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Da bambino, venivo spesso qui. Vivere in un luogo simile, leggermente discosto dalla civiltà, ha certamente i suoi vantaggi, in particolare quando si è piccoli. Aria pulita, molto verde, il mare vicino, una casa solitaria persa tra le ondulazioni del terreno irregolare e, nei pressi, un ridente e pittoresco paesino. Anche quando si diventa adulti, alla fin fine, si può imparare ad apprezzare un posto come questo. Soprattutto per persone che, come me, desiderano la pace ed il silenzio per potersi dedicare all’attività che più ci compiace: la scrittura.

Ho sempre scritto, fin dalla più tenera età. Da piccolissimo ho cominciato a leggere ed inevitabilmente è nato presto in me il desiderio di emulare quegli autori che, con sterminata fantasia, riuscivano a trasporre su carta luoghi, colori ed avventimenti incredibili ed inimmaginabili. Fare lo scrittore, si sa, è un mestiere difficile. Solo gli ignoranti credono che sia cosa da pigri, che zappare la terra sì, invece, che è un lavoro complicato. Il problema è che costoro non si rendono conto che, sì, lavorare nei campi e nei boschi è pesante, stancante, usurante, pericoloso. Ma certo che lo è. Ma quanti di questi contadini, di questi allevatori, di questi boscaioli saprebbero sedersi ad una scrivania e scrivere non dico un romanzo, non voglio esagerare, ma un racconto, un semplice racconto di qualche pagina?

Io credo quasi nessuno di loro. Mentalmente, scrivere è faticoso. Non essere banali, essere coerenti, utilizzare la propria lingua al meglio in una forma e con uno stile che invogli il lettore a procedere sempre più e non a fermarsi, a non abbandonare quelle righe. E sedersi lì, ogni giorno, e scrivere per ore ed ore. E se sopraggiunge una distrazione, se le idee vengono meno, se il blocco dello scrittore appare… è la fine. E come il contadino che non ara il campo non semina e non mangia, così lo scrittore che lascia mettere le erbacce alla propria immaginazione non potrà guadagnare di che vivere. Ma mentre una rapa è una rapa, un libro non necessariamente dà sempre di che sfamarsi. Non solo bisogna terminarlo, ma bisogna anche trovare chi lo pubblichi – impresa tutt’altro che facile – e chi, poi, lo acquisti e lo legga. Alla fin fine, vivere scrivendo è quasi come vincere la lotteria, ma lavorando pure, non semplicemente giocando dei numeri.

Non ho nemmeno trent’anni, ma eccomi qua. Può suonare strano sentir dire da qualcuno così giovane “ho passato la mia vita a scrivere e non ho risolto niente”, ma per quanto mi riguarda è così. Essere un genio incompreso era un concetto astratto, per me, che solo più di recente ho cominciato a considerare come realistico. Mi considero un genio? Non credo. Ma non penso nemmeno di essere così male. Non so.

Sotto di me, il mare rumoreggia. Questa scogliera è bellissima, bianca e slanciata, alta sopra gli scogli sottostanti, sempre più sottile fino a terminare in una punta, dove gli ultimi ciuffi d’erba si aggrappano al suo confine e pendono verso il basso. Se lancio un sasso nello strapiombo, impiega diversi secondi a raggiungere l’acqua sottostante. Il rumore dell’impatto è coperto dallo sciabordio costante delle onde e la spuma bianca è solo un puntino, per l’occhio. Cosa accadrebbe se, invece di un sasso, fosse un corpo a precipitare là sotto?

Ho sempre pensato che un giorno sarebbe giunto il mio momento. Che qualcuno avrebbe notato il mio lavoro, che uno dei manoscritti inviati sarebbe stato aperto da un editore sommerso di opere e magari apprezzato, che qualcosa sarebbe successo, insomma. Perchè mi sentivo destinato a fare questo. Mi sentivo davvero la persona giusta per questo lavoro. Eppure non è mai successo qualcosa. Oltre quindici anni a scrivere, a migliorare me stesso, a cambiare, riscrivere, scoprire nuovi metodi, diventare un esperto in quello che facevo, per niente. Mai, una sola volta, un mio lavoro è riuscito ad apparire sugli scaffali di una libreria. Eppure, intorno a quel vuoto in cui mi sono sempre immaginato la costa del mio romanzo, vedo banalità, cose già viste e riviste, opere dozzinali… sono davvero così terribile da non meritare nemmeno di affiancarmi all’ultimo romanzetto per ragazzine o alla biografia di un calciatore? È mai possibile?

Quelle cose vendono, questo è il problema. Ci saranno sempre ragazzine che vorranno il romanzetto rosa, sempre tifosi che mai hanno letto nemmeno le barzellette sul giornale che acquisteranno la storia della vita del loro idolo sportivo, sempre persone che riterranno il classico tascabile da edicola, lungo il giusto per un viaggio in treno, un libro. Certo, lo sono. Per la lingua italiana, quelli sono effettivamente libri. Ma come c’è modo e modo di fare qualsiasi cosa, c’è modo e modo di scrivere un romanzo. E quelli sono scritti – perdonatemi il termine – per gli stupidi. Non tutti, per carità, ma la maggior parte di essi.

