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Quella mattina il sole stava per sorgere, e io ero sveglio già da qualche ora.

Non sapevo il perché, ma quell’alba aveva il sapore della rinascita, del nuovo, di una prossima resurrezione dopo aver finalmente smesso la “maschera” di un mio lontano passato e che negli ultimi mesi avevo ripristinato, sperando di mantenere la vecchia sembianza invece delle altre due o trecento.

Non ero più in simbiosi con niente e con nessuno. Figuriamoci con me stesso.  Scheletri di libri e oggetti vari che mia sorella mi aveva riportato, sembravano davvero tombe sperdute in qualche dimora lontana. Negli ultimi mesi avevo cominciato ad aprirmi a nuovi amici, affezionandomi, uscendo, schiudendo quella tela che per anni mi aveva avvolto e mimetizzato preservandomi dal mondo.  Un orizzonte nuovo, che mi aveva dato l’impressione di essere ancora pregno di entusiasmi, di gioie, vitalità; un dipanarsi di percezioni straordinarie che mi avrebbero appassionato e proiettato in una nuova atmosfera di sapori dimenticati. Eppure anche questa volta la mia infinita gioia si scioglieva all’impatto con deflagrazioni di meschinità, deliri, inutilità di compenetrazioni impossibili. Quel mondo non era cambiato. Era rimasto così come lo avevo lasciato al di qua della mia rete. Sarei dovuto ritornare in un recinto isolato, un eremo da cui guardare solo gli astri e il mare in lontananza.

Quella stella cominciava ad alzarsi, per cui uscii a immortalarla. Aveva davvero la fiamma e la luce della palingenesi e sembrava schiudere una stagione nuova. Non ebbi il tempo di pensare, di goderla come avrei desiderato. Una specie di calore estremo e incommensurabile, un rumore tonfo, un riverbero di una potenza indicibile mi avvolsero. Abitavo in una collina vicino al parco di Hiyajima, tra ciliegi e un panorama spettacolare, quando vidi scomparire la mia città. Da quel giorno il mondo non dimenticò mai Hiroshima. Era il 6 agosto del 1945.

Passarono diversi anni da quel mattino, esattamente quarantasette. Non abitavo più sul mio poggio, non ero più nel mio Giappone, ma in un continente lontanissimo chiamato Europa. La casa si trovava alle pendici di un vulcano, in un’isola sperduta, terra di confine tra Africa e Italia. Quel giorno ero un ragazzo, e la collina mi riparò da una morte certa, sicuramente istantanea, probabilmente atroce. Sopravvissi integro, senza contaminazioni strane, come se fossi altrove. Eppure avevo fotografato la detonazione di una bomba atomica, un nuovo sole. E quel sole aveva offuscato e distrutto ogni vita. Ma non la mia.

Non so chi mi raccolse, chi mi salvò. Forse un militare che poi mi portò dove vivo adesso da più di trent’anni. È estate, me ne sto seduto a una scrivania bianca, c’è una brezza che entra dalla finestra e mi rinfresca dall’arsura patita in quest’afa. Alle mie spalle ci sono un giardino, un prato e un albero. Tutto dovrebbe avere ora il sapore della tranquillità e dell’infinità. Ma se mi volto, mi accorgo che non ci sono più i ciliegi, non c’è più quel vento che sentivo spirare tra i miei alberi, non ci sono che i ricordi di quell’infanzia e di quella giovinezza cancellati in un solo istante in un mattino. Sento l’eternità scorrere, sento il tempo che vola alle mie spalle, sento il fluire noioso di giorni che hanno avuto per brevi istanti, e solo allora, un senso d’illimitatezza accanto a una donna eccezionale. Eppure tutto sfuma, passa e lentamente si affievolisce. Spesso non si coglie l’attimo irripetibile dell’evento che accade probabilmente in maniera unica nel corso di una vita, se non a distanza di decenni, o forse mai più. Quel che avviene ora è già passato, non ha un futuro, transita come un bagliore per pochi palpiti, senza rendersene conto, senza la possibilità di fissarlo e capirlo. Certe luci hanno una fiamma che spaventa, illumina, brucia e poi sparisce. E ti risvegli a terra, in una landa desolata. E così ti assopisci ancora una volta, e ritorni al consueto, all’ordinario. A tutto ciò che non ha fuoco e calore. Lei si chiamava Asami.

