EditorialeRacconti brevi

Sentivo qualcosa di impetuoso che sbatteva sulle imposte delle finestre, inondava di pioggia il giardino e i muri della casa. Era inverno, ma io me ne stavo accucciato in un angolo del salotto. Gli eventi atmosferici avrebbero seguito un corso da me immodificabile, ma io me ne fottevo. Tanto ormai ero al riparo, al caldo, alla luce fioca di una lampada con paralume, libero da qualsiasi cosa si verificasse al di là di questa camera, grotta, caverna, soffitta, cantina. Il solito bunker.

Fuori ci sarebbero sempre stati predatori, o forse iene, e io lo sapevo. Avevo già nuotato in quello stagno, conoscevo il viscoso olezzo, e la difficoltà ad approdare all’altra sponda, e non vi sarei ridisceso per lordarmi ancora una volta. E così mi esiliai improvvisamente, e senza por tempo in mezzo, da quella nuova palude. E poi vi risprofondai.

Mancavano pochi giorni alla notte di San Silvestro, il punto che segna il passaggio da una vecchia stagione a una nuova, carica di speranze, illusioni, e nuovi intenti. Si ripercorre un’atmosfera già vissuta, magari non del tutto conosciuta, ed ecco scaturire un resoconto intrappolato in una riflessione sfuggente e traviante, forse piena di gioie, rimpianti, giochi.

Un nuovo giorno è anche un’apologia del piacere, del tempo che scorre, l’attimo come seduzione, l’istinto che diviene una fenomenale potenza costruttiva e ricostruttiva di quanto si possa assaporare nella ricerca di un presente che sfugge e di un futuro a cui si mira. L’incanto della vita che si snoda nella sua semplicità delle ore assaporate, gustandone i momenti singoli e irripetibili che degradano e spariscono irreversibilmente. La continua alternanza tra profondità e superficie.

In pochi attimi si snoda nella mente tutto il corso di un sogno che sembra una vita intera, e poi ci si accorge che è sfumato come ogni altro. È stato inutile. E di nuovo ancora una volta a sperare, a credere in eventi risolutivi.

Occorre sempre pensare, con uno stato d’animo intriso di disillusione, che ogni minuto che passa è quello definitivo, come se si fosse davvero sul “punto di non ritorno”, ma è davvero più conveniente continuare ad andare avanti, piuttosto che tornare indietro!?

Abbiamo travalicato il passato, e ogni passo in più è sempre un’orma verso il futuro, il nuovo. In sintesi: è il passo della speranza! E volendo dare una soluzione a tutto ciò che ci è sembrato pericoloso, perso, inutile, dannoso, ancora più in sintesi diremo: ma vaffanculo!

 

Gli ultimi mesi mi avevano estasiato tantissimo, quasi fossero un’incubatrice di uno nuovo moto. L’approssimarsi di quella notte mi incantava illimitatamente, mi infondeva quell’euforia che si assapora quando il volgere della fine di un qualcosa è prossimo. Nella mie teorie inconfutabili, anche a ragione, sarei tornato sempre al punto di attracco e di partenza, e lì avrei raccolto coloro che avrebbero condiviso con me il tuffo nel prossimo anno, in una nuova dimensione di vigoria, la disperazione superata. Avrei continuato ad arrostire al solito barbecue, aspettando che la coreografia ripetitiva di fuochi  all’intorno illuminasse un cielo limpido e stellato.

Il focolare ardeva un legno di arancio profumatissimo, gli amici chiacchieravano sparsi attorno al tavolo, taluni fumavano in giardino. Erano coloro che ormai vedevo quasi ogni giorno, per cui volli gustarmi quelle poche ore a parlare con Katerina, un’amica scrittrice che era giunta per l’evento e che presto sarebbe ripartita. La nostra conversazione fu esilarante. Riprendemmo un discorso tralasciato in precedenti incontri.

Scherzosa mi disse: “ma come fai a paragonarmi la Silvia leopardiana ad una sciacquetta in stivaloni? Oh, questa è blasfemia! Ti porto dinanzi al tribunale degli scrittori! ma un personaggio femminile un tantino più normale no? Non è che noi donne siamo tutte o deficienti gne gne o zoccole o entrambe le cose! Devi essere stato sfortunato nei tuoi incontri…”.

Io non sapevo che risponderle, probabilmente avevo in mente solo far risaltare la differenza tra una poesia e una tragedia. Del resto quasi tutte le donne incontrate non erano per forza avvocatesse, simpatiche, generose, laureate, superiori e di classe, o almeno questa era la mia percezione. Anche se la realtà è una e immutabile, e quindi io descrivevo solo ciò che vedevo.

Per lei schizzavo con cattiveria, ma con giustezza, solo giovenche miserrime, o come le chiamava lei: “zoccole da combattimento”, e probabilmente non si sbagliava. Da quei colloqui nacque una nuova discussione spassosa, cioè la descrizione dell’Oca alfa. La nostra tipologia ne distinse tre: quella perfida, quella stupida, e quella persino intelligente. Avrei potuto enumerarle casi e nomi, e probabilmente lo feci, ma volli parlare d’altro.

