Editorialerecensioni cinematografiche

Ormai saprete quasi tutti che questo sequel di Blade Runner di Scott è stato un flop gigantesco al botteghino mondiale del cinema.

Devo essere onesta, avevo predetto all’uscita dal cinema il primo giorno della sua programmazione che sarebbe successo proprio questo e lo avevo fatto con il cuore a pezzi.

E accidenti se non mi scoccia tantissimo aver avuto ragione, anzi anche più di ragione, visto che ha addirittura superato al ribasso le previsioni più pessimistiche possibili sul suo incasso.

Lo so, il discorso sembra sconnesso e senza senso, ma credetemi è invece logicissimo.

In primis io adoro il suo capostipite. Letteralmente lo adoro. È uno dei film che sono un punto fisso della mia vita da cinefila. Qualsiasi film che mi ha appassionato prima e dopo di lui, non è mai riuscito a scalzarlo dal posto d’onore che ha nel mio cuore.

È intelligente. Visivamente complesso e stratificato, in un’epoca in cui il cinema non lo era quasi per niente. Parla di umanità in maniera profonda e complessa. Ed ha quel monologo finale di Hauer che ogni volta mi inchioda a guardarlo affascinata dall’idea che a qualcuno possa essere venuto in mente una cosa così semplice e meravigliosa insieme.

In poche parole è IL CINEMA. Senza se e senza ma. Quello dove tutto si incastra alla perfezione per ottenere un capolavoro.

Nonostante un siffatto amore totale verso il suo “progenitore”, ho accettato e anzi gradito l’idea di un sequel, visto che il suo regista è quel Villeneuve di Arrival e altri film che trovo innovativi e affascinanti nel nuovo panorama registico.

In fondo, dopo trentacinque anni era anche ora di tornare in quel mondo meraviglioso creato nel 1982.

Ero anche consapevole che mai avrebbe potuto ripetersi quel “miracolo” che ha reso la perfezione il primo film, ma che le basi gettate da esso potevano essere prese ed ampliate in modo egregio da un fior di regista come Villeneuve. Che sicuramente poteva quindi arrivarci molto vicino.

E allora, direte voi, perché uscita dalla visione del film ne hai pronosticato il flop?

Semplicemente perché tutto in Blade Runner 2049 è fatto per stuzzicare gli occhi, per tenerti legato per due ore e mezza alla poltrona del cinema senza accorgertene… tutto tranne la sceneggiatura, e quindi alla fine ti delude.

Blade Runner di Scott ha un’anima come pochi film hanno nel cinema. Ti fa pensare, ti coinvolge in maniera totale con il suo dilemma: cosa rende l’essere umano degno di questo nome? La sua natura biologica? La sua morale? La sua anima? Il suo comportamento? La sua voglia di vivere? E così via.

E queste domande ti restano dentro per anni dopo averlo visto. Ne ho testato la validità sul mio stesso figlio quasi sedicenne. Lo ha visto “in preparazione” del sequel e se ne è innamorato a vista. Ne ha disquisito per giorni, discutendone con me e alcuni suoi coetanei per ore. E tutto questo 35 anni dopo la sua prima proiezione.

Quando vedi Blade Runner 2049 le immagini stupendamente create da Villeneuve e soprattutto dal suo direttore della fotografia Roger Deakins ti incantano e ti lasciano addirittura stordita con la loro magnificenza. E cominci a pensare di avere davanti finalmente il degno erede del primo film. Quello che ti entrerà nel cuore e gli farà compagnia per anni.

Poi lo stordimento iniziale passa e cominci a pensare, cosa che proprio il suo capostipite ci ha insegnato a fare, al messaggio che il film sta cercando di darti e non trovi nulla.

Nulla di nuovo, nulla di eclatante. Nulla di quello che il primo film aveva seminato così bene è stato coltivato e fatto fiorire in questo film.

