FANS

Il drago e la sfinge
(parte prima)

 

“Un drago chiuso in una grotta buia, distante duecento metri dalla luce del sole”, – ma io non vidi mai quel bagliore. È così che mi descrisse un misterioso personaggio mitologico, venuto da chissà dove, risposta alla mia domanda “Che pensi di me?” Beh… come dargli torto… Io sono davvero un mostro con la lingua di fuoco che si nasconde da tutto e tutti, forse per non atterrire i cosiddetti “normali” o, più probabilmente, per non esserne spaventata io. Lui mi osservò, con due occhi che sembravano glaciali, immateriali, ma erano caldi e penetranti, e mi sprofondarono in uno stallo senza tempo. E poi mi disse: “La tua bellezza è un’aquila che mi artiglia all’infinito”.

Sono sempre stata strana. Da piccola mi pisciavo addosso. A scuola odiavo andare alla lavagna, ricordo gli occhi dei miei compagni che mi fissavano e io che tremavo come una foglia.

Un giorno la maestra ci sottopose un banalissimo quesito di grammatica, sbagliarono tutti, io lo sapevo ma mi adeguai all’errore comune, almeno nessuno mi avrebbe notata. Avevo gli occhiali, l’apparecchio ai denti, ero pallida e smunta, con le occhiaie di un panda. Un mostro in tutti i sensi. Il mio amichetto immaginario era Dante Alighieri, leggevo la Divina Commedia senza capirci un cazzo. Dicevo: “Dante, qualsiasi cosa sia questa selva oscura, mi piace assai, ne riparliamo tra qualche anno”. Difatti, poi, diventammo molto intimi, quando iniziai il liceo.

Un giorno mia madre mi regalò una bici, lei era contentissima, io per niente. Perché mai aveva pensato che potesse interessarmi quell’aggeggio? Non ci sono mai salita, era rosa, orribile.

Ero affetta da onicofagia cronica, le mie unghie erano sempre sanguinanti, io me ne compiacevo, mi autopunivo per la mia asocialità, sapevo di essere una bambina bizzarra, che tutti ridevano di me perché ero “strana”, eppure ai miei occhi erano loro quelli inverosimili, innaturali.

Nella mia solitudine ci stavo benissimo. L’unico che tolleravo era Pietro, un bamboccio coi capelli ricci, pazzo come me. La mattina andavamo insieme a scuola. Ogni giorno la stessa routine: lo vedevo da lontano infagottato nel suo grembiulino blu, che si ribellava alla madre, rea di costringerlo all’insopportabile vita da scolaro perbene; scalciava come un pony imbizzarrito, le sputava amorevolmente in faccia e, sconsolato, si dirigeva verso di me, che lo aspettavo seduta su una panchina. Mi prendeva per mano rassegnato, “coraggio, andiamo” mi ripeteva, con un ritornello quotidiano.

Io e Pietro ci volevamo bene. Era un orsacchiotto grassottello, mangiava come un ossesso, io inorridivo nel vederlo rimpinzarsi come un tacchino, così distoglievo lo sguardo per non urtare la mia sensibilità gastrica. Era perennemente incazzato, bestemmiava come un adulto, ma non osavo contraddirlo quando dava di matto, perché temevo sputasse in faccia anche a me e, in fondo, non volevo alterare il suo equilibrio che sapevo fragile, come il mio.  Lui faceva lo stesso con me, mi guardava le spalle e tirava pugni agli stronzetti che mi sbeffeggiavano. La nostra era una sorta di compassione reciproca, in senso letterale, soffrivamo insieme, ci difendevamo vicendevolmente in quel mondo che avvertivamo come ostile, incapace di accogliere due alieni come noi. Chissà che fine ha fatto.