Caterina si portò le mani alla fronte e scosse il capo con espressione rassegnata. Poi mi guardò dritto negli occhi trafiggendomi: “le donne sono un caleidoscopio di emozioni, pensieri e colori”, e poi esordì quasi poeticamente: “ci sono le donne chimere che ti innalzano al Paradiso, ci sono quelle che ti turbano e ti donano emozioni viscerali tanto da spingerti a fare cose inaudite, e poi ci sono le stronze, egocentriche, autentiche zoccole… tutto per “esse” gira intorno a loro e godono nell’essere vezzeggiate, osannate e coccolate. Finché in un certo momento si stancano e cambiano soggetto, per poi piangere lacrime di coccodrillo nel subire le conseguenze delle proprie azioni”. E ancora aggiunse, terminando con enfasi e dimenticando di utilizzare termini più gentili, “ricordiamoci che le ultime sono le più sciocche ma le più pericolose. Quando non si trovano più al centro dell’universo altrui, fanno di tutto per ferire, dileggiare e punire colui che considerano reo di averle dimenticate”. Detto questo si spostò ad accarezzare i miei cagnoloni, considerandoli soggetti più interessanti di qualche oca in cerca di gloria.

La mezzanotte era sul punto di scoccare, tutti quanti uscimmo in giardino. Io e Katerina ci alzammo dal divano ancora ridendo a crepapelle per la teoria dell’Oca alfa, quasi ne vedevamo il viso, che poi altro non era che uno stereotipo, un’esistenza dozzinale, dalla limitata mente annebbiata, problematica, ridicola, che si agghinda di una veste esibizionista, falsa, dal succo un po’ amaro, per dimostrare a sé stessa che è in vita, che respira persino, con l’apparenza grottesca e illusa di una calamita che attrae e respinge, la lotta amorfa di una stato di solitudine interiore, che degenera nella cattiveria di un infantilismo inarrestabile, e per farla breve… il compendio di una qualsiasi malata di mente.

 

Già si udivano le detonazioni dei vari mortaretti, vari fuochi illuminavano l’oscurità, la mezzanotte stava per scattare. Preparammo lo spumante e i bicchieri per brindare al nuovo anno. Eravamo tutti allegri, pronti, sorridenti, come se quell’attimo segnasse davvero la nascita e la rivelazione di un nuovo evento, di un nuovo mondo. Come se l’indomani dovesse sorgere l’apocalisse. Ma non si levò un bel niente. Tutto rimase immutato e identico all’uguale delle varie ore passate a sperare in un cambiamento, una mutazione radicale che travolgesse e riavviasse il corso del mondo.

Sembrava che tutti i volti che mi passavano di fianco, coi loro sorrisi, con quelle voci aspre, gaudenti, alcune persino roche, avessero l’eco della ripetitività infinita, quasi il suono di un vinile stridulo che ricomincia sempre da capo. Non vi era nulla di nuovo e di sorprendente, e nonostante fosse costante nella sua noiosa reiterazione, aveva sempre l’essenza dell’inutile, del già visto. Le solite testate al muro.

In quei momenti, attimi che avevano l’intensità dell’eternità, percepivo una malinconia strana, come la caduta lenta da una rupe, quasi sognando, pensando e ripensando a tutto quello che avrei voluto fare e non avevo fatto, o non facevo. Non era uno schianto, ma una disperazione, non era un volo ma una stasi, una specie di inerzia che m’impediva di muovermi, se non nel circoscritto e già segnato, un vecchio locomotore che entra ed esce dalla solita galleria. E tutte le volte che intravvedevo la luce del sole e il profumo dell’aria ritornavo nell’oscurità del tunnel. Brevi attimi di entusiasmi, e poi di nuovo sprofondato nel ventre di quella montagna, a respirare la puzza del mio carbone che mi bruciava senza sosta. Non c’era via di uscita da quel monte, almeno così mi sembrava. Fino a quella notte. Sarei evaso dal tunnel e avrei imboccato la china, seguendo i binari verso il pendio del monte, dirigendomi finalmente verso valle. Accesi i miei motori diesel, inondai di fumo la galleria, i fari rischiararono l’oscurità e mi mossi.

 

A presidiare la porta del tunnel, di casa, del bunker, forse l’entrata e l’uscita da un mondo, c’era una cara amica che fumava una pipa di legno chiaro da me costruita e limata in pochi giorni. Gli altri non videro la donna, forse perché magra, slanciata, acquattata, o perché invisibile.

Era di una bellezza maligna, oscura, ermetica: i suoi occhi erano vitrei, arcani, glaciali, le pupille sfere di cristallo insondabili, lo sguardo agghiacciante e immutabile. Ogni suo sorriso non rallegrava, faceva paura, era un ghigno… trapassava e impietriva. Si chiamava Mariaelena, ma per me, e non solo per me,  era semplicemente l’Angelo della morte.

Dialogammo qualche istante, ma più che altro lei si espresse in una specie di orazione o un soliloquio, quello che io chiamavo il discorso della morte, che poi era sempre lo stesso, da un’eternità. Mi guardò negli occhi, una voce sovrumana uscì dalle sue labbra, quasi non si sentiva, era il monito freddo di un’esistenza ineluttabile: “quand’anche la compassione fosse il diritto di uno spirito elevato, noi siamo consacrati a passare oltre. La pietà è una sensazione che annichilisce, che distoglie, che non alimenta il disprezzo. Che non sia odio, ma denigrazione, che non sia brutalità ma disdegno. Chi vuole creare sofferenza deve sempre avere passi soavi!”.

Dal terrazzino del giardino guardammo i fuochi d’artificio esplodere, ravvivare, e illuminare tutta la vallata, brindammo a quel volgere del tempo.

L’Angelo della morte mi guardò truce, e con una ferocia delicata, ossia amicizia pura e incantevole, mi sorrise e mi disse: “fratello, sta per arrivare un nuovo giorno, qualcuno si sta già pisciando controvento!”. Le risposi: “sorella Morte, sono io che gli piscio addosso!”.

 

 

 

Joe Oberhausen-Valdez
Caterina Schiraldi

 


 


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