EditorialeFANSRacconti brevi

Cos’è la paura? Chi potrebbe definirla meglio se non coloro che l’hanno assaggiata, che hanno sentito il suo poderoso morso sul didietro? Fino a poco tempo fa della paura conoscevo solo la definizione presente su un qualsiasi dizionario. Adesso posso dire di averla conosciuta di persona e di aver sentito – di sentire – il suo respiro fetido sul collo e perfino in bocca. Si dice che il terrore più grande degli  scrittori come me sia rendersi conto che i loro personaggi sono dotati di vita propria e possono vendicarsi di loro, se gli fanno patire pene ed ogni genere di disgrazia. Ad essere sincera è una paura che non ho mai avuto, anche perché sono una persona concreta e non credo a queste stramberie da vecchie comari. E infatti non è stato uno dei miei personaggi a farsi strada nel nostro mondo, bensì qualcosa di più potente. Qualcosa che avrebbe dovuto rimanere sepolta in quella scatola del tempo che nessun umano dovrebbe aprire. Mai!

 


 

Plik…plik…crrrt…crrrt…

Nonostante la mia sordità sento perfettamente questi suoni perché sono dentro la mia testa. Lei è dentro la mia testa e mi risucchia i pensieri; è come un vortice di acque nere e tumultuose. È un fuoco che arde e brucia… brucia tutto quello che incontra. Il destino ha voluto che quella maledetta sera incontrasse me. Se mi fossi concentrata sul mio nuovo manoscritto tutto questo non sarebbe successo. Ma ormai è tardi per recriminare, e chissà, forse sarebbe successo lo stesso perché probabilmente ero già nella sua lista nera, contrassegnata con un bollino più rosso del culo di un macaco. Sebbene siano passate varie settimane ricordo ancora nitidamente quella sera, ricordo la disperazione che provavo a causa del blocco dello scrittore che mi impediva di digitare una sola sillaba su quel maledetto computer. Dopo essermi preparata un Bloody Mary ed aver tentato di vergare almeno il titolo, decisi di lasciar perdere e concentrarmi su altro; magari la distrazione mi avrebbe fatto venire in mente qualche idea degna di nota. Accesi la tele, facendo zapping da un canale all’altro, ma tutto mi annoiava. Se qualcosa mi impedisce di scrivere mi sento un guscio vuoto, e non ho voglia di fare niente se non raggomitolarmi su me stessa e commiserarmi. Quella sera, invece, mi sentivo stranamente elettrizzata, come se qualcosa di grosso fosse sul punto di succedere, perciò evitai il sofà ed iniziai ad aggirarmi per casa come una tigre in gabbia. Decisi che era ora di catalogare tutti i libri che avevo acquistato recentemente e metterli in bella mostra nella libreria in noce massiccio, regalatami da mio padre. Salii su uno sgabello e mi accinsi a tirare giù i vecchi ed impolverati volumi che riposavano in pace lì da almeno tre anni. Quelli sono i tomi che non leggo mai perché sono dei vecchi testi appartenuti a mio nonno, appassionato di alchimia e roba del genere. Rammento, come fosse ieri, le sue bacchettate sulle mani ogni volta che tentavo di prenderne uno.

“No, signorina, questa non è roba per te. Quante volte ti ho detto che non li devi neppure sfiorare? Sono libri pericolosi perché non è semplice carta stampata… questi sono libri vivi e come tali possono fare del male se non si sa come approcciarsi a loro. Mi hai capito, Marylou? Per fartelo entrare bene in testa, credo ci voglia una sana vergata su quelle manine curiose…” A quel punto, era inevitabile un colpo di frustino sulle nocche che mi lasciava senza fiato e piangente per metà giornata. I miei genitori non prendevano mai le mie difese, anzi. Non facevano che ripetermi la solita frase sulla curiosità che uccise il gatto. Da allora non mi avvicinai neppure alla biblioteca del nonno. Alla sua morte, avvenuta circa dieci anni dopo, ereditai tutta la sua collezione, compresi quei volumi terribili. Non mi presi mai la briga di leggerli: le sue frustate, lo scudiscio che mi si abbatteva sulle dita, risuonavano ancora nelle mie orecchie, perciò li lasciai dove erano sempre rimasti.

