Racconti

IRA

 

Quello che non ci uccide ci fortifica.

Ma se ad uccidere sei tu… come funziona? Quale temibile turbamento si insinua in questa legge metafisica? Senza volere, ho dato vita all’ennesimo interrogativo esistenziale, e, di certo non è la prima volta. D’altro canto, mi nutro di elucubrazioni da quindici anni a questa parte, mentre passeggio tra gli scaffali, con o senza faldoni sotto il braccio. L’archivio del tribunale dove lavoro da tutto questo tempo, pare cambiare forma ogni mattina. A volte i corridoi si allungano all’infinito per poi chiuderti in un angolo. Ti sussurrano da ogni direzione, verbali e confessioni, storie banali di vita e di morte.

È opinione comune credere che in un paesino di tremila anime non succeda mai nulla degno di cronaca. In Italia vige lo stereotipo dei vicoli stretti, quelli in cui trovi solo gli anziani, col bastone d’inverno o seduti sulle sedie di paglia con il primo caldo estivo. E te li immagini con case ammassate, panni stesi e secchiate d’acqua tra una bottega e l’altra. Ma io vaneggio, in fondo vedo il paese al mattino alle cinque e alla sera alle otto, lo vedo sempre al buio; scruto intervalli regolari di tapparelle abbassate; ascolto guaiti animali e umani; princìpi di lamenti smorzati che echeggiano sempre più forti con l’approssimarsi delle oscurità più cupe.

Non conservo più ricordi da prima che venissi qui; sono talmente divorato da ciò che sento che confondo la mia esistenza con quella degli altri. E spesso mi ritrovo nel mio bagno a piangere, credendo di vedere le mie mani insanguinate. L’isolamento forzato in ampi spazi può creare qualche problema. Ma nessuno mi costringe a questa vita, e mia moglie lo sa bene. Quante volte mi ha pregato di raggiungere nostra figlia all’estero e chiudere con questo paese. Credo di averle detto sì un giorno, ma non molto convinto; ha urlato, ma il suono delle sue grida si è persa nei corridoi dell’archivio.

Ho detto che il paese conta tremila abitanti, ma si tratta di un dato del 2009; ad oggi arriviamo a malapena a mille. Morti, fuggiti o semplicemente spariti, ormai non tengo più il conto. Sento il loro battito nei faldoni. Leggo qualche riga per aggiornarmi, ma le lettere cominciano a danzarmi ritmicamente tra le ciglia e le palpebre.

 

Quando finalmente ritrovo la lucidità leggo di Giacomo Melli, di anni 17, uscito a raccogliere castagne in ottobre e ritrovato in stato confusionale nel bosco. Il giorno dopo, ha fracassato il cranio a sua sorella con una pietra in giardino; rientrato in casa, ha accoltellato a morte i genitori; successivamente, si è reciso di netto la carotide.

Scorro ancora un po’ tra le pagine… Caterina Costa, di anni trentuno, rientra da una cena a casa di amici, entra in casa dei vicini dando fuoco a tutto. Sale sul tetto con i capelli completamente rasati e si lascia cadere dal quinto piano, il suo corpo trafitto dalla cancellata poco distante.

Di casi del genere ce ne sono a migliaia, sempre più cruenti e sanguinosi. Non si esclude nulla nel numeroso calderone delle nefandezze, arti e teste recise, corpi straziati da ogni genere di armi. Gole strette da mani nude e idrofobe.

C’è qualcosa di terribile in questo paese: forse nell’aria che si respira e nel profondo dell’animo degli abitanti. Come se fosse una piccola filiale dell’inferno, dove le persone vengono mandate a espiare o condannare, a seconda che tu sia vittima o carnefice. E quando anche l’assassino esala l’ultimo respiro, si archivia tutto… raptus omicida, eccesso di ira, furia assassina.

Mentre si chiude una pagina, l’altra è già pronta a riempirsi di sangue.

Un girone dell’inferno è meno angusto, credo. Ma se fossi all’inferno, si ripeterebbe tutto all’infinito, una macabra routine di sangue come il moto perpetuo dell’espiazione.

Stasera mi gira la testa, infilo l’ultimo incartamento in fondo ad un cassetto. Nell’altro ho nascosto l’accetta, la prendo e la poggio con cura sulla scrivania mentre infilo il cappotto. A casa mia moglie mi aspetta, ancora.
 

Anna Liguori

 


 


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