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Sono abbastanza vecchia per avere visto e amato i film con Charlton Heston relativi alla saga “Il pianeta delle scimmie”. Figli del loro tempo nelle immagini e nella rappresentazione delle “scimmie”, mi avevano lasciato una netta impressione di “modernità” nel pensiero e nelle intenzioni di chi li aveva scritti e diretti.

Mi sono quindi approcciata alla trilogia di Reeves con una precisa idea di quale messaggio i film dovessero dare al pubblico, e il regista non solo non mi ha deluso, ma ha superato tutte le mie aspettative.

Ha raccolto quell’idea “moderna” che era in essere nei film passati e l’ha ampliata, usando le tecnologie che oggi il cinema offre per gli effetti speciali (motion capture su tutto), ma lasciando intatto il messaggio di base: critico al massimo verso la nostra società e le caratteristiche di base dell’umanità.

Ho sentito dire da alcuni che questo terzo film, conclusivo della trilogia di Reeves, è un “mattone”. Niente di più lontano dalla verità, per me.

Certo non è un film per tutti, o meglio non è un film che più o meno tutti siamo adesso abituati a vedere e gestire: veloce, d’impatto, con messaggi, anche importanti, ma nascosti abilmente da effetti speciali e azioni veloci e rapide, con cambi di scena continui. Un film insomma di facile approccio mentale.

“The War” richiede ogni nostra minima attenzione, ragionamenti continui, pazienza nel leggere tra le righe. Ma in cambio ti dà una grande emozione e molto a cui pensare, ti dà qualcosa che ti porti con te a lungo. Un vago fastidio, un vago sentire che qualcosa non va proprio nella nostra società, nel nostro trattare la natura ed il pianeta che ci ospita.

Questo Reeves lo mette subito bene in chiaro: la Terra non è nostra. Siamo ospiti di Essa, e neanche i primi a esserlo. Ma la trattiamo come se fosse una proprietà qualsiasi che, una volta rovinata, si può aggiustare. Come se noi fossimo la specie che mai verrà soppiantata, perché troppo superiore alle precedenti specie dominanti.

Ed ecco che questa specie, in un ennesimo tentativo di creare un’arma, una cura, insomma di fare Dio, sprigiona la sua stessa rovina. Dà vita alla specie che la soppianterà.

Non solo lo fa, ma quando la nuova specie creata, la scimmia, cerca di trovarsi un posto nel pianeta, decide che non è l’umanità l’unica degna di viverci. E quindi, come le ha create, ora le dovrà distruggere.

E in questo film vediamo proprio Cesare, la scimmia capostipite di ogni scimmia intelligente sulla Terra, che viene costretto, tirato per i peli, a dichiarare guerra all’umanità e a distruggerla. Pena, la scomparsa della sua gente.

E non uso la parola gente a caso. Subito, nella prima parte del film, che è quella criticata da chi lo trova “lento”, vediamo la vita delle scimmie in toto e senza umani in giro. L’unico che parla è Cesare, le altre usano il linguaggio dei segni. Ma accidenti se non si fanno amare, se non ti conquistano per saggezza, bontà, volontà di pace, amore per la famiglia…

Ma interviene il Colonnello McCullougha, uccidergli moglie e figlio maggiore, un Woody Harrelson splendido nella apparente calma con cui ammazza tutti, e intendo proprio tutti, scimmie e umani, senza alcuna pietà.

Cesare fa l’errore immane di applicare le stesse emozioni e azioni di chi l’ha creato e da qui parte la seconda parte del film. Nettamente più movimentata, ma sempre con momenti di riflessione importanti. Ma lui ha i suoi veri amici che lo aiutano e lo accompagnano per aiutarlo a ritrovare sé stesso oltre il dolore.

E proprio l’incontro con il Colonnello gli aprirà gli occhi su cosa sta diventando e, soprattutto, su cosa non vuole diventare.

Reeves non lascia un minimo di spiraglio all’umanità. Gli unici umani “veri”, sono quelli cui il virus mutato ha tolto le facoltà di parlare e di ragionare superiori, quelli che, alla fine sono uguali alle scimmie. Quelli che Cesare stesso, pur accecato dall’odio per la fine dei suoi cari, non riesce ad abbandonare a morire, come invece il Colonnello fa apertamente, in nome di un’umanità superiore che deve vincere a tutti i costi, anche annientando sé stessa.

Ecco la fondamentale differenza tra le scimmie di Cesare e gli uomini che le combattono: le prime sono disposte a dividere tranquillamente il pianeta con gli uomini. Ma gli uomini preferiscono distruggere ogni forma di vita intelligente piuttosto che farlo, compresi sé stessi.

E, alla fine, esci dal cinema felice che Cesare abbia vinto. E piangi anche per come finisce il film. Almeno io ho pianto e ne ho visti altri come me nel cinema. E solo i grandi film riescono a entrarti sotto la pelle così, con una durata anche più corta rispetto a quelli di adesso.

Vorrei citare Andy Serkis, l’attore dietro alla motion capture di Cesare. Dire incredibile è dire poco. Se negli altri film mi ha colpito, qui mi ha fatto completamente dimenticare che c’era lui dietro a Cesare, ai suoi movimenti, alle sue espressioni, alle sue emozioni. Dire perfetto è minimizzare la sua opera. Se non gli danno almeno l’Oscar Hollywood dimostrerà ancora una volta la sua miopia, anche se io non credo molto a questi premi. Ma un riconoscimento mondiale gli andrebbe fatto stavolta.

Cosa rende infatti un attore perfetto? Quando dimentichi che esiste l’attore e vedi solo il personaggio. E qui Serkis crea un Cesare così vivo e vero che dimentichi completamente che in realtà non lo è.

Ma anche Reeves è meraviglioso nel dirigere il tutto, nel montaggio lento all’inizio, perché realmente e a poco a poco devi capire, e immedesimarti in Cesare, persino veloce quando serve, perché ormai tutto ha fine e deve concludersi. Con primi piani maestosi e riprese a lungo raggio della natura altrettanto maestose.

In poche parole, uno dei film più belli che io abbia mai visto. E non lo dico spesso, credetemi…

 

Antonella Cella
“jackson 1966”


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