Quella sera, invece, pensai che era giusto dare sfogo alla mia curiosità dato che ero sempre stata punita duramente per questo mio difetto. Ormai non ero più una bambina da difendere e proteggere dalle brutture del mondo noto e… ignoto. Ormai ero una donna fatta e finita di quasi quarant’anni e ne avevo passate di cotte e di crude, quindi che male potevano farmi delle opere dimenticate? Mi sbagliavo, eccome se mi sbagliavo. Avevo vissuto l’abbandono, la perdita, il dolore e l’incertezza. Ma non la paura. La paura vera, quella che ti fa accapponare la pelle ed aumentare i battiti cardiaci. Quella che ti fa desiderare di essere morta e stramorta. I volumi, una decina in tutto, erano avvolti in un panno di velluto, nero e logoro. In basso a sinistra c’era la dicitura, ricamata a mano e con un filo dorato, Proprietà di E.S. Erano le iniziali di mio nonno, Edward Sordino. Mi avvicinai a loro con riverenza, quasi in ginocchio, e li svolsi delicatamente dalla loro custodia. Erano una decina in tutto ed il titolo di ognuno di essi corrispondeva ad un nome femminile. Le loro copertine sembravano fatte di cuoio, erano dure ed emanavano un odore di muffa. Li sistemai in bella mostra sulla scrivania, il cui ripiano era ricoperto da quello stesso panno di velluto. I nomi erano davvero belli e le copertine, dipinte a mano, ritraevano donne seducenti su uno sfondo di cieli azzurri, nuvole e fiamme ardenti.

Presi il primo volume, Jana, e… rimasi delusa. Pensavo di trovarci formule alchemiche, magari incantesimi di Magia Nera e chissà che altro. Invece, oltre alla copertina su cui campeggiava una ragazza dai capelli rossi come un tramonto infuocato vestita soltanto di un trasparente velo di organza, vi erano solo due date, scritte a mano nell’inconfondibile grafia del nonno: Marzo 13, 1958- Maggio 7, 1975. Poi seguivano  90 pagine su cui non vi era nulla, tranne che delle macchie untuose e giallastre. I fogli erano trasparenti, come pergamena, ma anche incredibilmente resistenti. Provai a strapparne uno, ma oppose una tale resistenza che mi tagliai il polpastrello dell’indice destro. Gettai il libro sul pavimento con un moto di stizza, e presi a succhiarmi il dito.

Mi chiesi perché mi avessero sempre impedito anche solo di toccarli se non contenevano nulla. Doveva esserci qualcos’altro, oltre a quelle foto accattivanti e quelle pagine vuote. Mi baluginò l’idea che fossero state scritte con dell’inchiostro invisibile ed accesi una candela affinchè il calore permettesse alle lettere di formarsi, ma non successe nulla. Non solo non si formò niente, ma l’angolo di una pagina prese fuoco e sprigionò un puzzo acre di carne bruciata. Tuttavia non mi arresi, e presi un altro testo. Questo si intitolava Crystal e capii subito che doveva essere l’opera più importante dell’intera raccolta. Innanzitutto, il nome era redatto in lettere miniate color carminio e della donna protagonista si vedeva solo la testa avvolta in uno scialle dorato che lasciava intravedere due occhi meravigliosi, verdi come il mare. Lo sfogliai quasi con riverenza ed anche qui le date: Agosto 20, 1950-… Mi accorsi subito che mancava la seconda, ma al momento non ci feci molto caso. Mi colpì, invece, una poesia, scritta presumibilmente da mio nonno, che occupava metà pagina e poteva essere intesa come un’introduzione all’intera collezione:

 

Occhi verdi e capelli neri

chi ti ha creata, magica e seducente creatura?

Sei emersa dalle onde del Mare come una Venere

Infernale. Quale artista ha creato  il tuo volto così diabolicamente

perfetto?

Sei l’essenza dell’estasi e della perdizione.

Sogno e realtà nascono e muoiono sulle tue rosse

labbra.

Quale oscura divinità ha forgiato il tuo corpo e

Chi sarà l’ultimo mortale a bere dal tuo amaro calice?