Il terreno, qui sull’orlo, è molto friabile. Mi sono seduto sul bordo, i piedi penzoloni nel vuoto, ed una cascatella di pietrisco candido è precipitata verso il basso. Sarebbe una buona ambientazione per una storia romantica o qualcosa con delle sirene. Non ho mai scritto qualcosa con delle sirene. Dovrei provare. Anzi: avrei dovuto provare. Ormai è tardi.

Chissà se, quando sarò morto, qualcuno scoprirà i miei testi e li renderà famosi, in qualche modo… ma che importanza ha? Io non sarò più qua e non potrò saperlo. E poi, a che serve diventare noti dopo il trapasso? La vita è il momento giusto, la vita, non la tomba. Eppure quanti, quanti autori sono morti in miseria, vivendo alla buona. E non solo scrittori, ma anche pittori, musicisti… qual è il problema? La salma è più comoda da gestire? È banalmente questa la ragione? Meglio avere a che fare con eredi che non comprendono con cosa hanno a che fare, interessati sì a monetizzare l’opera dell’avo ma non consapevoli del suo effettivo valore? Ma no, è un pensiero stupido. Gli scrittori sono quasi sempre degli sprovveduti, molto più semplici da circuire. Guardate me.

Non ho mai imparato a vendermi. Se fossi stato il miglior orafo del mondo, probabilmente non avrei mai piazzato una singola collanina. Non so come si fa. Non ho mai capito. E questa mia mancanza, probabilmente, è la principale causa della mia rovina.

Ad ogni modo, è andata così. Penso che, come quand’ero in vita, i miei libri rimarranno semplicemente ad ammuffire in un cassetto. Forse, tra molti secoli, quando l’umanità sarà estinta, una razza aliena verrà a scavare tra i resti della civiltà – archeologi dallo spazio! Ecco un bel titolo per un racconto! – e, tra le migliaia di opere di ogni tipo, scopriranno anche le mie. Le leggeranno, forse le capiranno e le terranno in una qualche considerazione. Dovrebbero apprezzare particolarmente quelle a tema fantascientifico o quel racconto sul tempo che si riavvolge. Ma sto divagando. La fantasia galoppa sempre, anche quando non dovrebbe. E quando dovrebbe, fa la timida. Ah!

In lontananza, sfocata a causa della distanza, si indovina la linea costiera di un’isola. Non ci sono mai stato. Perchè? Non lo ricordo. Forse, semplicemente, non ci ho mai pensato. Chissà che posto è. Avrà una storia? Certo, ogni luogo ha una storia. Forse, un tempo, lì sono sbarcati i normanni e ci hanno seppellito un loro capo valoroso, o forse ci hanno abbandonato a morire qualcuno di molto malvagio, o un criminale, o un traditore, come facevano i pirati. O, magari, un tempo una civiltà ci si è sviluppata e poi si è estinta, forse per la guerra, forse per qualche strana piaga che devastato l’isola. Chissà.

Mi sono spesso chiesto se Dio esista. Anche ora sta lassù, in un cielo differente, a guardare ogni cosa, compreso me seduto sul bordo della scogliera? Giudica davvero i malvagi? Come Will l’Onesto, che derubava i malati di peste? O come la moglie dell’irlandese? Se esiste Dio, potrebbe esistere anche il Diavolo. Sarà vero? Mah. Ci sarà veramente uno scontro tra i due, o si tratta di una cosa a senso unico? D’altra parte, perchè Dio dovrebbe temere il Diavolo? Tutti quei racconti e soprattutto quei film su queste sette incaricate dal Signore in persona di sterminare un qualche male… non stanno quasi mai in piedi. Se però il Diavolo dovesse riuscire nel proprio intento, penso lo farebbe attraverso la tecnologia. Diabolus ex machina. Ci sono certi che sono convinti sia stato il Demonio stesso a fornire la chiave dell’avanzamento tecnologico all’uomo, così da vederlo autodistruggersi. Una sorta di Prometeo malevolo, si potrebbe dire. Ma se anche vincesse? Cosa ne sarebbe, poi, della Creazione?

Domande, domande, domande inutili. Cosa me ne farei, tanto, delle risposte? Ormai più nulla. Ho sempre sofferto di vertigini ma ora, seduto qua, non ho paura. Ho sentito dire che il riflesso automatico del corpo nell’allontanarsi dal bordo di un dirupo non è dato dalla paura di cadere, ma dalla paura del salto. Una sorta di ansia da prestrazione. Curioso. Ma è solo un’altra domanda inutile, nel vento.

Il mio tempo è scaduto.

 

 

Pietro Giovani

 


 

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