EditorialeRacconti

Era l’alba, la luce penetrava impetuosa dalla finestra della mia stanza, mi ordinava di alzarmi. Ma ero sveglio ormai da qualche minuto, a causa di un rumore improvviso e tediante, quasi come quello di un elicottero che sovrasta una casa mentre si sta dormendo. Appena mi ripresi del tutto dai torpori del sonno, capii che si trattava proprio di un cazzo di elicottero. Ero abituato al sorvolo di questi mezzi, soprattutto a quelli dei vigili del fuoco e della polizia, perché abitando su un vulcano c’era sempre qualche causa che li spingeva a sorvolare quei cieli: incendi, ricerche di latitanti, dispersi in mezzo ai boschi, ecc. La novità stava nel fatto che questa volta il rumore lo sentivo potente e penetrante, proprio sulla mia casa, cioè sulla mia testa. Mi allarmai. Forse un incendio era scoppiato proprio nei campi attorno ai giardini della casa, e avrebbe fatto presto ad allargarsi e probabilmente a penetrare pericolosamente verso le costruzioni perimetrali, e di lì nella mia abitazione. Corsi fuori senza nemmeno preparare il caffè, anche se ero abitudinario fortissimamente, e mai sarei uscito senza aver espletato tutti i rituali mattutini. La mia giornata infatti cominciava con la moka, e il consumo del tabacco della pipa seduto sul cesso.

Non appena fuori, guardai l’elicottero, e qualcuno da lassù mi gridò qualcosa con un megafono. Forse una frase senza senso, come “arrenditi, sei circondato”. Mi guardai attorno, ma nel prato e nel giardino non c’era nessuno. Quelli ce l’avevano proprio con me. Quelli erano su un elicottero dei carabinieri.

Non capivo. C’era senz’altro uno sbaglio di persona. “Perché un mattino, senza che avessi fatto nulla di male, volevano arrestarmi” (cit. metà Kafka e metà io). Mi preparai velocemente il caffè, dovevo svegliarmi e fumare. Nel frattempo il fracasso dell’elicottero era incessantemente ancor più potente sul tetto della mia casa. Accesi la televisione, forse per capire qualcosa di più. Da un telegiornale qualsiasi di un canale scelto a caso mi arrivarono le prime illuminazioni. Un uomo aveva creato scompiglio nel famoso Giro d’Italia che passava dal mio paese; qualcuno camuffato da ciclista aveva portato in piazza una mitragliatrice e sparato ad altezza uomo. Qualcuno aveva fatto una strage. Quel qualcuno ero io.

Bevvi il caffè quasi bollente, ma in un attimo di lucidità corsi a chiudere tutte le imposte. La casa era dotata di sbarre alle finestre, di una porta blindata, e nessuno sarebbe potuto entrare velocemente. Potevo prepararmi a ricevere gli ospiti.

Mi sedetti sul divano, continuando a scorazzare su diversi canali. La conferma dell’accaduto fu repentina. “Che due coglioni”, esclamai ai cani che stavano seduti accanto a me sul divano. Ora cominciavo a ricordare qualcosa. Il giorno prima avevo avuto un diverbio con un vigile perché le strade erano transennate, e non si poteva passare; ma io dovevo raggiungere la palestra in motocicletta, e il corso iniziava alle 9.00. Odiavo arrivare in ritardo, quindi alzai la voce, e lo fece pure il vigile. Mi chiese i documenti, glieli diedi, mi obbligò a togliere il casco, mi intimò di tornare indietro, io non ubbidii. Mi si avvicinò e cercò di bloccarmi, ma riuscì solo a darmi uno schiaffo. Mi accesi di rabbia fulminea. Nel frattempo un altro vigile mi bloccava il corpo cingendomi le spalle con le braccia. In quel momento tirare una pedata ai coglioni a quello davanti e una testata all’indietro all’altro fu un attimo. Continuai a colpirli a terra, e subito dopo scappai.