 

Quei versi ridondanti di passione ed ammirazione mi lasciarono di stucco. Non avrei mai creduto che il mio burbero e glaciale nonno fosse capace di produrre parole così cariche di calore ed erotismo: è proprio vero che non si finisce mai di scoprire nuove peculiarità delle persone che abbiamo accanto.

Non so perché ma in quel momento mi venne in mente la leggenda delle Succubi, ovvero quei Demoni che seducono gli uomini e li sfiniscono fino a condurli alla morte. Forse mio nonno grazie alla sue arti magiche era riuscito a soggiogarne qualcuno e renderlo suo schiavo. Il pensiero mi parve davvero assurdo perciò ordinai alla mia fantasia di smetterla di galoppare per le strade del paradosso e recarsi sulla retta via per sbloccare la mia protagonista dall’impiccio in cui l’avevo ficcata, e dal quale non riuscivo a farla uscire. Pensai da quanto tempo ero ferma al Capitolo 10 e fui colta da una crisi di nervi; mi restavano solo due mesi per consegnare il libro e non ero ancora neanche lontanamente vicina a mettere la parola FINE alle vicende di Tanya Moore, l’eroina romanntica della Saga del Cerchio di Fuoco che avevo creato tre anni prima. Questo era il terzo libro ed avrebbe chiuso il ciclo. Mi ero scocciata di lei, sempre così pronta a sacrificarsi per gli altri, anche per quelli che la prendevano a calci in culo. A dirla tutta avevo iniziato a odiarla, e mi chiesi da quale strano anfratto della mia mente fosse uscita una simile gelatina. Al pubblico, però, piaceva ed era grazie ad Amy ed ai suoi continui ripensamenti e gesti di altruismo che potevo permettermi due Mercedes ed una villa a Toluca Lake, per non parlare dell’appartamento  nel quartiere TriBeCa a New York. Devo ammettere che all’inizio l’amavo e pensavo che al mondo ci volesse più gente come Tanya anziché cloni di Sylvie, la sua antagonista. Poi non so cosa successe, ma da buona era diventata una cazzona che stava sempre a lagnarsi ed inzuppare fazzoletti enormi quanto copriletti …wow, che rima! Peccato che non fossi pagata per scrivere rime, ma solo per dare vita e voce a quella beota. Avevo ventilato alla mia agente l’ipotesi di farla fuori e quella per poco non mi aveva tirato in testa un vaso di rame del peso di almeno quattro chili. La traduzione del gesto era chiara: se mi fosse venuto il ghiribizzo di ucciderla, sarebbe stato meglio mi fossi scavata la fossa da sola. Lei non poteva perdere la sua gallina dalle uova d’oro e se ne  infischiava se io mi sentivo intrappolata in quel mondo di lustrini ed ipocrisie. Il pensiero del romanzo distolse la mia attenzione da quei libri, e pensai fosse ora di riuscire a produrre almeno qualche frase da mettere in bocca a quella scimunita. Misi i libri sull’ultimo scaffale della scrivania e mi sedetti davanti al mio portatile.

 

Tanya  si guardò intorno e non riuscì a credere ai suoi occhi. Soprattutto non poteva e non voleva rendersi conto che ad intrappolarla in quella lurida cantina fosse stata Sylvie, colei che credeva la sua migliore amica…

 

