differente da quello umano, e Stephen King stesso ha ammesso di dovere molto allo scrittore di Providence, il che spiega in parte il suo immenso successo. Ma la recente commercializzazione – in ogni maniera possibile – dei personaggi più “amati” della cosmogonia lovecraftiana, come i pupazzetti o i tamagotchi di Cthulhu, la dice lunga su quanto a lungo la sua opera riuscirà a rimanere incorrotta. Oggi o domani, anche la concezione del terrore nascosto nella natura stessa, nella nostra mente, in una dimensione oltreumana semplicemente al di fuori della nostra portata… svanirà. Ci abitueremo ad essa come a tutto il resto.

Serve quindi una nuova generazione di autori dell’orrore. Scrittori capaci di vedere l’uomo del ventunesimo secolo per quello che è e di scoprirne le paure. I morti viventi, i vampiri, i poltergeist vanno gettati nel baule in cui sono seppelliti minotauri, giganti, ciclopi e manticore e va creata una nuova dinastia di incubi adatti al nostro tempo. In un’era sempre più disillusa, sempre più lontana dagli dèi, sempre più coinvolta dalla tecnologia, bisogna capire una ed un’unica cosa: di cosa ha paura l’uomo moderno?

Trovata questa risposta sorgerà una nuova progenie di autori dell’orrore e, con essa, opere che tra cento, duecento anni saranno studiate e discusse in maniera asettica come noi stiamo facendo adesso. Il contadino della Romania di fine ottocento non avrebbe riso né parlato con leggerezza del loup-garou o del revenant come facciamo noi ora. Di cosa, quindi, non rideremmo o parleremmo con leggerezza noi?

Pietro Soman


Lascia un commento