Poi gli anni del liceo. Dovevo cambiare, fingermi “normale”, non potevo andare avanti come una particella di sodio. Con quella faccia da reietta mi avrebbero asfaltata all’istante, non ce l’avrei fatta senza il mio prode cavaliere Pietro il cicciottello, dovevo trovare il modo di sopravvivere nel girone infernale che mi apprestavo ad esplorare. In fondo, giocavo in campo neutro, lontano da casa e nessuno avrebbe potuto aver contezza della mia infanzia difficile, nessuno avrebbe potuto sapere che stavo solo recitando un copione. Intanto mi erano spuntate pure le tette. Bene! pensai, un’arma in più. Iniziai a vestirmi e truccarmi come una giovane squillo, guardandomi allo specchio non potevo evitare di biasimarmi per quanto fossi ridicola “travestita” da donna. Però qualcosa cominciava a funzionare… in poco tempo la particella di sodio diventò un’acqua minerale di tutto rispetto, invidiata dalle femmine, venerata dai maschi. Lo consideravo il mio riscatto dopo gli anni del “Grande Disagio”.

Ero diventata bellissima, popolare finalmente ma, dentro, ero ancora una povera Crista. Una sfigata misantropa. Odiavo i miei amici, tutti troppo ignoranti e infantili, pure i miei fratelli, tre ragazzetti vomitevoli che puzzavano di sesso acerbo e segaiolo. Sfidavo gli insegnanti che mi veneravano come una divinità della sapienza senza volontà, un genio in potenza, svogliata e arrogante. Non mi piaceva studiare, non digerivo il dover dimostrare a qualcuno il mio grado di preparazione, lo consideravo un vanto inutile, un esercizio di stile.

Ed io non ho uno stile, io vado per i cazzi miei.

Leggevo quantità vergognose di libri, li divoravo come in preda ad una voglia disperata di scoprire mondi alternativi al mio, tra quelle pagine cercavo un conforto, un guizzo di vita, di immaginaria follia, quella stessa follia che sapevo di avere dentro, ma che tenevo nascosta perché ne avevo una fottuta paura.

Mi sono sempre sentita vagamente inadatta, a disagio in mezzo alle persone, comparse senza dote.

Con il tempo ho trovato una pseudodimensione nel mondo, un mondo non mio. Fingo simpatia ma senza alcuna empatia. Non mi piace il genere umano, non lo capisco e non mi interessa esserne compresa. Semplicemente non ci apparteniamo.

Io sono il Caos, da cui tutto sorge e dove tutto termina. Dentro soffoco, fuori mi perdo. Cerco ardentemente la luce, ma sono attratta dalla tenebre. Una maschera impenetrabile che attrae e spaventa. Un universo paradossale e vagamente apocalittico. Una creatura mostruosa, un esperimento divino riuscito a metà, oppure troppo… Una creazione eccelsa. Ecco cosa sono.

È venerdì sera. Mi tocca prepararmi per la farsa, la recita dell’ordinario. Metto un tubino nero, tacchi a spillo. Mi guardo allo specchio, con il rossetto giusto sento di poter conquistare il mondo.  Sono pronta per la festa, non so neanche di chi e dove… poco importa. Lo schema è sempre lo stesso. Zombie che trascorrono il tempo tra fatuità e sterile vanità, un teatrino confuso ed annoiato, che fa dell’ipocrisia la propria maschera abituale.  Avatars che vivono a ritmi incessanti, quasi in preda ad un isterico “horror vacui”, solo perché rallentare li costringerebbe a pensare e, pensare, non porterebbe che a dover ammettere una sola, ineluttabile verità: che quella bella vita, festini e festoni, non è altro che una commedia della solitudine, dietro c’è il Nulla. Questi sono i famigerati “normali”.