Rilessi quelle poche righe e pensai potessero andare. Non erano un capolavoro, ma almeno riempivano la dannata pagina bianca. Forse la mia musa stava tornando a parlarmi di nuovo, dopo mesi di ostinato mutismo; mi sentii talmente felice che iniziai a saltellare per tutto il perimetro della stanza. Bevvi un po’ di Bloody Mary e mi accorsi con disgusto che sul fondo del bicchiere si agitava un verme grigio e grasso. Lo scagliai sul pavimento e trattenni a stento un conato di vomito. Da dove diavolo era saltato fuori quello schifo? Prima non c’era. Schizzai in bagno per prendere uno straccio con cui pulire ed una paletta per raccogliere i cocci di vetro. Quando tornai, sul parquet vi era un groviglio di vermi che si contorcevano e sembravano emettere dei lamenti, il che è davvero strano poiché essi non hanno corde vocali. Erano una moltitudine, compatti come un banco di sardine: non ne avevo mai visti così tanti in vita mia. Vincendo la repulsione mi avvicinai ed iniziai a schiacciarli con la scopa e la paletta di ferro. Ci misi così tanta foga che mi venne il fiatone, ma li avevo schiacciati tutti ed ora il mio pavimento sembrava un enorme frittata di crauti. Cazzo! Che esseri schifosi! Adesso dovevo togliere quell’enorme placca di esseri striscianti. Anche quella volta trattenni il vomito ed andai a prendere un sacchetto per l’immondizia, di quelli neri. Quando tornai non credetti ai miei occhi: essi avevano cambiato disposizione e, visti dalla mia angolazione, sembravano il ritratto di un volto umano. Un volto che avevo già visto. Mi sentii trascinare verso il basso e mi accorsi che quei piccoli bastardi si stavano arrampicando sulle mie gambe e stavano raggiungendo le cosce. Iniziai a dimenarmi per cercare di scrollarmeli di dosso, ma essi penetrarono nella pelle; li sentivo brulicare sotto le mie carni così mi strappai gli abiti di dosso, compresa la biancheria intima, e mi fiondai sotto la doccia. Il grande specchio di fronte la vasca rimandò l’immagine di una donna pallida e dall’insano colorito giallastro, ma mostrò qualcosa che non avrei voluto mai vedere e sembrava la scena di un film horror di serie B. I vermi stavano iniziando ad uscirmi dagli occhi, dal naso e da ogni orifizio del mio corpo. Vedermi ricoperta da quei cosi, come se fossero una seconda pelle, mi fece perdere conoscenza per lo spavento. Mi risvegliai, nuda ed intirizzita, in una pozza di vomito. Dei vermi non vi era nessuna traccia, così pensai di aver avuto un’allucinazione dovuta al panico che mi aveva colta la vista di quegli animaletti e mi precipitai sotto la doccia,  facendo scorrere l’acqua più calda che potessi sopportare e vi rimasi finché non la consumai tutta. Per rilassarmi, ascoltai il Bel Danubio Blu, nella versione di André Rieu, e mi gettai sul letto esausta. Quelle note calde ed avvolgenti che erano come carezze materne sulla mia anima martoriata mi rilassarono, e chiusi gli occhi. Il volume dello stereo era in modalità spaccatimpani  perché mi piace sentirmi avvolta dalla musica, eppure ciononostante mi parve di udire un rumore sommesso, una specie di fruscio, come se delle unghie stessero raschiando una superficie ruvida.

“Merda, pure i topi ci volevano adesso!” Esclamai, ma non mi alzai; ero troppo stanca, sia fisicamente che mentalmente, non riuscivo neppure a pensare di muovere un dito e comunque  ero troppo concentrata sulla musica: adesso il CD stava diffondendo le note della Hungarian Dance che mi stava facendo sentire un po’ meglio. Intanto lo stridore continuava, e anzi si faceva più intenso. Quello non era lo strepitio prodotto dai roditori… a meno ché non fossero ratti venuti dallo spazio. Poche ore prima quell’osservazione mi avrebbe fatta ridere a crepapelle, ma non in quel momento. Anzi, credo che non riderò mai più dato che nei minuti che seguirono, la mia stanza da letto divenne l’anticamera dell’Inferno ed io divenni la porta di accesso. La sua porta di accesso!

Una luce stroboscopica inondò la mia camera, mentre un urlo potente e disincarnato sembrò squarciare perfino l’aria, che divenne immota. Mi parve di star fluttuando sott’acqua, un’acqua nera  e melmosa che mi s’infilava nel naso e nella bocca e mi impediva di respirare. Era come se fossi avvolta in una ragnatela di fili gelatinosi e grossi come liane che cercavano di trascinarmi verso una figura antropomorfa che mi osservava attraverso occhi piccoli e stretti come luride feritoie, che emanavano dei sinistri bagliori rossastri. Allora successe qualcosa di inimmaginabile, perché all’improvviso non ero più nella mia camera, nella mia casa. No. Ero in un lurido vicolo che riconobbi essere la viuzza che portava alla vecchia abitazione di mio nonno, prima che diventasse ricco e potesse permettersi un loft a Beverly Hills; mi ero sempre chiesta come cavolo avesse fatto ad arricchirsi in così breve tempo. Era come se fluttuassi al di fuori del mio corpo ed anche del tempo poiché all’epoca, era il 1970, io non ero ancora nata. In quella strada vi era un viavai di donne, prostitute molto probabilmente. Due di loro stazionavano davanti ad un bidone nel quale bruciavano dei fogli di giornale. Erano infreddolite e terrorizzate; una di loro aveva dei bellissimi capelli neri ed espressivi occhi verdi e… ricordai la poesia scritta dal nonno e capii che quella donna doveva essere Crystal, e la ragazza accanto a lei era Jana. Dunque lui frequentava le passeggiatrici e poi dedicava loro libri con copertine artistiche e sonetti? C’era qualcosa che non quadrava proprio…