Quello schiaffo mi bruciava. Maledetti loro e quella corsa. A causa di questa gente e di questi eventi avrei dovuto saltare la lezione, e sconvolgere la mia routine, anzi la mia vita. Tornai a casa, presi un coltello da cucina, ben affilato, quello per tagliare le costate. Ma dovevo cambiarmi gli abiti. Sarei sceso in paese vestito da ciclista.

Una moltitudine di forsennati, spettatori, inondava ogni via. A me serviva una pattuglia isolata di carabinieri o roba simile per impossessarmi della pistola mitragliatrice. Scorgerne una in prossimità del paese non fu difficile. Presidiava una via secondaria, vicino a una rotonda, immersa nel verde. Uno dei due militi stava parlando con il conducente di un’autovettura, l’altro guardava ebete il collega. Arrivare alle loro spalle dal campo fu facile, e ancor di più tagliare una gola “da alfa a omega” furtivamente da dietro. L’altro non fece in tempo a girarsi che lo colpii con un colpo secco sotto il pomo d’Adamo. Rantolavano adesso a terra inermi. L’auto che stavano controllando si dileguò in un attimo. Raccolsi la mitraglietta, le due pistole, le infilai nello zaino verde e partii per il paese. Ero in modalità ciclista-spettatore.

Il sole maestoso di quella terra illuminava le case e la piazza da cui sarebbero partiti gli sportivi. La gente era allegra e festosa, e ovunque si vedevano bambini, nastri, biciclette, e si udivano le gioie roboanti dei partecipanti. Tutti erano allegri. Io no. Ero accecato da un non so che d’indescrivibile che si era impossessato della mia rabbia, sviscerandola e rendendola dannata e pericolosa.  

Le armi le avevo riposte nello zaino e quindi erano occultate perfettamente, ma per sparare senza farmene accorgere mi sarei dovuto acquattare da qualche parte, in un posto più o meno defilato, nascosto, e idoneo alla fuga. Invece pensai bene di andare in mezzo alla folla. In tutta quella calca di gente, camion, furgoni, camper, e di straripare di voci, grida, fuochi d’artificio, rumori d’ogni genere, nessuno avrebbe notato che la mia mano entrava in uno zaino, armava la levetta d’armamento di una pistola mitragliatrice, e vicino ai vigili ignoranti, ai bipedi sulle bici, tirava il grilletto. Ciclisti e vigili furono il mio bersaglio, e caddero, e furono tanti. Il mio zaino “sparò” ad altezza vita tutte le trentadue ogive del caricatore, mentre io giravo a trecentosessanta gradi, per creare più scompiglio in tutte le direzioni.

L’effetto sorpresa durò qualche minuto. La paura si scatenò fra migliaia di persone giunte per l’evento nella piazza e nelle vie dell’intero piccolo paese. Tutti correvano, a perdifiato come forsennati e in preda al terrore, in ogni direzione. Quella fu la mia via di fuga, mescolato ai “pazzi”. Raggiunsi la mia bicicletta e tornai a casa.

Ovviamente mi scoprirono in poche ore, e quella mattina le forze di polizia vennero a “prendermi”. Non mi sarei mai consegnato vivo. Salii dalla scala a chiocciola in mansarda, ascoltando una possibile e agognata vicinanza dell’elicottero. Era proprio lì a poche decine di metri dalla mia testa. Spostai la tegola del tetto, inquadrai il mostro a eliche e tirai sul bersaglio. Non ebbi il tempo di percepire cosa, ma probabilmente un cecchino da qualche parte mi trapassò il cranio e mi rese cadavere.

Mi svegliai, ero sull’ambulanza, indossavo una strana maglia da ciclista con un numero. Il medico mi disse: “lei si chiama Joe, è un ciclista professionista. È uscito di strada durante la tappa, ed è finito con la testa su un albero, sminchiandosi tutto (medico siciliano). Comincia a ricordare qualcosa?!”
 

 

Joe Oberhausen-Valdez


 

Fatti, luoghi, manifestazioni e persone usati dall’autore sono puramente casuali.

 

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