Anzi, ti accorgi che l’interpretazione di Gosling non è poi neanche sto granché, che il plot twist del film è talmente scoperto da essere “sgamato” dopo cinque minuti netti di tempo dalla sua esposizione.

E allora mi sono chiesta come Villeneuve, un regista attento al minimo particolare, abbia potuto far descrivere al suo protagonista due DNA identici, ma di sesso opposto. Ma i cromosomi sessuali, fondamentali per il fenotipo, dove li ha messi in tutto questo? E qui si parla di genetica da quinta elementare.

E secondo lui come avremmo dovuto prendere il fatto che la creatrice della memoria su cui K basa tutta la ricerca della sua “anima” dica che sia vera e si metta a piangere disperata?

E la ricerca dell’umanità di K usando Joi? Notare, Joi senza la y, a denotare un chiaro intento di tenerla ben lontana dal suo significato reale (joy=gioia). Un ologramma di cui Villeneuve ci dice chiaramente cosa pensa attraverso un personaggio del film “alla fine non c’è poi molto di profondo in te”. Peccato che quell’ologramma dovrebbe essere proprio la “profondità” di K, la sua “anima”.

Ed il clou si raggiunge con il personaggio di Leto, Wallace. Un pazzoide cieco che parla a vanvera di angeli, Vangelo, supremazia umana rispetto ai Replicanti. Ma che alla fine non serve assolutamente a niente, viene buttato lì nel film come se fosse un ospite vip.

Quando poi, finalmente, si arriva a Deckard si vede un po’ di luce, nella recitazione di un Ford tornato ai fasti della sua carriera, dopo la penosa interpretazione di Han Solo in Star Wars VII, ma con una sceneggiatura che fa acqua da tutte le parti anche per lui.

Quando viene salvato da K gli urla che doveva lasciarlo morire. E allora perché ha passato i venti minuti precedenti a cercare di salvarsi la vita disperatamente?

È talmente campato in aria questo film che molti hanno pensato sia stato creato per essere un passaggio verso un finale di una trilogia iniziata 35 anni fa.

Ma Villeneuve è in grado di fare molto ma molto meglio di tutto questo. Anche se avesse dovuto lasciare in sospeso qualche questione per un prossimo film. Del resto anche il suo capostipite lo aveva fatto e andava benissimo così. Eri tu spettatore a decidere dove portarlo e come, sulle questioni morali che aveva messo sul piatto.

A questo punto posso solo supporre che Villeneuve sia stato “legato” da qualcosa che gli ha impedito di vedere errori così pacchiani e senza senso. Forse la nostalgia e il rispetto che ha sempre detto di provare per l’originale. Proprio quell’amore eccessivo lo ha quindi accecato, impedendogli di essere quel professionista eccellente che ha già dimostrato di essere.

Intendiamoci, averne… di film così da vedere ogni anno al cinema. Una pura gioia per gli occhi, e nettamente sopra, come qualità intrinseca, di tre quarti della produzione cinematografica recente.

Ma questo è e vuole essere dichiaratamente il sequel di Blader Runner di Scott e come tale fallisce miseramente. Ha un’anima, ma a differenza del suo predecessore è fredda e impersonale come quella di K.

Tenuto conto poi anche che quest’anno al cinema è giunta al termine una trilogia di film che invece hanno un’anima calda e pressante, Il Pianeta delle Scimmie di Reeves. Infatti, se facessimo un paragone tra Blade Runner 2049 e The War, il primo ne uscirebbe a pezzi inevitabilmente.

In conclusione, un film da vedere di sicuro, se si ama il cinema. Ma se si cerca proprio il sequel di Blade Runner, delle sue implicazioni morali, del suo “cuore”, allora no non è questo il film giusto. E credetemi è proprio un gran peccato.
 

Antonella Cella
jackson1966

 


VISITA I NOSTRI PRODOTTI SU AMAZON

 

Lascia un commento