Poi fu come se avessi avuto un flash, e mi ritrovai all’interno di una fatiscente baracca, dalle pareti di legno marcio e con assi alle finestre affinché non entrasse alcuno spiraglio di luce. Non so come spiegarlo, ero come una spettatrice invisibile in quella scena da incubo; sembrava un gigantesco cinematografo in cui si proiettava il passato. La camera era dominata da un letto dalle lenzuola sporche e disfatte, sulle quali era distesa Crystal. Era legata alla testiera in ferro battuto con della corda di canapa che le aveva lacerato i polsi e le caviglie. Mio nonno era chino sul suo corpo nudo e sudato, e mormorava una inquietante cantilena in latino. Non capii un acca, tranne l’ultima frase: Negotium Perambulans in Tenebris, ovvero La luce che cammina nell’oscurità. Egli si alzò, con le braccia aperte e rivolte ad uno specchio che fungeva da parete. Da esso iniziarono a provenire quei rumorini, crrt… crrt… plik… plik…, mentre delle grosse gocce di sangue piovevano dal soffitto a lordare il corpo di quella povera ragazza. La superficie dello specchio si spaccò e da esso venne fuori un’impressionante orda di nani deformi che si avventarono su di lei. Erano neri, senza occhi e naso, ma muniti di una bocca enorme che ospitava tre chiostre di denti affilati come rasoi con i quali le squarciarono il ventre e… e… si tramutarono in enormi vermi grigi che si infilarono nel busto di quella poveretta. Lui, allora, trasse una specie di leggio da sotto il pastrano che indossava e sussurrò: Dominus Inferus Vobisum! Dopo aver pronunciato queste parole, il corpo della ragazza ed il suo infernale contenuto si tramutarono in una nebbiolina grigiastra che egli intrappolò nel libro. Lui vi scarabocchiò qualcosa, mentre da lontano giungeva la calda voce di Edith Piaf che cantava La Vie en Rose.

Per un interminabile istante mi sentii affogare in una bruma sanguigna che bruciava, bruciava e… mi ritrovai a casa, tremante e piangente come una bambina. Ero ritornata ad essere me stessa, quella fanciulla curiosa e sempre bistrattata che non capiva di essere il fulcro di un grande disegno cosmico tracciato da un nonno stregone e senza cuore.

In quel frangente mi ricordai una filastrocca che mia madre recitava per farmi addormentare:

Chiudi gli occhi bimba mia,

Che la nera sorella vuole

Portarti via;

Su un destriero fiammeggiante

Essa arriverà ed il suo abbraccio

Agghiacciante ti regalerà

Chiudi gli occhi bimba mia,

Che il tuo capitolo sul Libro del

Tempo è appena stato scritto

E l’oscura Lamia

Trasformerà la tua vita in una

Blasfemia.

Apri gli occhi bimba mia,

quando la pioggia in sangue si

tramuterà e

L’oscura maledizione si compirà…

 

