FANS

Il drago e la sfinge
(parte seconda)

 

Chiudo gli occhi, respiro… questa “selva oscura” dentro al petto ha il silenzio di una grotta fiorita e una potenza devastante.  Attraversarla richiede coraggio, è pericoloso, fa paura, ma non potrò evitarlo ancora a lungo.

Io voglio molto di più, voglio imparare a volare. Mi arriva una pallonata in faccia, che mi risveglia dalle mie elucubrazioni. Detesto essere disturbata mentre vagheggio, la mia mente si distacca dalla realtà e trasvola verso la sfera extraterrena, in una dimensione che sa di mistico… Quei quattro stronzetti se la ridono mentre restituisco loro la palla, con i dovuti ringraziamenti del caso… fanculo. “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa.” Sono saccente, sì lo so. Va be’, solo un caffè può rimettermi al mondo.

Ho la sensazione di consumare la mia vita nell’interminabile attesa di qualcosa che non accadrà mai e, mentre aspetto, mi chiedo quale sia il senso di quest’assurda prospettiva. Sarebbe meglio invece andare incontro alle sensazioni con assoluta disinvoltura, senza aspettative, senza questi inutili patemi. Quanta roba mi perdo io, ogni giorno. Però è proprio l’attesa che mi fa sentire viva, e c’è qualcosa di molto erotico nella linea sottile che separa il potere dal volere.

Il mio caffè nero bollente, quello sì, che è erotico.

Torno a casa, ancora frastornata dalle mie riflessioni. Nel cortile trovo lei, la mia simpatica dirimpettaia, una spregevole vecchina che ha preceduto sulla terra Isacco e Giacobbe. È decrepita. Peggio di un cane da tartufo, sospende qualsiasi attività domestica non appena fiuta la mia presenza nel suo raggio d’azione, al solo scopo di pormi sempre la stessa, insopportabile domanda “Ilariù, ma quann te’ spus? Ormai tieni trentatré anni”. Quando sono sul punto di dirle “malefica megera, impicciona senza precedenti, pure tu tieni un’età, eppure non ti ho mai chiesto quando tirerai le cuoia”, tira fuori dalla tasca un cioccolatino e me lo porge in segno di pace. Anche stavolta mi hai fregato, vecchia stronza immortale.

Finalmente è arrivato il pacco che aspettavo. Sarebbe dovuto pervenire – mi compiaccio sempre volentieri della mia soverchiante cultura – due settimane fa, neanche avesse circumnavigato le Indie… dentro c’è un regalo riparatore per mia madre. Ho rotto un cimelio che lei chiama “portaoggetti”, per me è semplicemente una cianfrusaglia attirapolvere; è sempre stato lì, in bella mostra nel salotto, da quando ne ho memoria, cioè da sempre. Ci teneva tantissimo, non ne ho mai compreso il motivo. Lei tiene a tutto, una romantica accumulatrice di oggetti inutili. Ho incollato i cocci meglio che ho potuto, in attesa che arrivasse il “pezzotto”.  Ecco, ora è il momento di servirle l’amaro boccone. Schiarisco la voce e le vado incontro, come si incede verso la ghigliottina. Sta pelando le patate per l’arrosto. “Mamma, guarda che cosa ti ho comprato… è un oggetto di design. Ho pensato che dobbiamo un po’ svecchiarla ‘sta casa… guarda, guarda…”. Si volta verso di me, con i suoi occhietti verdi, piccoli e inquisitori, puntandomi contro il coltellaccio. “So già cosa hai combinato. Disgraziata, scassi sempre tutto, sei un terremoto.” “Questo è più bello, è moderno” sibilo io, quasi accucciata e silente.

Lo so, avrei dovuto dirglielo. Accorgersi che qualcosa a cui tieni è andato in pezzi è sempre un dolore, anche se si tratta di suppellettili dell’Avanti Cristo. “Mi perdoni?” E quando mai non ti ho perdonato? Sei un disastro, Ilarietta mia. Da quando sei piccola, mi hai fatto sempre disperare, sempre tra le nuvole, sempre per i cazzi tuoi, sono tua madre eppure non ti ho mai capito”. Grazie mamma, confrontarsi con te, è molto stimolante. La prossima volta mi compro un paio di scarpe e chissenefrega.

Perché qualcuno dovrebbe comprendere? Non mi sono mai capita nemmeno io, e poi… non sono sicura di volermi davvero scoprire. Ma sto mentendo. Io so chi sono e cosa voglio. Sto aspettando da una vita. “Ma dove sei, dove eri?”.

Proteggo il mio abisso da tutti, soprattutto da me. Indomita ed insopportabile, travolgo ogni cosa con le mie passioni estreme, mi cingo nel recinto della mia preziosa malinconia, un sogno che si alimenta della sua stessa linfa per autodistruggersi e diventare incubo. Una strada senza via d’uscita. Un caso clinico. Forse mi do troppa importanza, perché sono altezzosa, sono semplicemente una cretina superba e piena di sé. Vola basso Ilaria, vola a tiro, se no nessuno ti può abbattere. Ma va bene così, lassù nel cielo.

Meno male che ci sei tu, Malena. Lei è il mio orgoglio, un cucciolone di quaranta chili, un incrocio tra un pastore tedesco e una iena. Quando mi avvicino ringhia, suppongo mi trovi molesta. In fondo, ma proprio in fondo, so che mi vuole bene. Quando sono giù di morale, quindi molto spesso, mi viene vicino, appoggia la sua testa pelosa sulle mie gambe, come a dirmi “so che sei strana, ma sono il tuo cane e posso tollerarti, almeno io”.

È trascorso un altro giorno. Mi appresto a morire un’altra volta per rinascere con l’alba di domani.  Sarò ancora io o scoprirò un’altra me? Ancora una trasfigurazione, ancora una rinascita. La mia beata e immutabile palingenesi. Permetterò a qualcuno di toccarmi l’anima senza rimanerne sconvolta o proteggerò il mio profondo abisso, come un segreto da custodire gelosamente?

Domani nulla sarà cambiato, la Draga si tormenterà ancora nel silenzio assordante della sua grotta fiorita. Il mondo fuori non l’aspetta, non sa neppure che esiste, chissà se imparerà mai a volare. Attendo che un qualcosa si infiltri nella mia caverna, mi esplori, mi avvinghi e mi divori.

Io non sono per tutti. E lui, “il personaggio mitologico”, lo sapeva. Si ostinava a voler indagare la mia singolare extra… extraordinarietà, ma mai compresi la ragione. O forse sì, anzi la capivo benissimo e la cercavo. Ha perso un viatico, prima di sparire sul suo carro alato oltre le stelle?! No, ma questa è un’altra storia…

Non fu un “io posso“ o un “io devo”, ma un “io voglio”. Il suo ultimo messaggio, quasi un bacio, o forse più: “quindi mi tuffai nel suo animo, nella sua mente, ossia nel suo abisso. Era senza via d’uscita e mi ci persi. Lei… un baratro, ma aveva gli occhi belli”.

 

Cameo finale di Joe Oberhausen-Valdez
 

di Ilaria Di Leva

 


 


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