Ci avvertimmo e conoscemmo in un rifugio sotterraneo durante una delle tante esercitazioni antiaeree. Eravamo stipati come animali in una specie di fogna lurida, oscura e umida. Era seduta accanto a me per terra. Io non la vedevo ma la sentivo. I nostri tratti non si palesarono subito. Non sapevo nemmeno che ci fosse una ragazza proprio lì. Però capii dal suo profumo che sarebbe stato meraviglioso conoscerla. Dopo alcune ore di stanchezza e immobilità, le chiesi se volesse rischiare con me di andare fuori a respirare un po’ d’aria pura, ossia se volesse fumare. Mi disse di sì. Era da mesi che non toccava una sigaretta, ma in quel momento ne aveva proprio bisogno. Uscimmo al cielo. E vidi il suo volto e il suo corpo. Era di una bellezza entusiasmante. I suoi occhi mi penetrarono, e i suoi capelli mi affascinarono. Poi guardai il suo viso e m’innalzai in un’estasi mai provata prima. Aveva una voce gioiosa, calda, amorevole. Tutto era incantevole in lei, tutto era aggraziato. Spandeva a pelle passione e ardore, felicità e candore. Nell’accendere la sigaretta le nostre mani si sfiorarono, e io rimasi immobile e spaurito da quella vampa immateriale che mi avvolse e mi aggrovigliò in spire arroventate, togliendomi il fiato fino ad ansimare. Era una gioia, che divenne una beatitudine infernale. Fu una sensazione istantanea.

Da quel giorno fu spesso così, quasi con l’inclinazione e l’animo della continuità. Ogni volta che c’incontravamo, sentivo di essere vivo, immortale, proiettato o precipitato in una dimensione sovrumana. Il suo carattere si manifestò subito pregno di bontà, gentilezza, finezza innata. Un’amabilità annientatrice. Non pensavo che potessero esistere creature capaci di creare e sprigionare così tanta energia. Ma a tratti e vagamente, cominciavo a intuire che un’essenza letale mi fumava accanto. Nel corso delle settimane il dubbio e poi il veleno si affacciarono prepotenti in me, che all’inizio l’avevo immaginata con le sembianze della perfezione; percepivo che il suo carattere aveva delle incongruenze strane, anomale, forse esagerate, che ben presto scaturirono fuori con la veemenza dell’inarrestabile.

Diverse volte, quasi ogni giorno, per più ore nello stesso mattino, ci trovavamo a fumare e parlare seduti sulla collina dei ciliegi. La guerra era uno spettro lontano.

Ma da qualche tempo avevo una strana impressione, e pressappoco la intuivo come un turbamento, ossia il discorrere con un’essenza priva di animo, come se le nostre conversazioni fossero un soliloquio. I dubbi nascevano dall’assenza delle sue risposte. Asami era a volte di fianco a me, spesso di fronte, accovacciata e sorridente, statica e rigida; non interagiva, non comunicava, e non rispondeva neanche, come fosse uno specchio, quasi un riflesso materiale delle mie astrazioni. M’infliggeva una freddezza e un distacco inusuali, al punto che mi sembrava di vagare in un incubo; tutte le volte che mi avvicinavo e cercavo di toccarla, lei mi sfuggiva.

Si ritraeva, si allontanava, quasi sfumava, quasi non esisteva. Era eterea.

Ricordo ancora i primi giorni di quell’agosto del 1945. La guerra stava per finire, ma io non l’avevo mai vista: non ero stato arruolato perché nato senza un occhio. Tranne per il cibo razionato e le incursioni aeree, eravamo sprofondati nel distacco più assoluto di ciò che attanagliava il mondo. Quel pomeriggio assolato del 5 andammo ai piedi della solita collina, ci inerpicammo su per un sentiero scosceso e ombroso raggiungendo la sommità. Da lì sedemmo a mirare l’orizzonte, perdendoci nelle nostre chiacchiere. A un tratto le nostre voci tacquero, ci guardammo, mi avvicinai, e cercai di abbracciarla e di baciarla. Ma nessun contatto si palesò tra di noi. Lei era sparita o forse non era mai esistita.

Nel mio slancio impetuoso ero finito a terra, col viso tra l’erba secca e la terra dura. Avevo cercato l’ideale, lo avevo voluto cingere, farlo mio e adesso era scomparso. Forse Asami era frutto della disperazione di chi aveva voluto sognare sapendo di sognare. Restava solo l’olezzo di quell’erba, e da lì l’abisso che ne sarebbe conseguito. La rassegnazione non avrebbe mai avuto un epilogo migliore di quello che si sarebbe verificato l’indomani. Ma io ancora non lo sapevo. Per una volta mi ero lanciato in un turbinio di emozioni, vagando con la mente chissà in quali supposte e vorticose speranze, e il disincanto adesso mi spiaccicava con quell’unico occhio impolverato a constatare quanto fossi veramente orbo. Mi ero smarrito nel nulla ed ero diventato vulnerabile, spalancando la porta al dissolvimento di un amore, godimento mostruoso dell’impossibile. Avevo partorito un essere sublime, delicatissimo, una divinità risolutrice, o forse un demone, che aveva soltanto accelerato il mio decadimento e, ancor più deprimente, aveva relegato ogni desiderio della mia pusillanimità là dove strisciano i vermi.

Asami era la menzogna, e ancor di più era la contrapposizione in due entità, distinte e separate, e persino antitetiche, di una stessa trasfigurazione. Era lo stupore falso e inverosimile della non consapevolezza di esistere in una propria sopravvalutazione, ma in un mondo ristrutturato ad arte, fittizio e ammirevole, il cui unico epilogo sarebbe stato una deflagrazione immane. E così avvenne.

Fu la sua unica espressione degna d’immutabilità.

 


racconto di Hans Oberhausen-Valdez


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