Non era una semplice cantilena, bensì un avvertimento. Rammentai pure che il nonno, suo padre, la schiaffeggiò dopo averla sentita declamare quei versi. La mia povera mamma stava già cercando di mettermi in guardia contro l’amara sorte a cui quell’uomo mi aveva destinata. Anche adesso che era morta, mi voleva aiutare riportandomi alla memoria quelle rime tanto spaventose quanto foriere di verità. Scoppiai a piangere, perché mi parve di udire la sua voce melodiosa che cantava Je ne Regrette Rien di Edith Piaf quando mi sentivo triste perché avevo fallito una prova o un esame. La luce di un lampo illuminò la stanza, risvegliandomi dalle mie rimembranze. Prima che la camera piombasse di nuovo nell’oscurità mi sembrò di vedere una figura umana, accovacciata in un angolo e con le braccia protese in avanti. Il cuore iniziò a battermi all’impazzata allorché un soffocante puzzo di ozono mi invase le narici, e ricordai la strofa della filastrocca: quando la pioggia in sangue si tramuterà, l’oscura maledizione si compirà. Avevo capito che quell’uomo, Sordino, era uno stregone che voleva soggiogare le entità infernali. Prima le evocava, promettendo loro un corpo umano da usare per entrare nella nostra dimensione, e poi le intrappolava nelle povere malcapitate che avevano la sventura di piacergli.  Dopodiché tramutava entrambi in scatole magiche a guisa di libri in modo da non destare sospetti.  Un cupo e lungo tuono fece tintinnare i vetri e fu come se avesse squarciato il cielo giacché una pioggia furiosa iniziò a scrosciare, battendo sul tetto come un martello pneumatico. Mi affacciai alla finestra e mi si mozzò il respiro: c’era qualcosa dietro di me. Una presenza che mi stringeva la vita, e mi alitava il suo fiato freddo e fetido sul collo. Essa lanciò un urlo disincarnato ed assordante che mi ruppe i timpani. Vedevo la pioggia di sangue allagare le strade che si erano trasformate in un unico fiume rosso e vidi anche lei, Crystal, riflessa sullo specchio. Era una donna bellissima, dagli occhi verdi e le labbra vermiglie. Malgrado la mia sordità riuscivo a captare le sue parole forse perché non avevo bisogno dell’udito in quanto lei era dentro la mia testa.

 “Tuo nonno si è macchiato di una grave colpa. Ed è stato maledetto da Dio e perfino dal Diavolo stesso. Guarda! Guardami! Ero una ragazza stupenda, ammirata e desiderata da tutti e lui mi ha tramutata in un ammasso vermiforme. E loro, quelli che occupano il mio corpo, vogliono uscire perché sono stati attirati qui con la promessa che avrebbero governato il Mondo. Se loro se ne andranno, io potrò tornare ad essere una donna come tutte. Tu sei in debito con me, perché le colpe dei padri ricadono sui figli, anche per generazioni. Tu sei la prescelta e non puoi opporti al tuo destino…”

Così dicendo, appoggiò le sue mani incredibilmente fredde e viscide e spalancò la bocca che si allungò a dismisura  prendendo la forma di un gigantesco imbuto. Si avvicinò al mio volto ed alitò. La sua esalazione si tramutò in caligine che penetrò nel mio corpo, mentre le tenebre calavano su di me…

 

Sono passate due settimane da quella sera. Ho quasi finito il mio romanzo; non mi piace lasciare il lavoro a metà. E’ un po’ zoppicante, ma non fa nulla. La mia editor sapeva che non stavo molto bene e mi ha detto che correggerà le parti più incomprensibili. Non ho potuto usare il computer dato che le mie dita stanno diventando delle orrende appendici, lunghe e grigie come code di topo. Non so che aspetto abbia la mia faccia perché ho distrutto tutti gli specchi quando mi sono accorta che non avevo più il naso, al cui posto era spuntata una proboscide rossastra. Non ho più le labbra perché i denti aguzzi che stanno spuntando le hanno lacerate. Lascerò questo quaderno accanto al mio corpo: magari ci faranno un film e sarà la volta buona che Marylou Sordino non sarà più associata alla quella cretina di Tanya Moore! Adesso mi siederò davanti alla finestra, quella che si affaccia sul parco della mia villa. Ci sono tante palme dalle fronde verde scuro che si stagliano contro il cielo azzurro, creando un contrasto paradisiaco. E’ questa l’ultima immagine che voglio vedere prima di lasciare questo mondo. Non so cosa mi aspetterà dall’altra parte, ma qualunque cosa è sempre meglio dell’Inferno che ho sotto la pelle. Il fucile è sul tavolo, accanto al mio bicchiere di Bloody Mary, lo sorseggerò prima di spararmi in bocca. Mio nonno ha aperto questo cerchio diabolico ed è giusto che si chiuda con me…

 

 

Diana J.Stewheart


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