Mentre le salme si dimenano in pista, io esco sul terrazzo. Accendo la mia Winston Blue, alzo gli occhi al cielo e vedo lei, la luna, che mi sorride beffarda. Lei sa la verità e si prende gioco di me “come ti sei conciata, Ilariù? Tu non sei come loro, quando lo capirai?”. Già… chi sono, che faccio? Me lo sono chiesta da sempre. Domande del cazzo. Poi la vedo sparire dietro una nuvoletta… no, è solo il fumo della mia sigaretta. Hai ragione tu, Luna dispettosa, non lo voglio accettare. La verità è che tutto mi annoia. La solitudine, la compagnia, il giorno, la notte.

Una mano sulla spalla mi ridesta dal mio torpore. È Jessica, la mia amica botoxofila, un rospo tirato a lucido a suon di acido ialuronico. “Ila, che fai qui fuori, tutta sola? Sempre a cercare l’infinito oltre l’orizzonte?! Uff – gonfia le gote – che palle… Dai, andiamo dentro, ci sono un paio di tipi niente male”. Costoro sono degli ominidi smidollati, orfani di cervello, che profumano di gelsomino selvatico, odorano di decomposizione già a vederli.

Mi butto nella mischia, mora e accattivante con la bocca rosso fuoco e le calze con la riga nera. Sinuosa come una dea greca, mi sento bellissima. Sono prepotentemente attraente. La sala è un buco nero, assomiglia alla voragine che mi porto dentro, oscura e infernale.

Dismessi gli abiti di scena, scendo dai tacchi e ritorno alla mia altezza abituale di ipocondriaca incompresa. Da aquila reale a Calimero è un attimo, il passo dell’oca… saccente.

 

Stamattina piove, “Kalimera” ha dormito poco. Sono stanca ma ho voglia di camminare, così mi infilo un paio di scarpe e scendo in strada. Mani in tasca, vento che mi sfiora pungente le guance, con i capelli che mal sopportano l’umidità, sembro un istrice.

Intorno a me è tutto maledettamente uguale a ieri.  “Vassene ‘l tempo e l’uom non se n’avvede…” Scivola via impietoso il mio tempo, eppure sento di non possederne che l’Idea.  Non l’ho mai vissuto veramente, mi limito ad osservarlo, come una spettatrice immobile, a giudicarlo, perfino ad odiarlo perché non mi restituisce quell’Attimo di vita che aspetto da sempre. Il momento perfetto. Quello dove il Caos diventa Perfezione e la “Draga” esce dalla grotta buia e rivede la luce. L’istante in cui mi riconcilio con il mondo ma soprattutto con me stessa.

Non mi sono mai amata veramente, sempre insoddisfatta di una vita che è troppo poco per me, che non riesce a colmare il vuoto che ho dentro, accuso me stessa di questa mancanza. Troppo labili i turbamenti per sconvolgermi profondamente, effimere le passioni per esserne travolta, il dolore non mi atterrisce, il piacere non mi soddisfa mai abbastanza.

Eppure un’energia immane pervade ogni fibra del mio corpo, la sento serpeggiare sotto la pelle come magma incandescente, una brama che tutta mi agita, mi sconvolge e chiede solo di esplodere. E scoppierò. Il desiderio di quell’attimo che all’improvviso avviene, mi avvolge e mi ricrea. La risposta a tutte le domande. La deflagrazione e, poi, la distruzione. Ardere insieme, per terra, giacere persi davanti alla “sua” stufa che c’infiamma, senza limitar di tempo. È solo quel Momento che potrebbe colmare l’Abisso, e mi tormento nella sua affannosa ricerca, eppure so che, se anche riuscissi a fissarlo, nel vorticoso volgere del tempo, non potrei trattenerlo. Mi sfuggirebbe dalle mani, destinato fin dall’inizio a perire, e quell’inquietudine che mi agita il cuore rimarrebbe lì, violenta e sofferente, ancora una volta. L’insoddisfazione che è tensione all’Infinito, che mai si compie. Non si chiama forse felicità quel minuscolo istante in cui ti senti parte del Tutto? L’empatia, la compenetrazione. Credo di sì, anche se non l’ho mai conosciute.
 

di Ilaria Di Leva

 


 


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